APOCALISSE 2:1-7
FALSA SANTITÀ
Apocalisse nella sua interezza è una lettera aperta e “la rivelazione di Gesù Cristo” (1:1), il quale dichiara: “Io, Gesù, ho mandato il mio angelo per testimoniarvi queste cose nelle chiese” (22:16). Non c’è dunque da meravigliarsi che Giovanni, da scriba (1:4) abbia parlato, come ha notato Ramsay, “Col tono dell’assoluta autorità. Egli spinge questo tono all’estremo, molto al di la perfino di quello degli altri apostoli, Paolo e Pietro, nello scrivere alle chiese dell’Asia” [1]. Gesù Cristo parla alla chiesa del tempo di Giovanni e di tutti i tempi con autorità assoluta e in modo definitivo.
Apocalisse 2 e 3 sono perciò lettere dentro una lettera, delle parentesi, affermazioni particolari a certi tipi di chiese di tutti i tempi, mentre il resto del libro è indirizzato apertamente a tutte le chiese. La forma dell’indirizzo è particolarmente rivelante: “All’angelo della chiesa di Efeso, scrivi…” Il commento di Ramsay riguardo sia all’ “angelo” sia alla “stella” sono particolarmente pertinenti:
È fondamentalmente la stessa idea di un piano più alto e uno più basso di esistenza che viene espresso nel simbolismo dell’angelo e delle stelle in cielo, il quale corrisponde alla chiesa e ai candelabri sulla terra. Il candelabro, che rappresenta la chiesa, è un simbolo naturale e ovvio. La chiesa è divina: è il regno di Dio tra gli uomini, in essa risplende la luce che illumina le tenebre del mondo.
Perciò la stella e l’angelo, di cui la stella è il simbolo, sono gli stadi intermedi tra Cristo e la sua chiesa col suo candelabro che risplende nel mondo. Questo simbolismo fu preso in prestito da san Giovanni dalle forme di espressione tradizionali nelle teorie riguardanti la natura divina e la sua relazione col mondo.
Nuovamente, osserviamo che, nel linguaggio religioso simbolico del primo secolo, una stella denotava l’essere celeste corrispondente ed un essere divino, o una creazione divina o un essere locato sulla terra. Così, nel linguaggio dei poeti romani, la figura divina dell’imperatore sulla terra ha una stella in cielo che gli corrisponde e che è la sua controparte celeste. Così l’intera famiglia imperiale si diceva avesse la sua stella o che fosse una stella….
La stella, perciò, è ovviamente l’oggetto celeste che corrisponde al candelabro che risplende sulla terra benché superiore ad esso in carattere e purezza, l’equazione dunque è: il candelabro sulla terra sta alla stella in cielo, come la chiesa sulla terra sta all’angelo. Questa è la relazione chiaramente indicata. L’angelo è l’essere corrispondente su un altro e più alto piano d’esistenza, ma più puro in essenza, più strettamente associato con la natura divina di quanto possa essere la chiesa individuale sulla terra [2].
L’ovvio difetto di questo commento perspicace è il suo platonismo, mentre qui ed altrove le Scritture sono marcatamente ostili al platonismo e alle sue idee. Il pensiero biblico è tipologico, mai astratto come nel platonismo. Inoltre, la tipologia vede la realtà spesso come manifesta nella storia, non in un universo astratto e trascendentale. Così, la tipologia nelle Scritture è di tre tipi:
I tipi, inoltre, possono prefigurare e predire. In questo modo, mentre la realtà fa parte del reame degli universali astratti nel platonismo, la fede biblica, mantenendo sempre la priorità della Trinità ontologica con il decreto sovrano ed eterno, col quale l’ordine temporale è predestinato e subordinato all’eternità, ciò nonostante fa dell’ordine temporale un dominio della realtà per mezzo della tipologia. La realtà viene vista come fatti passati, presenti e futuri ed è sia temporale che eterna, dove invece per il platonismo la realtà non è mai temporale, non avendo passato, ne presente, ne futuro, e, nella sua eternità è sia impersonale sia astratta. La grande certezza data al credente che “tutte le cose cooperano al bene” (Ro. 8:28) è possibile solamente nei termini del duplice fatto che c’è un decreto eterno o assoluta predestinazione, e che “tutte le cose” hanno una realtà, nel fatto che né il tempo né nessun era o porzione del tempo è escluso dalla presenza e manifestazione della realtà ed è in integra relazione con la realtà. “L’angelo della chiesa di Efeso” in questo modo non è un universale astratto o “un essere corrispondente su un piano diverso e più alto, ma più puro in essenza, più strettamente associato con la natura Divina di quanto la chiesa individuale sulla terra possa essere”. L’angelo è la chiesa in ombra – immagine – corpo, è tipo e antitipo insieme, come modello e copia, è una chiesa totalmente afferrata nella “sua mano destra” (2:1), ed ancora non totalmente in Lui. Alla realtà (della chiesa) è attribuita la sua piena posizione in Cristo, e la realtà è allo stesso tempo attribuita al suo stato presente di servizio e di imperfezione. È la chiesa il cui passato, presente, futuro e stato eterno sono strettamente interconnessi, tutti possedendo realtà e allo stesso tempo espressione di ombre e di tipi l’uno dell’altro. Questa è la chiesa nella pienezza della sua vita e della sua realtà.
In questo modo, la vita del credente nel regno non è un annullamento del passato ma il suo adempimento. Il regno è “i tempi della restaurazione di tutte le cose” (Atti 3:21) e il tempo della loro rigenerazione (Mt. 19:28). Il disprezzo per la storia quindi non è né santo né sostenibile. Il pensiero non biblico è sempre culminato in un cinismo nei confronti della storia, vedendola nei termini del caso cieco o del determinismo, e di ricorrenze senza significato, cercando di unire Dio e l’uomo in una grande catena dell’essere, ha distrutto il vero fondamento del significato. Ogni essere diventa uno, ugualmente divino e ugualmente privo di significato, l’uno e il molteplice pure sono senza significato nel fatto che l’uomo si perde, o in un mare di particolari, o alla deriva in un non differenziato oceano dell’essere. La dottrina biblica della Trinità ontologica, come ha dimostrato Van Til [3], ha per fondamento la realtà e l’unità dell’uno e del molteplice, uguali, insieme nel costituire il valore ultimo dell’Essere; la dottrina della creazione, con la sua distinzione creatore – creatura, ci fornisce il principio interpretativo, nel fatto che il creatore è anche la fonte del significato, essendo tutti i fatti, fatti creati da Dio. La tipologia è un aspetto essenziale di questa interpretazione poiché in essa viene affermata la correlazione tra il temporale e l’eterno, ma senza confusione. Il matrimonio, per esempio possiede di più della propria natura fisica e temporale ed è tipico della relazione di Cristo e la Sua chiesa, proprio come la paternità umana è un’immagine dell’eterna relazione della Trinità ontologica tra Padre e Figlio [4].
Inoltre, la redenzione implica, non il semplice ingresso dell’anima dell’uomo dentro al regno, ma l’ingresso nella pienezza di vita, cosicché l’ordine redento è il vero ordine, quell’ordine nei cui termini solamente la vita ha significato. Vita, famiglia, società, legge, governo e altre sfere di attività umana non hanno esistenza indipendente da Dio e senza di Lui non possono esistere a lungo senza collassare e morire. Perciò la vita redenta è anche l’ingresso nell’opportunità di avere pienezza di vita in ogni sfera, e le sfere vengono ora viste come aspetti veri del regno di Dio. Perciò Paolo, nel riformulare il quinto comandamento, utilizza un termine nuovo per “onorare”: “Onora tuo padre e tua madre” (Ef.6:2) dove “onorare” significa, nel Greco, “tributare un prezzo e poi tributare onore” e si riferisce quindi al prezzo di sangue. Questa affermazione è fatta al popolo del patto e dichiara che le stesse sfere e strutture della vita nel regno sono date–da–Dio e parte dell’ordine redento. L’espiazione di Cristo non solo portò la vita al popolo di Dio, ma anche le condizioni pattizie della vita, cosicché famiglia società, scuola, stato ed ogni sfera deve essere reclamata dal credente come propriamente il suo reame in Cristo. Vero onorare i genitori, e qualsiasi altro aspetto del patto, è vedere il loro statuto nei termini della parola di Dio e comprendere il loro ruolo come sfaccettatura della pienezza di vita nel regno.
Questo rende chiaro un punto enfatizzato da Ramsay ma negletto da molti commentatori, riguardante la relazione della chiesa con Efeso.
Egli (Giovanni), assume sempre che la chiesa è, in un senso, la città. La chiesa locale non vive separatamente dalla località e dalla popolazione, in mezzo alla quale ha una dimora meramente temporale. La chiesa è tutto ciò che è reale nella città. Il resto della città ha fallito la realizzazione di se stessa, della propria vera identità, e si è fermata nel proprio sviluppo. Similmente, la chiesa locale a sua volta non è giunta al suo perfetto sviluppo: l’ “angelo” è la vera, la realtà, l’idea (in senso platonico) della chiesa. Così, in quel caratteristico simbolismo la città sta alla sua chiesa nella stessa relazione in cui la chiesa sta al suo angelo [5].
Ancora una volta la prospettiva di Ramsay è platonismo e chiaramente errata, ma la sua percezione della relazione della città alla chiesa è chiaramente sulla strada giusta. Come Ramsay ed altri hanno notato, Apocalisse ci dà il conflitto frontale di due grandi imperi invisibili, Babilonia la Grande e la Nuova Gerusalemme. Questo conflitto si manifestò visibilmente tra Roma e la chiesa. Roma cercò costantemente di eliminare la cristianità, o almeno di ridurla allo stato di un culto romano dedicato a provvedere cemento sociale. Roma non poteva rimanere Roma e tollerare la cristianità, una rivale molto più mortale di Cartagine per la sua struttura basilare. Due imperi molto reali erano chiaramente in conflitto. Efeso era una caposaldo centrale di quell’impero in Asia, e la chiesa di Efeso non di minore importanza quale centro visibile dell’impero di Cristo. Nessuna delle due era un’ombra nel senso platonico. I due sono imperi rivali, ma Roma è dedicata all’odio di Dio che comporta morte (Pr. 8:36), mentre la chiesa è una tribù del Signore, in esodo dal mondo di quell’impero alla terra della promessa e dell’adempimento. L’Efeso di Roma è il Canaanita che deve essere spossessato, mentre la chiesa di Efeso è la vera Canaan di Dio. Questa conquista avverrà “a poco a poco”: “L’Eterno, il tuo DIO, scaccerà a poco a poco queste nazioni davanti a te; tu non riuscirai a distruggerle subito, perché altrimenti le fiere della campagna diventerebbero troppo numerose per te” (De. 7:22); L’ordinamento sociale richiede il procedimento lento, ma deve essere continuo. La chiesa non può diventare fredda nel suo amore e nel suo servizio (Ap. 2:4-5). Non sorprende, perciò, che il linguaggio delle lettere sia “tratto dall’uso militare”: “a colui che vince” (2:7) 6. Due imperi sono in guerra e ciascuno reclama il titolo delle stesse città e delle stesse terre.
“Queste cose dice colui che tiene le sette stelle nella sua destra e che cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro” (2:1). Le sette stelle e i sette candelabri d’oro si riferiscono entrambi alle “sette chiese” cioè alla chiesa nella sua interezza. Il commento di William Barclay in riferimento al verbo “tiene” è centrato:
In questa frase viene usato Kratein, non col genitivo usuale, ma col molto più inusuale accusativo. Il significato è che Gesù Cristo tiene la totalità della chiesa nella sua mano. Non è una chiesa qualsiasi ad appartenere esclusivamente a Gesù Cristo, nessuna singola chiesa è la chiesa di Gesù Cristo. Egli tiene tutte le chiese nella Sua mano, poiché tutte le chiese sono sue e tutte gli appartengono.
Inoltre, egli cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro. Ciò equivale a dire che la presenza del Cristo risorto è in ogni chiesa. La sua presenza e la sua potenza non sono confinate ad una singola chiesa; egli è lì nel mezzo di loro tutte [7].
“L’attribuzione della dignità divina”, come Stauffer ha osservato, caratterizza Apocalisse 2:1 nel suo riferirsi a Gesù [8].
“Io conosco le tue opere, e la tua fatica e la tua costanza e che non puoi sopportare i malvagi, e hai messo alla prova coloro che si dicono apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi” (2:2). Barclay ha richiamato l’attenzione sul primo “e” di questa frase, un “e epesegetico” che “spiega ciò che viene prima”, cosicché, come la traduce il Barclay, la clausola dice: “conosco le tue opere, con ciò voglio dire la tua fatica e la tua costanza”. Fatica è kopos, la “fatica che rende esausti”, e costanza è hupomone, “fermezza trionfante” [9]. La pazienza della chiesa di Efeso, comunque, non si riferisce agli eretici, che furono abilmente messi alla prova ed esclusi, si riferisce alla loro stessa prova sotto persecuzione, mentre l’Impero Romano cercava di distruggere questo bastione dell’Impero di Cristo (2:3). Questa persecuzione aveva indebolito il loro amore (2:4), nel fatto che i credenti si stancarono delle afflizioni e persero speranza. Servire Cristo era divenuto solo combattimento, e le dimensioni importanti e necessarie della speranza e del premio (Eb. 11:6) si spegnevano e sembravano remote. Ma fede, speranza e amore sono facce diverse di uno stesso fatto, e l’uomo non può rimanere a lungo nella vera fede senza speranza e amore (1 Co. 13:13). La perdita della speranza e dell’amore sotto il fuoco nemico significò un corrispondente declino della fede. Una chiesa senza una viva speranza è una chiesa che sarà presto sradicata da Gesù Cristo (2:5), e una chiesa che rigetta la storia quale dimensione della fede, della speranza e dell’amore è allo stesso modo sotto giudizio. L’avvertimento a Efeso è perciò un avvertimento di grande gravità: o ti muovi nella piena confidenza di fede, speranza e amore, confidando in me quale fondamento di vittoria, o ti muovi nei termini di morte e rimozione. Nondimeno, un po’ del loro “primo amore” rimane nel loro odio delle “opere dei nicolaiti, che odio anch’io” (2:6). Questa affermazione qualifica quella precedente “Ma io ho questo contro di te, che hai lasciato il tuo primo amore” (2:4). Non si può amare Dio senza odiare tutto ciò che Egli odia e tutto ciò che gli si oppone. Chi non può odiare non può neppure amare ed è incapace sia di agire sia di sperare.
“Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: a chi vince io darò da mangiare dell’albero della vita, che è in mezzo al paradiso di Dio” (2:7). Quel paradiso che fu la condizione di vita dell’uomo prima della caduta sarà in senso nuovo e compiuto la sua eredità in Cristo. L’albero della vita sarà di nuovo la scaturigine della sua vita e l’essenza della sua natura redenta. L’albero della vita è Gesù Cristo, che si proclamò “pan di vita” che dà la vita eterna (Giovanni 6:47ss), e di essere la fonte dell’ “acqua viva”, “fonte d’acqua che zampilla in vita eterna” (Giovanni 4:10,14). Cristo è dunque il fondamento e la condizione del paradiso. Non ci può essere evasione dalla guerra tra imperi nella speranza di trovare riposo e ristoro ai margini o nel campo nemico: il riposo esiste solo in Lui, e nella vittoria, combattendo la guerra tra gli imperi, nel suo nome.
Efeso, intitolata la “Suprema Metropoli dell’Asia” e città di grande importanza commerciale e amministrativa (sede di una corte d’assise), era anche una città di grande importanza religiosa in quanto località del Tempio di Diana. Il fondale del suo fiume–canale richiedeva lavoro continuo per essere liberato dal limo. Proprio come la chiesa di Efeso era un “tipo”, così la città di Efeso possedeva un significato che la caratterizzava (tipizzava) nella propria vita e nella propria fede.
Nessuna chiesa poteva esistere in tale centro senza o compromettere o combattere: più era la vicinanza al centro e più era vicino il centro del conflitto. Proprio per questo Paolo aveva dato a Efeso molto tempo e molti sforzi, come pure aveva fatto Giovanni. Qui, al centro, bisogna affrontare il combattimento.
Inoltre, la vittoria era assicurata se la chiesa avesse mantenuto la propria posizione in Cristo. La religione del mondo era ben rappresentata nei sacerdoti di Diana, chiamati Megabyzi, eunuchi. Efeso, nelle sue monete, chiamava se stessa la neokoros o schiavo delle pulizie del Tempio di Diana. Qui c’era un sacerdozio dell’escapismo, una fuga dal mondo, un sacerdozio di uomini castrati che Dio dichiara inadeguati al suo servizio. Solo l’uomo intero, che affronta tutte le responsabilità della vita, è chiamato al servizio di Dio il Signore. Il tempio di Diana possedeva anche il diritto d’asilo, cosicché Efeso era piena di criminali che ne avevano fatto il proprio rifugio. Il diritto di santuario o asilo nelle Scritture è limitato ai casi di omicidio involontario, per proteggere l’uomo dalla vendetta. Le lettere efesine vendute al tempio erano amuleti magici da indossarsi da parte di credenti. In ogni suo aspetto, il culto di Diana rappresentava l’escapismo, una fuga dalla realtà, e la giustificazione del male nel nome della misericordia. Era dedicato alla morte e alle vie della morte, e la sua santità era solo castrazione. Ogni fede che abbia un disprezzo per la storia alla fine costringerà il proprio clero a diventare, fisicamente o psichicamente, eunuchi come misura della loro santità. Questa eresia si è infiltrata nella chiesa capillarmente.
Ma la chiamata alla chiesa è di cingersi per un agire continuato, di mantenere la posizione, combattere, amare e odiare da uomini. L’uomo non può rifiutarsi di essere uomo, non può cercare la fuga nell’eunuchismo e diventare niente di più di un’abominazione per Dio; né può cercare di essere di più di un uomo, di innalzarsi fino al cielo e di essere come Dio. Questi tentativi gemelli dell’uomo apostata, eunuchismo o divinizzazione, hanno come risultato solo e sempre la morte. L’albero della vita è solo per coloro che, da uomini, vincono in battaglia, coloro che entrano e possiedono la terra sotto Dio. L’uomo è chiamato alla vittoria mediante il combattimento.
Note:
1 W.M. Ramsay, The Letters to the Seven Churches of Asia And Their Place in the Plan of the Apocalipse New York: Doran, 1904; p. 79s.
2 Ibid, p 67-69.
3 Vedi Cornelius Van Til, The difense of Faith, 1955. A Christian Theory of Knowledge, 1954, Christian Apologetics, 1953, ecc., Presbyterian end Reformed Publishing Co.
4 Vedi R. J. Rushdoony Intellectual Schizophrenia, Philadelphia, Presbyterian and Reformed Publishing Co, 1961, pp.21-37.
5 Ibid, p. 41
6 Vedi Martin Rist, op. cit.. p. 382
7 William Barclay, Letters to the Seven Churches, New York: Abingdon, 1957. p. 19
8 Ethelbert Stauffer, NewTestament Theology, New York, Macmillan, 1956; 248
9 Barclay, Op. Cit., p. 19s.