INDICE:
Ascolta l'audiolibro:

DANIELE 2

IL TERRORE DEI SOGNI

 

Mentre non ci sono attività inconsce e potenzialità nascoste in Dio, l’uomo è da esse fortemente governato, e i sogni sono un ricordo persistente di questo fatto. I sogni sono la costante resuscitazione di un passato morto ed impotente:

Sleep, kinsman thou to death and trance And madness thou hast forged at last
A night-long Present of the Past [1].

Sonno, parente tu di morte e trance E di pazzia infine hai tu forgiato
Un Presente notte-lungo del Passato.

Con questo ricordare la fragilità dell’uomo e la mancanza di libertà assoluta e di possibilità di determinare la propria vita, i sogni parlano anche di morte, trance e pazzia all’uomo orgoglioso. Anche la gioia che un uomo gode nei sogni è illusoria, come un proverbio comune alle varie culture dice: “Dopo aver sognato di nozze arriva un funerale”. L’irrealtà del potere dell’uomo rivelata dai sogni getta ombre sulla realtà del suo autogoverno da sveglio, cosicché nel cuore dell’uomo di tutte le culture si soleva anche la questione del risveglio: “Dormo? Sogno?… Le cose sono ciò che sembrano?” Prospero, nella Tempesta di Shakespeare, esprime il cinismo che riguarda la vita rassomigliandola al sogno a causa della sua inconsistenza:

We are such stuff
As dreams are made on, and our little life Is rounded with a sleep.

(Noi siam di quella materia Di cui son fatti i sogni,
e la nostra piccola vita È circondata da un sonno.)

Sicuramente, dovunque l’uomo aspiri d’essere come Dio, e di affermare una libertà assoluta, i sogni sono un terrore nel richiamare alla memoria la creaturalità, la colpevolezza, e la condanna. Il terrore dei sogni, perciò, è il terrore della mortalità, della colpa, e la disperazione della mutabilità.

Nabukadnetsar, sia consciamente sia inconsciamente, era venuto faccia a faccia con questo terrore. Prima di dormire, egli era stato profondamente preoccupato per il futuro (2:29). Il suo grande impero, costruito sul principio della continuità e sul sogno della mondializzazione, avrebbe potuto un giorno incontrare quella radicale discontinuità di morte e distruzione che aveva sovrastato precedenti Torri di Babele. Tali angosciosi fatti hanno spesso portato l’uomo, dagli antichi a Nietzsche fino al presente, ad un concetto ciclico della storia, all’orrore della mancanza di significato dell’eterna ricorrenza. Dormendo dopo tali infelici meditazioni, Nebukadnetsar fu soggetto da Dio ad un sogno in risposta alla sua pressante preoccupazione riguardo ciò che deve avvenire da quel momento in poi; (2:29), ma la sua reazione era stata di terrore (2:1).

La sua reazione da sveglio era stata di odio verso l’impotenza dei professionisti religiosi e scientifici del suo tempo e un desiderio di mettere a nudo la loro futilità. Avendo conosciuto il terrore di ciò che non si vede o non si conosce, e comprendendo vividamente come l’uomo nella sua più orgogliosa conoscenza potesse solamente pattinare sul ghiaccio sottile del visibile o del conosciuto, il suo stimolo, il suo forte desiderio fu per la distruzione di massa. Era paragonabile al risentimento del malato verso il sano, del morente verso il vivente. Avendo visto il lavoro di tutta la sua vita ridotto in essenza a un nulla, egli cercò selvaggiamente la riduzione di tutta la conoscenza dell’uomo alla stessa morte e allo stesso caos. La sua richiesta, che i suoi saggi interpretassero il sogno senza conoscerlo, non era basato sul fatto che egli l’avesse dimenticato ma sul fatto che deliberatamente voleva tenerlo nascosto.

Essi risposero una seconda volta e dissero: “Racconti il re il sogno ai suoi servi e noi ne daremo l’interpretazione”. Il re allora rispose e disse: “Mi rendo chiaramente conto che voi intendete guadagnare tempo, perché vedete che la mia decisione è presa; se non mi fate conoscere il sogno, c’è un’unica sentenza per voi; vi siete messi d’accordo per dire davanti a me parole bugiarde e perverse, nella speranza che i tempi mutino. Perciò raccontatemi il sogno e io saprò che siete in grado di darmene anche l’interpretazione” [2].

Questi uomini eruditi, messi di fronte ad un decreto di morte, furono sia consciamente sia inconsciamente evasivi. La loro evasività consapevole era un tentativo di guadagnare tempo fino a che il re avesse cambiato umore, e con ciò salvate le loro vite. La loro evasività inconsapevole era la volontà di non affrontare le implicazioni del terrore dei sogni. Il sogno poteva essere spiegato senza conoscenza dei particolari; tutte le speranze dell’uomo di essere autonomo, il suo rifiuto dell’eterno decreto di Dio, la sua insistenza sulla non conoscibilità di Dio e sulla conoscibilità dell’uomo, venivano ridotti al nulla e al terrore da qualsiasi sogno. Nei sogni l’uomo testimonia inconsciamente del peso della sua colpa riguardante il passato, della sua impotenza nel presente, e della sua ignoranza e paura del futuro. Quando i saggi di tempi più recenti, a cominciare con Freud, iniziarono, quantunque in modo fallace, a rivolgersi ai sogni e all’inconscio in una ricerca più sistematica, fu l’inizio dell’auto-consapevolezza epistemologica dell’uomo, ed il lavoro di Freud è stato spesso rifiutato per questa ragione oltre che per i suoi errori. L’uomo dimentica i suoi sogni e dimentica il significato dei sogni per poter sfuggire all’auto-consapevolezza epistemologica. Il suo tentativo di fare i conti, di venire a termini col fatto dell’esistenza del suo essere inconscio è stato subdolo: i sogni, e il preteso governo di stelle e pianeti (come nell’astrologia, il riconoscimento dell’uomo di un controllo esterno) sono parte di un continuum, cosicché la consapevolezza dell’uomo è condivisa con un cosmo il cui determinismo [3] è pure condiviso dall’uomo, cosicché un’essenza e una divinità comune, ed una comune lotta caratterizzano l’insieme dell’essere. Il fatto della creaturalità viene così ovviato ed evitato. Sogni e stelle sono pure utilizzati per evadere la responsabilità, in modo che l’uomo, nella sua ambivalenza, afferma da un lato, la totale autonomia e responsabilità come dio, e dall’altro lato, nega la sua umanità responsabile e ogni imputabilità nel nome del caso e di un condizionamento totale.

Nebukadnetsar, spinto da un desiderio di mettere a nudo la pretenziosità della conoscenza autonoma dell’uomo, forzò la questione in termini che richiedevano la resa dall’uomo, o il riconoscimento dell’onnipotenza del terrore e della morte. Avendo conosciuto la futilità, non avrebbe tollerato speranza né conoscenza. Avendo annusato la morte, odiava la vita.

Il decreto di esecuzione fu trasmesso, e ad Ariok fu comandato di procedere. Il decreto includeva tutti i membri del collegio reale, inclusi quelli non immediatamente consultati, come Daniele ed i suoi amici, che erano ignoranti delle sue cause (2:13s). Era in essenza un decreto contro la conoscenza ed un attacco ad ogni sapere perché futilità. Se Nebukadnetsar era condannato alla mutabilità e all’insignificanza, e Babilonia insieme a lui, allora ai suoi filosofi e ai suoi saggi meno di chiunque altro sarebbe stato permesso il lusso dell’auto-inganno.

È importante comprendere questo umore, perché è sempre più il temperamento dell’uomo moderno. Warner, nel suo The Urge to Mass Destruction ha descritto questo senso d’impotenza e di sconfitta, e il suo bisogno di distruggere, come un impulso “ad organizzare la distruzione di massa”, a “desiderare una fossa comune per tutti” e a trovare “vittoria nella sconfitta” e nella distruzione totale [4]. Il Nichilismo ed il bagno di sangue sono la vendetta sulla vita dell’uomo sconfitto ed il suo mezzo di trionfo, e questo, almeno in parte fu il sentimento di Nebukadnetsar, come è quello di tutti gli uomini empi, potenzialmente, o nei fatti, in gradi diversi. Un uomo che non ha ragione di vivere ha una ragione per odiare la vita, ed un uomo senza speranza detesta ogni speranza come fosse un brutto male. Non è sufficiente condannare questo cinismo, bisogna dargli una risposta.

Daniele e i suoi amici, sentenziati a morte senza che avessero commesso alcun crimine, immediatamente implorarono Dio in preghiera, e Daniele ricevette la sua risposta in una visione notturna. Il significato fu compreso immediatamente da Daniele: “Sia benedetto il nome di Dio per sempre, eternamente, perché a lui appartengono la sapienza e la forza. Egli muta i tempi e le stagioni, depone i re e li innalza, dà la sapienza ai savi e la conoscenza a quelli che hanno intendimento. Egli rivela le cose profonde e segrete, conosce ciò che è nelle tenebre, e la luce dimora con lui.” (Da. 2:20-22)

…il corso della storia giace nelle mani di Dio. Questi periodi critici che avvengono nel reame del tempo (i tempi e le stagioni) sono determinati da Dio…Non è solo in cielo che dobbiamo cercare le evidenze della potenza di Dio, ma anche sulla terra dove la sua potenza è dimostrata giornalmente nel controllo di tutte le cose … Dio ha la sovrana determinazione di tutti i cambiamenti politici. In questa espressione, dice Montgomery, risiede una sfida al fatalismo della religione astrale Babilonese, una caratteristica che nella sua influenza è sopravvissuta a lungo nel mondo Greco-Romano [5].

Qui c’è un’affermazione netta del decreto eterno: l’oscurità esiste, e il reame della creazione è molto carico del peso della potenzialità e dell’ignoto, ma saggezza e luce abitano con Dio, che è nella sua totalità interamente onnisciente ed auto-consapevole ed inevitabilmente agisce con uno scopo e nei termini di un decreto eterno. Ogni mutabilità è nei termini di questo obbiettivo, e i cambiamenti e i tempi delle stagioni di conseguenza non sono mai futili ma sempre pieni di proposito. Inoltre, il tempo presente non è meramente concime per il tempo futuro, ma il tempo stesso rivela Dio ed il suo decreto eterno, che è sempre reso manifesto ai saggi e intelligenti, quelli che sono del Signore e le cui vite sono governate dalla Sua parola. Il cinismo di Nebukadnetsar è dunque senza scuse perché fine a se stesso, benché passo necessario verso la sua disillusione delle interpretazioni filosofiche dell’uomo autonomo. La preghiera di ringraziamento di Daniele (2:23) è il suo gioire nella grazia sovrana di Dio. Il fondamento di questa rivelazione non è qualche merito da parte di Daniele ma la grazia di Dio libera e predestinante.

Daniele, portato davanti a Nebukadnetsar, enfatizza l’impotenza dell’uomo contro il decreto eterno (2:27), ponendo tutto il potere e la gloria in Dio, che solo è la fonte di ogni determinazione, interpretazione e potenza. Daniele negò qualsiasi merito da parte sua. Dio lo aveva usato come strumento per portare a Nebukadnetsar auto-consapevolezza epistemologica (2:28 Dio fa conoscere!), cosicché egli può considerarsi e conoscere se stesso in relazione a Dio.

Daniele disse che il sogno di Nabukadnetsar fu di una immagine grande e terrificante la cui (1) testa era d’oro fino, (2) il suo petto e le sue braccia d’argento, (3) il suo ventre e le sue cosce di bronzo, e (4) le sue gambe di ferro i suoi piedi in parte di ferro in parte d’argilla, chiaramente un quadro di deterioramento. Una pietra fu “tagliata senza mani” e, non per mano d’uomo “colpì l’immagine ai suoi piedi” distruggendola così radicalmente che i frammenti furono “come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via e di essi non si trovò più alcuna traccia. Ma la pietra che aveva colpito l’immagine diventò un grande monte, che riempì tutta la terra.” (2:31-35)

Daniele ne diede dunque l’interpretazione:

  1. 1)  C’è un decreto sovrano, emanato da un Dio sovrano per il cui ordine unicamente Nebukadnetsar regna. Niente può essere compreso se non a partire da questa presupposizione.
  2. 2)  La testa d’oro è Nebukadnetsar e il suo impero, che rappresenta in forma particolare e potente il sogno imperiale e cosmico dell’uomo autonomo.
  3. 3)  Seguirà un secondo impero, che darà corpo allo stesso sogno, ma con minore capacità. Più avanti nel libro questa potenza è vista da Daniele come l’Impero di Medo-Persia.
  4. 4)  Il terzo, di bronzo, rivelato più avanti essere l’impero di Alessandro Magno e gli stati stabiliti dai suoi successori.
  5. 5)  Poi assume il comando la quarta potenza, più tardi identificata con Roma che rappresenta il culminare dell’antico sogno dell’impero come ricostruzione del sogno dell’uomo di un paradiso senza Dio. I suoi componenti però non hanno coesione e, come ferro e creta non si amalgamano.
  6. 6)  Ai giorni di questo quarto impero, una Quinta Monarchia, di origine sovrannaturale, distruggerà l’antico sogno e lo sostituirà con un vero impero che conquisterà la terra e “sussisterà in eterno” (2:36-45).

Nebukadnetsar, confrontato col terrore dei sogni, di essere governato e conquistato dall’inconscio cosmico, la rivolta e la signoria dell’ignoto o sconosciuto, dell’universale nascosto, e del sonno che sopraffà i brevi stati da sveglio dell’uomo, riceveva ora una risposta altra dal caso o dal fatalismo come chiave della storia. La questione, in ultima analisi è tra il caso e il decreto eterno, ma l’uomo l’ha immaginato anche coinvolgere un’altra e illogica alternativa. Le alternative dunque diventano:

  1. Il regno e la causa ultima del caso. Affermazioni e significato diventano impossibili, come pure legge, conoscenza, scienza e la vita stessa. Nessuna cultura ha mai affrontato le implicazioni del valore ultimo del caso senza collassare.
  2. Determinismo cieco e materialista o fatalismo. Il fortuito concorso di atomi ha in qualche modo e illogicamente portato ad un cieca ed inanimata legge che è irrilevante alla consapevolezza, che manca di qualsiasi significato, e che conduce solo alla miseria dell’eterna ricorrenza. I filosofi orientali e Nietzsche hanno allo stesso modo trovato questo essere terreno di disperazione e di negazione del mondo e della vita, per quanto possano come nel caso di Nietzsche, aver lottato contro di esso. La religione astrale Babilonese sosteneva una forma di fatalismo, e Nebukadnetsar era sotto la sua maligna influenza.
  3. Il decreto eterno o la totale predestinazione. Viene stabilita la contingenza delle cause seconde, e alla storia e alla vita dell’uomo sotto Dio vengono date responsabilità, significato e direzione. Senza il decreto eterno il significato non è possibile e regna solo la bruta sequenza dei fatti, senza possibilità di interpretazione.

Questo salvataggio della storia portò gioia a Nebukadnetsar e promozione a Daniele e ai suoi tre amici (2:46-49). Inoltre, portò all’adorazione da parte di Nebukadnetsar di Daniele quale rappresentante del “Dio degli dei” e “Signore dei re”, il Dio il cui eterno decreto sostiene tutta la creazione (2:47).

Nebukadnetsar, comunque, mancò di comprendere il pieno significato della visione. Era un salvataggio della storia, ma in quali termini, a quale fine?

La ricerca del salvatore del mondo e il ritorno al paradiso è comune agli obbiettivi imperiali dell’antichità. La secolarizzazione degli studi della storia, ha condotto alla sua castrazione e dell’asportazione di tutti gli obbiettivi religiosi in favore di una proiezione sugli imperi dell’antichità di obbiettivi puramente politico-economici o di altri obbiettivi moderni. Cristo e i Cesari di Ethelbert Stauffer è una importante dichiarazione del contrario riguardo al sogno messianico di Roma.

L’obbiettivo era magnificente, voluto con potere, passione, intensità: paradiso riguadagnato. Dalla città di Caino, Enoch alla torre di Babele, e avanti a Roma imperiale fino al presente, l’uomo ha cercato di cancellare il peso della colpa e della miseria umana, di unire l’umanità in un solo mondo, e di ristabilire il paradiso all’uomo. Il deprezzamento del passato come primitivo ha portato ad oscurare le incredibili approssimazioni di ordine, ricchezze illimitate, pace e prosperità in vari imperi dell’antichità, tutte condizioni viste come paradisiache, ma queste ed altre furono solo approssimazioni, mai la realtà.

La Quinta Monarchia ha successo dove fallirono tutti i falsi predecessori messianici, talché qualsiasi concetto cristiano della storia che sia disfattista o che ponga la vittoria nell’altro mondo rimane sotto la condanna di Daniele. Il mondo non è meramente una valle in cui salvare l’anima, né culminerà nel triste storico trionfo dell’Anticristo come vorrebbero le interpretazioni a-millennariste e pre-millennariste. La Quinta Monarchia ha successo, non solo nel distruggere i suoi rivali, ma anche nel compiere ciò che essi, con le loro false premesse cercarono di fare. Gli imperi a quel tempo, i modernisti oggi, e gli stati di questa epoca, sono a questo riguardo tutti più saggi della chiesa, nel fatto che non negano significato o trionfo alla storia, ma lo ricercano zelantemente, benché su false premesse e nei termini dell’uomo autonomo. C’è, comunque, una differenza tra l’obbiettivo di questi quattro imperi e il proposito Biblico. Non è il paradiso in terra in sé e per sé ad essere l’obbiettivo della storia come la Bibbia lo descrive, ma piuttosto la restaurazione della comunione con Dio, di cui un paradiso in terra, come descritto da Isaia e dall’Apocalisse, è un effetto secondario. L’uomo è acutamente conscio della perdita del paradiso, ma non consapevole della rottura della comunione con Dio. Questa comunione e il nuovo ordinamento mondiale fu dipinto da Isaia come conseguenza dell’espiazione. Inoltre, non è un ritorno all’Eden, né una nuova creazione del Giardino, ma Paradiso nei termini di comunità con Dio e l’uomo, nella Nuova Gerusalemme. Il romanticismo dell’isolamento e dell’auto-esaltazione viene rimpiazzato con la comunione in comunità. Questo richiede un lungo procedimento di maturazione storica, che comincia con la chiamata di Abrahamo, che vide quella città in visione e gioì (Eb.11:8-16; Gv. 8:56) e che culmina col ritorno di Cristo, il fine escatologico della storia, quando il procedimento è completato. Allora la zizzania sarà pienamente zizzania e il grano pienamente grano. L’auto-consapevolezza epistemologica, la conoscenza di se stesso come creatura da parte dell’uomo, e la sua conoscenza analogica di Dio, effettuerà la piena restaurazione degli uomini pii, proprio come la piena implicazione della Caduta sommergerà i reprobi ovvero i trasgressori del patto. Essendo state sviluppate le implicazioni della storia, il tempo non sarà più.

I quattro imperi sono dipinti come un uomo, un uomo caduto e pseudo-messianico. Incontriamo questa immagine dovunque l’uomo e lo stato assumono il controllo messianico della storia, dovunque echeggi il grido di Amleto. “Time is out of joint, O cursed spite, that ever I was born to set it right”. “Il tempo è slogato, Oh maledetto dispetto, che io sia nato per rimetterlo a posto”. Per quanto nobile possa risuonare questo grido, è l’essenza dell’orgoglio e della pazzia. Nessuno di noi è chiamato a mettere a posto il mondo o il nostro tempo, ma piuttosto a far fronte alle nostre responsabilità sotto Dio. La responsabilità e il lavoro a portata di mano è nostro, la questione è nelle mani di Dio. La storia ci da la perpetua crisi e la sconfitta di quella presunzione, da Babele alle Nazioni Unite ed oltre. Nessun uomo e nessuno stato può prendere il ruolo di Atlante senza incorrere nel giudizio, perché siamo chiamati ad essere uomini e non Dio, e tentare di più non è nobiltà ma pazza presunzione. Amleto, una volta accolta l’illusione di essere il dio di giudizio e di restituzione, rese inevitabile la sua tragedia, e la sua vita fu un’esplosione del bene come del male nei termini di un male più radicale di quell’omicidio che condannò. L’immagine di Nebukadnetsar è l’uomo caduto che con tutto il suo orgoglio tentò di promulgare il proprio eterno decreto e di impadronirsi delle redini della storia per sé. Questo sogno è perciò una condanna dell’uomo e degli stati sposati a questa speranza.

È anche una grande offesa ai Giudei, e offre un indizio importante del perché questo libro fu negletto nell’antichità e susseguentemente. Daniele dice chiaramente che Dio by-passò il suo popolo scelto in favore di quattro grandi monarchie che dovevano elaborare le implicazioni della storia antica, e poi avrebbe introdotto una Quinta Monarchia che non viene in nessun modo identificata con Israele. Il Dio che innalzò l’Assiria: “La verga della mia ira” (Is. 10:5), e Nebukadnetsar, nelle cui mani fu data tutta la terra e al quale Dio parlò come aveva anticamente parlato ai Re D’Israele e di Giuda, il Dio che chiamò Ciro il suo unto, chiaramente non era il Dio esclusivo d’Israele, né uno che limitava i suoi eterni propositi al popolo che aveva scelto. La priorità del decreto eterno sulla chiamata storica di Israele è troppo manifesto, troppo apertamente presente e presunto da non aver bisogno di una dichiarazione. Questa priorità del decreto eterno sulla storia e il suo statuto di fondamento di tutta la storia, su Israele e sulla chiesa, fu un’offesa ad Israele come oggi è offensivo alla chiesa. Ma la priorità del decreto eterno sopra ogni tempo, su Israele come su Babilonia, e la presunzione dell’Israele esteriore o apparente e della chiesa non è un’offesa minore dell’orgoglio di Babele e di Roma. L’uomo autonomo (in salvezza l’arminiano N.d. T.) ha sempre piedi d’argilla.

Così, Dio l’onnipotente regna, non un Dio ai bordi del campo che semplicemente premia quelli che determinano la storia, ma Dio il Signore, che ordina ogni cosa e per la cui volontà solamente i re regnano, imperi cadono, e nei termini della cui sola volontà la storia ha scopo, significato, direzione. E la storia è il procedimento di Dio col quale l’inconscio nella creazione è portato a consapevolezza, l’implicito è fatto esplicito, e la zizzania ed il grano maturano, finché sarà adempiuta la visione di Gioele:

Mettete mano alla falce perché la messe è matura. Venite, scendete,
perché il torchio è pieno, i tini traboccano,
poiché grande è la loro malvagità». Gioele 3:13

In quel giorno avverrà che i monti stilleranno mosto, il latte scorrerà dai colli e l’acqua scorrerà in tutti i ruscelli di Giuda. Dalla casa dell’Eterno sgorgherà una fonte, che irrigherà la valle di Scittim (Gl. 3:18).

Note:

1 Tennyson, In Memoriam, canto 71

2 H.C. Leupold: “Exposition of Daniel” Columbus, Ohio: Wartburgh, 1949, p. 90. Daniele 2: 7-9

3 Dottrina filosofica secondo la quale tutti i fenomeni dell’universo sono il risultato necessario di condizioni antecedenti o concomitanti [n.d.T.]

4 Samuel J. Warner: “The Urge to Mass Destruction”; New York: Greene and Stratton, 1957, p. 152, 99.

5 Edward J. Joung, The Prophecy of Daniel; Grand Rapids: Eerdmans, 1949, p. 67.

 


Altri Libri che potrebbero interessarti