Fu secoli fa che la domenica delle Palme un uomo entrò a Gerusalemme cavalcando un puledro d’asina, adempiendo deliberatamente una profezia di diversi secoli prima, per dichiararsi il re divino, non solo di Israele, ma dell’universo. Era il Figlio di Dio, e dichiarandosi tale, è entrato lunedì nel Tempio, facendo in casa sua le pulizie pasquali e ripulendola dagli ipocriti e dagl’imbroglioni, come divino padrone di casa, venuto a reclamare ciò ch’era suo.
Dato che è martedì mattina, diamo una breve occhiata a quello che è successo quel martedì della Settimana Santa, molto tempo fa. Questo è stato l’ultimo giorno del suo ministero pubblico, una giornata di dibattito pubblico con i farisei, d’insegnamento con parabole e discussioni con i suoi discepoli sulla fine dei tempi e la fine del mondo. Un punto è di particolare interesse: nei versi conclusivi di Matteo 22 nostro Signore ha usato un salmo di Davide per dimostrare dalla testimonianza di quel re la preesistenza del Figlio di Dio. Quindi due cose spiccano nell’affermazione di Gesù su se stesso. Prima di tutto, dichiarò di essere da sempre, di avere un’esistenza infinita ed eterna identica alla vita di Dio. In secondo luogo, dichiarò che l’intero scopo del suo soggiorno terreno poteva essere riassunto nella croce, che, in effetti, era venuto per dare la sua vita in riscatto per molti, per liberarli dal potere del peccato e della morte.
Questi due punti sono importanti: se li si tolgono non si ha il Gesù che possa essere identificato con l’uomo che visse in Galilea e andò a Gerusalemme per morire. Quell’uomo affermò di essere Dio nella carne e dichiarò che la sua morte avrebbe cambiato la natura dell’uomo. Dichiarò, e i suoi discepoli lo testimoniarono, che sarebbe risuscitato dai morti nello stesso corpo con cui era stato crocifisso. O le affermazioni di quell’uomo erano giuste, oppure era un povero pazzo che meritava di essere compatito o rinchiuso, piuttosto che adorato. Non possiamo rimodellarlo per adattarlo a noi stessi: dobbiamo noi essere ricreati per diventare adatti a Lui.
Se lo accettiamo per le sue stesse affermazioni, scopriamo sempre più che in Lui abbiamo potere sul peccato. Questo è un fatto ovvio che solo gli intenzionalmente ciechi possono negare. La seconda parte della nostra vittoria in Cristo, tuttavia, non è così ovvia, e questa è la nostra vittoria sulla morte. Mettiamola così: se Gesù Cristo è morto per noi, per liberarci dal potere del peccato e della morte, allora è morto la morte che dovevamo morire noi, cioè come ribelli contro Dio. Pertanto, la pena è pagata. Ora possiamo porre la domanda che spontanea ci viene in mente: se è morto per noi, perché dobbiamo morire? Dopotutto, ognuno di noi sta ancora affrontando la morte. Siamo liberi dal potere del peccato, questo lo possiamo riconoscere, ma con tutto ciò moriamo ancora. Perché anche noi dobbiamo morire? La risposta del Catechismo di Heidelberg è: “La nostra morte non è un pagamento per il nostro peccato ma solo un morire al peccato ed entrare nella vita eterna” (D. 42; R.).
Finché siamo in questo mondo, non siamo mai completamente liberi dal potere del peccato e della morte. C’è in noi il vecchio Adamo, con la sua continua perversità. Intorno a noi c’è la persistente tensione di un mondo che cerca costantemente di suicidarsi mentre invoca più vita. Vediamo che tutto cambia, e tuttavia rimane sostanzialmente lo stesso: contaminato e pervertito davanti a Dio. I domani del mondo arrivano, ma appaiono solo come l’incubo di ieri elevato a potenza. E l’uomo, creato a immagine di Dio, sente il profondo richiamo da dentro la sua anima e grida: “O miserabile uomo che sono! chi mi libererà dal corpo di questa morte?” (Rom. 7:24).
La nostra vita in questo mondo, e il mondo stesso, è un corpo di morte per noi. Promette il paradiso ma non può mai darlo, e per questo è ingannevole e fraudolento. Non possiamo mai trovare qui qualcosa che è altrove. La nostra vera vita non è qui: è nascosta con Cristo in Dio. Solo quando vediamo che lo scopo e oggetto della vita è glorificare Dio e goderlo per sempre, vediamo questo mondo nella sua giusta prospettiva e siamo in grado di ottenere da esso la gioia che può produrre. Non ci aspettiamo più dal mondo ciò che non può dare, ma ci aspettiamo di più dal Signore.
Ora, guardiamo di nuovo alla nostra domanda, perché dobbiamo morire, se Cristo è morto per noi? La risposta è questa: proprio come dobbiamo morire a noi stessi, così alla fine dobbiamo morire in questo mondo e questa vita per ottenere la pienezza della vita. La nostra morte non è una punizione per il peccato ma un’abolizione del peccato e della morte, perché ci consegna alla vita eterna. La morte completa il processo di svezzamento della nostra vita spirituale. Nella nostra vita, voi ed io siamo stati finora svezzati da una serie di cose; ogni volta, il processo è stato doloroso o impegnativo, ma i risultati sono stati meravigliosi. È così con la morte, che corona i nostri giorni e ci dà il nostro diploma da questa scuola del mondo e del tempo. Per i cristiani, la morte è una grazia che porta alla pienezza della vita. Quindi possiamo dire con gioia: Gesù Cristo è risorto dai morti. È davvero risorto e ci ha liberati dal corpo di questa morte.
R. J. Rushdoony