PARTE TERZA
IL NUOVO ORDINE DEL MONDO
Dalla fine dell’epoca apostolica
al ritorno di Cristo nella gloria
6
LA TRADIZIONE ECCLESIALE GENUINAMENTE CATTOLICA
7
LA CHIESA MALATA DI UMANESIMO
8
L’UMANESIMO SCONFITTO DALLA LEGGE DI DIO
La tradizione è la fede vivente dei morti.
Il tradizionalismo è la fede morta dei vivi
JAROSLAV PELIKAN [1]
OSSERVAZIONI PRELIMINARI
Il tempo ecclesiale
Tenendo conto dell’ordine che Gesù rivela e segue nella sua preghiera sacerdotale in Giovanni 17, notiamo che la vita di Cristo (1-30 d.C.) è seguita dai tempi apostolici (30-70 d.C.) dopo i quali viene il tempo ecclesiale (post-70 d.C.) [2]. Il tempo ecclesiale è il tempo che va dalla distruzione di Gerusalemme fino al presente, in cui ci troviamo, continuando fino al tempo del glorioso ritorno di nostro Signore.
Con la distruzione del tempio di Gerusalemme, il ciclo dei secoli è stato portato a compimento. Da quel momento in poi, il vecchio ordine, ormai scomparso, ha lasciato il posto al nuovo ordine. Paolo annuncia: “[Tutte le cose] sono diventate nuove” (2 Corinzi 5:17). Cristo, seduto alla destra del Padre, dichiara e promette: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Apocalisse 21:5). Questa novità non è solo una realtà presente, ma il fine verso il quale tutta la storia spinge, fino al giorno dell’apokatastasis universale – cioè, il giorno del rinnovamento universale, della restaurazione e della trasformazione (Atti 3:21).
Durante il periodo apostolico (30-70 d.C.), a causa della pazienza e della lentezza all’ira di Dio, la Chiesa continuò ad osservare diverse cerimonie e riti ebraici. La Chiesa era considerata per la maggior parte una semplice setta interna al giudaismo. Tuttavia, dopo la distruzione del tempio, la Chiesa si staccò da questi ormeggi del vecchio ordine e salpò verso il nuovo.
Nei libri apostolici, troviamo già la Chiesa presentata come la nuova Gerusalemme, la Gerusalemme celeste, la Gerusalemme di lassù, la donna libera, “madre di tutti noi” (Galati 4:26), in opposizione alla vecchia Gerusalemme, la Gerusalemme terrena, la schiava con i suoi figli. Questa è ora da considerare come il mistico monte Sion, il monte santo del regno di Dio che, secondo la profezia di Daniele, “diventò un gran monte che riempì tutta la terra” (2:35). In relazione al monte santo della Chiesa, il monte Sion fisico di Gerusalemme non era altro che un prototipo [3].
Abbiamo già visto e parlato dei monti di Dio – Eden, Ararat, Moria, Sinai e Sion. Tutti questi non erano che segni tipologici destinati a dirigere lo sguardo dei nostri occhi (e i desideri dei nostri cuori – sursum corda!) verso il monte di Dio. Ora ci è dato di avvicinarci, sempre e comunque, al monte di Dio. E possiamo farlo solo per grazia, solo per mezzo della fede, perché questo monte scende sempre e comunque e si avvicina a noi. “Avverrà, negli ultimi giorni, che il monte della casa del Signore si ergerà sulla vetta dei monti…e tutte le nazioni affluiranno a esso” (Isaia 2:2; cfr. anche Michea 4:1) [4].
Voi vi siete invece avvicinati al monte Sion, alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, alla festante riunione delle miriadi angeliche, all’assemblea dei primogeniti che sono scritti nei cieli, a Dio, il giudice di tutti, agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, il mediatore del nuovo patto e al sangue dell’aspersione, che parla meglio del sangue di Abele. (Ebrei 12:22-24)
Poi guardai e vidi l’Agnello che stava in piedi sul monte Sion. (Apocalisse 14:1; cfr. cap. 21)
La rimozione del velo dalla Bibbia ebraica
Con l’aggiunta dei ventisette scritti apostolici che costituiscono la sua quarta e ultima parte, il libro del patto – la sacra Scrittura – era ora stato completato e sigillato e, come tale, venne adottato dalla Chiesa, il nuovo Israele, non per essere tenuto nascosto, ma piuttosto per essere compreso nella sua pienezza, dal principio alla fine, alla luce dolce e splendente di Cristo, e anche per essere messo in pratica.
Gli scritti apostolici, testimoniando il Cristo prefigurato e preannunciato negli scritti ebraici, restaurarono il vero significato della Bibbia ebraica, che era stato distorto oltre misura dalla tradizione artificiale insegnata dai rabbini ebrei (i rabbini sostenevano di basare i loro insegnamenti su una tradizione orale che risaliva a Mosè stesso; cfr. Marco 7:5-13). Togliendo il velo dall’antico patto (l’Antico Testamento), Gesù e i suoi apostoli ricondussero le persone al vero significato, e all’unica norma, della Legge, dei Profeti e degli Scritti (2 Corinzi 3:14-17). Allo stesso modo mostrarono che il significato letterale, inteso ed espresso dallo Spirito Santo, era diverso dal significato letteralista, che molti imponevano o sostituivano al primo. Con gli scritti apostolici, il senso letterale venne ricevuto come era stato dato, in immagini e simboli, in parabole, che erano ben comprese da coloro ai quali “[era] dato di conoscere i misteri del regno dei cieli” (Matteo 13:10-17).
Come esempio, consideriamo il Vangelo di Giovanni. Quando Gesù parla del vino e delle nozze di Cana (2:1-11), del tempio (2:13-22), della nuova nascita (3:3-6), della cecità (cap. 9), dei pastori (cap. 10), della risurrezione e della vita (cap. 11), ecc., sta semplicemente riprendendo in profondità e svelando simboli, immagini e parabole della Bibbia ebraica – cose che Israele aveva incredibilmente dimenticato! Questo spiega perché Gesù dice a Nicodemo, dopo avergli insegnato la necessità della nuova nascita, “Tu sei maestro d’Israele e non sai queste cose?” (Giovanni 3:10). È significativo che quando Cristo morì sulla croce, “la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo” (Matteo 27:51; Marco 15:38). San Paolo ci dice che quando gli ebrei recalcitranti leggono la Torah, “un velo rimane steso sul loro cuore” che può essere rimosso solo in Cristo (2 Corinzi 3:14-16).
Lo Spirito Santo rivela – cioè, rimuove il velo che nasconde – la signoria pattizia del Dio uno e molteplice mediante il libro completato delle sacre Scritture una e molte. All’interno della Scrittura e per mezzo di essa, Dio si dà un nome (si rivela) pronunciando la sua personale Parola, che è sia trascendente, sovrana, misteriosa ed eccelsa, sia, inseparabilmente, immanente, vicina, concreta e applicabile ad ogni ambito dell’esistenza (1 Corinzi 2:7; Deuteronomio 30:11-14; Romani 11:33-34).
Di conseguenza, la Chiesa vivente di Dio è “colonna e sostegno della verità” solo nella misura in cui è fedele al “mistero della pietà”, e solo nella misura in cui si applica alla lettura, alla meditazione e alla ricerca della Scrittura. Ciò deve essere fatto in uno spirito di umiltà, sottomissione e obbedienza, in modo da poter esortare e insegnare in tutta fedeltà (1 Timoteo 3:15-4:16; 2 Timoteo 3:14-4:5).
Un avvertimento a tutte le chiese infedeli
Quando una chiesa infedele alle Scritture rifiuta di pentirsi, convertirsi e ravvedersi, inevitabilmente, prima o poi, attirerà su di sé il giudizio del Signore della Chiesa, il Signore delle Scritture.
Ciò che accadde in Israele proprio solo prima del 70 d.C. fu seguito da ciò che si abbatté su Israele nel 70 d.C. Il loro rifiuto di Cristo e dei suoi apostoli portò ad un grande giudizio nel giro di una generazione. In questo troviamo un esempio e un avvertimento per tutte le chiese apostate fino alla fine dei tempi. È già successo molte volte che Dio ha fatto venire dei giudizi storici su questa o quella chiesa o chiese. Perciò il giudizio su Israele nel 70 – che da allora ha testimoniato la necessità per Israele di pentirsi e riconoscere il suo Messia – non dovrebbe in alcun modo giustificare e/o alimentare la benché minima forma di antisemitismo. Al contrario!
Non è che i cristiani siano meno immuni dalla presunzione di quanto lo fossero gli ebrei, o che i cristiani siano in qualche modo esentati dal giudizio che Dio fa cadere su tale presunzione. Si ascolti Paolo quando si rivolge ai fedeli non ebrei delle nazioni:
Se alcuni rami sono stati troncati, mentre tu, che sei olivo selvatico, sei stato innestato al loro posto e sei diventato partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non insuperbirti contro i rami; ma se ti insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. Allora tu dirai: «Sono stati troncati i rami perché fossi innestato io». Bene: essi sono stati troncati per la loro incredulità e tu rimani stabile per la fede; non insuperbirti, ma temi. Perché se Dio non ha risparmiato i rami naturali, non risparmierà neppure te. Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità verso quelli che sono caduti; ma verso di te la bontà di Dio, purché tu perseveri nella sua bontà; altrimenti, anche tu sarai reciso. Allo stesso modo anche quelli, se non perseverano nella loro incredulità, saranno innestati; perché Dio ha la potenza di innestarli di nuovo. Infatti, se tu sei stato tagliato dall’olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell’olivo domestico, quanto più essi, che sono i rami naturali, saranno innestati nel loro proprio olivo. (Romani 11:17-24)
La sovranità di Dio e la responsabilità dell’uomo
Con l’avvertimento di Paolo di cui sopra, notiamo la responsabilità personale che ci si aspetta dai cristiani e la responsabilità collettiva che ci si aspetta dalle chiese. Il patto di grazia, sottoposto alla signoria di Dio, include istruzioni inalienabili che richiedono la nostra responsabilità.
La storia, e principalmente la storia della Chiesa e delle chiese, è sia la realizzazione temporale del piano eterno di Dio che il risultato di azioni umane libere e responsabili. Ricordiamo che gli esseri umani non possono essere autonomi, perché solo Dio è autonomo (una legge per sé). Gli esseri umani sono teonomi (sotto la legge di Dio). Ma la condizione teonoma dell’uomo non minimizza, altera, svaluta o rimuove la libertà e la responsabilità umana – tutt’altro! Piuttosto, serve a dare concretezza alla nostra libertà e responsabilità, a dare possibilità e significato a questi aspetti della nostra natura.
Sembra che ognuna di queste verità fosse così profondamente impressa nella mente degli apostoli Pietro e Giovanni che essi potevano riferirsi contemporaneamente alla sovranità di Dio e alla responsabilità dell’uomo senza rimanere bloccati di fronte all’enormità di questo paradosso – un paradosso, potremmo aggiungere, che va da un capo all’altro della Bibbia. Quando pregano con la prima comunità di Gerusalemme, alcuni giorni dopo la Pentecoste, i credenti dicono a Dio: “Proprio in questa città, contro il tuo santo servitore Gesù, che tu hai unto, si sono radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme con le nazioni e con tutto il popolo d’Israele [la libertà, responsabilità e colpevolezza indiscutibile degli uomini!], per fare tutte le cose che la tua volontà e il tuo consiglio avevano prestabilito che avvenissero [l’innegabile sovranità di Dio!]” (Atti 4:27-28).
Allo stesso modo, durante l’ultima cena, alla vigilia della sua morte, il nostro Signore Gesù Cristo dice ai suoi apostoli riguardo a Giuda: “Perché il Figlio dell’uomo, certo, se ne va, come è stabilito; ma guai a quell’uomo per mezzo del quale egli è tradito!” (Luca 22:22). Il Signore l’ha determinato sovranamente e in questo è stabilita la libertà, la responsabilità e la colpevolezza di Giuda.
Così la minaccia del giusto giudizio pattizio di Dio è presente nella nuova amministrazione del patto come nella vecchia. Di conseguenza, Giovanni riceve l’ordine di scrivere alle chiese a nome del Signore. Alla chiesa di Efeso, scrive: “Ma ho questo contro di te: che hai abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti, e compi le opere di prima; altrimenti verrò [presto] da te” (Apocalisse 2:4-5). Alla chiesa di Sardi: “Ricòrdati dunque di quello che hai ricevuto e ascoltato; serbalo e ravvediti. Perché, se non sarai vigilante, io verrò come un ladro, e tu non saprai a che ora verrò da te” (3:3). E alla chiesa di Laodicea: “Tutti quelli che amo, io li riprendo e li correggo; sii dunque zelante e ravvediti” (3:19).
Il patto di grazia e legge
Torniamo ora ad un punto importante e spesso trascurato: cioè, il fatto che il patto è un patto di grazia con comandi, un patto di promesse con avvertimenti, un patto di vangelo e di legge.
I profeti biblici furono tutti mandati da Dio per invitare il popolo e i membri del patto a rimanere saldi, sopportare, perseverare e aspettare pazientemente in caso di fedeltà, o a pentirsi e tornare indietro senza indugio in caso di infedeltà.
Geremia dichiara: “‘Perciò io contenderò ancora in giudizio con voi’, dice il Signore, ‘e contenderò con i figli dei vostri figli’” (Geremia 2:9).
Le accuse sono sempre le stesse. Sono quelle che il fedele Signore del patto muove contro il suo vassallo infedele e trasgressore del patto. A causa della violazione dei comandamenti, delle stipulazioni, il vassallo incorre – e giustamente – nell’esecuzione delle sanzioni del patto, la “vendetta” del Signore del patto (Deuteronomio 32:35, ripreso in Romani 12:19, Ebrei 10:30 e Luca 21:22).
La storia della Chiesa, come la storia biblica di Israele prima di essa, è significativa in questo senso. Essa rivela benedizioni e progresso quando il popolo di Dio è fedele, maledizioni e regresso quando è infedele. Nel corso dei secoli, i veri Padri, Dottori e Riformatori della Chiesa sono coloro che, ogni qual volta i tempi lo richiedono, vengono inviati e si ergono quali “procuratori di Dio”. In nome della legge, secondo il patto, essi comunicano le accuse che sono state mosse contro i criminali – cioè gli eretici o gli uomini notoriamente empi (Giuda).
Anche se molti sono sconvolti da questa prospettiva giuridica della Scrittura e si rifiutano di riconoscerla, essa è innegabilmente presente. La Scrittura contiene un incredibile insieme di termini e condizioni del patto (cfr. solo alcuni dei tanti esempi: Giobbe; Isaia 45:9; Geremia 2:35; 25:31; Osea 4 e 5; Michea 6; Matteo 3:10-12; 5:13 e 17 e seg.; Romani 3:4-6; 9:20).
Invece di tapparci le orecchie, prestiamo ascolto:
Guai a colui che contesta il suo Creatore, egli, rottame fra i rottami di vasi di terra! L’argilla dirà forse a colui che la forma: “Che fai?” L’opera tua potrà forse dire: “Egli non ha mani”? (Isaia 45:9)
Ecco, io ti condannerò perché hai detto: “Non ho peccato”. (Geremia 2:35)
Ascoltate, o monti, la causa del Signore! Anche voi, salde fondamenta della terra! Poiché il Signore contende con [muove accuse contro] il suo popolo e vuole discutere con Israele. (Michea 6:2)
Voi siete il sale della terra; ma, se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non è più buono a nulla se non a essere gettato via e calpestato dagli uomini. (Matteo 5:13)
Ma se la nostra ingiustizia fa risaltare la giustizia di Dio, che diremo? Che Dio è ingiusto quando dà corso alla sua ira? (Parlo alla maniera degli uomini.) (Romani 3:5)
Considerare la tradizione ecclesiale cattolica alla luce del patto
Le osservazioni precedenti non sono affatto una digressione. Non ci siamo allontanati dal nostro argomento attuale: la tradizione ecclesiale cattolica.
La Chiesa dovrebbe essere la prima ad ammettere, e a credere veramente, di non essere intrinsecamente infallibile, che la sua fedeltà non deve essere data per scontata e che non è mai esente dal fatto che il Signore può intentare una causa contro di lei se dovesse decidere di farlo secondo i termini del patto.
La Chiesa deve, a proposito, porsi diverse domande necessarie:
La “spada a doppio taglio” non viene brandita sulla Chiesa con piacere, perché il Signore non si compiace della morte dei malvagi, ma piuttosto con la speranza che essa possa convertirsi dalle sue vie malvagie, pentirsi e vivere (Ebrei 4:12-13; Apocalisse 1:16; 2:12; Ezechiele 18:21-32; 33:11; Luca 15:7).
COSA FARE DELLE TRADIZIONI?
Introduzione
Nel Nuovo Testamento la parola “tradizione” (paradosis in greco) non presenta sempre le migliori connotazioni, specialmente nell’insegnamento stesso di Gesù. Nostro Signore si oppose vigorosamente alla “tradizione degli antichi” che non fa riferimento alla tradizione divina della Bibbia ebraica, la Parola di Dio, ma piuttosto alla tradizione degli uomini rivendicata dai farisei e dagli scribi del suo tempo:
Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi? … Così avete annullato la parola di Dio a motivo della vostra tradizione (Matteo 15:1-6).
Avendo tralasciato il comandamento di Dio, vi attenete alla tradizione degli uomini … Come sapete bene annullare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione … annullando così la parola di Dio con la tradizione che voi vi siete tramandata (Marco 7:1-12).
Dichiarandosi colpevole del suo passato, l’apostolo Paolo scrive ai cristiani della Galazia:
Infatti voi avete udito quale sia stata la mia condotta nel passato, quando ero nel giudaismo; come perseguitavo a oltranza la chiesa di Dio, e la devastavo; e mi distinguevo nel giudaismo più di molti coetanei tra i miei connazionali, perché ero estremamente zelante nelle tradizioni dei miei padri. (Galati 1:13-14)
E così avvertì i cristiani di Colosse: “Guardate che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vani raggiri” (Colossesi 2:8).
Ma allo stesso tempo vediamo che San Paolo raccomanda la tradizione di Cristo e degli apostoli. Comanda ai cristiani di Corinto di “conservare le mie istruzioni come ve le ho trasmesse” (1 Corinzi 11:2).
Quelli di Tessalonica li esorta a “stare saldi e conservare le tradizioni che vi sono state insegnate, sia per mezzo della parola che della nostra lettera” (2 Tessalonicesi 2:15), rammentando loro più tardi la “tradizione” che hanno ricevuto da lui (3:6). (Ricordiamo che quando i primi Padri parlavano della Bibbia e della tradizione, intendevano “la Bibbia ebraica e la tradizione degli apostoli”, o “l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento”).
La tradizione di Gesù e dei suoi apostoli eletti che custodivano la sua Parola consisteva nelle parole che Gesù aveva loro trasmesso, che essi avevano ricevuto e che dovevano tramandare fedelmente come verità. Così Gesù poté pregare suo Padre: “Poiché le parole che tu mi hai date le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute”, e mandarli in tutto il mondo con la fiducia che “chi ascolta voi ascolta me, chi respinge voi respinge me” (Giovanni 17:6, 8, 17, 19, 20; Luca 10:16). Essendo stata saldamente stabilita nella raccolta di scritti del Nuovo Testamento (che mostra sia unità che diversità), completata con la chiusura del canone degli scritti apostolici nell’anno 70, questa tradizione di Gesù e dei suoi apostoli dovrebbe essere considerata come autorevole, e quindi non dovrebbe essere messa in dubbio, distorta, alterata o messa da parte secondo qualsiasi altra (presunta) tradizione – anche, e soprattutto, la tradizione ecclesiale – o qualsiasi altra (presunta) autorità di alcun tipo.
La Chiesa, il nuovo Israele, non ha ricevuto la tradizione neotestamentaria come qualcosa di indipendente dalla tradizione divina tramandata per iscritto dall’antico Israele. Piuttosto, gli scritti sacri dell’antico Israele, come già contenuti nelle tre parti della Bibbia ebraica: la Torah, i Nevi’im e i Ketuvim, furono intesi trovare il loro completamento definitivo nella tradizione neotestamentaria, nella quale venivano affermati, approfonditi e trasformati. In effetti, il nuovo Israele, la Chiesa, ricevette dall’antico Israele “l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione (la Torah), il servizio sacro, le promesse e i padri” che ora condividevano, perché “la salvezza è dei Giudei” e da loro, “secondo la carne, venne Cristo, che è sopra tutti, il Dio eternamente benedetto” (Romani 9:4-5; Giovanni 4:22, cfr. anche Luca 24:27 e 44).
Le tradizioni degli uomini, e specialmente quelle ecclesiali, hanno sempre preteso di collocare la loro autorità non nelle sacre Scritture, ma in trasmissioni orali che si presume risalgano ai primordi: per gli ebrei alle verità che si suppone siano state rivelate da Dio a Mosè; per i cattolici, sia romani che ortodossi orientali, alle verità che si presume siano state rivelate da Cristo agli apostoli. Una tale tradizione orale corrisponde ad uno stato di tenebre e nebbia, puro e semplice esoterismo, sfruttato dai potenti per promuovere il loro potere quanto gli errori nelle loro dottrine. Per gli ebrei, il ricorso alla trasmissione orale serviva alle pretese dei loro maestri, anziani e rabbini, coloro che avevano autorità; per i cattolici, sia romani che ortodossi orientali, serviva a sancire l’infallibilità dei papi e/o dei concili.
Con la Kabbala (= tradizione!) e il Talmud (un’immensa compilazione di sette-otto secoli di insegnamenti rabbinici risalenti a prima della nostra era), la tradizione ebraica era elevata al di sopra della Bibbia ebraica e veniva quindi rispettata anche quando contraddiceva il significato stesso della Bibbia ebraica. Gran parte dell’opposizione a Gesù e ai suoi apostoli derivava dall’adesione a questa tradizione. Ancora oggi i talmudisti si appellano a Esodo 24:3 per giustificare la loro posizione: “Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole (devârîm) del SIGNORE e tutte le leggi (mishepâtîm)”. Essi operano una distinzione tra ciò che sarebbe stato messo per iscritto: i devârîm, e ciò che avrebbe inaugurato la tradizione orale insegnata da rabbino a rabbino attraverso i secoli. Un simile appello alle tradizioni non bibliche fu usato dai cattolici, sia romani che ortodossi d’oriente, a Nicea II. Mentre i primi sei concili ecumenici si dimostrarono fedeli alla Parola di Dio, la sacra Scrittura (Nicea, 325; Costantinopoli, 381; Efeso, 431; Calcedonia, 451; Costantinopoli, III, 680-681), un settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787), approvò, autorizzò e promosse la venerazione e il culto di immagini e reliquie in palese opposizione alla Scrittura. Battezzata come una “tradizione vivente”, una “presenza vivificante”, questa tradizione può essere percepita e definita solo a posteriori, cioè solo dopo che il popolo ha fatto valere le sue pretese irremovibili, dopo che i teologi hanno proposto le loro speculazioni (il che sminuisce ulteriormente la presunta identificazione della teologia con l’unica sacra Scrittura!), e dopo che vari fenomeni mistici, come apparizioni e presunti miracoli, hanno lasciato il segno. Tutto ciò ha lasciato spazio al sorgere di dogmi di invenzione umana [6], quali, in Occidente, la transustanziazione dell’eucaristia, le indulgenze, l’Immacolata Concezione di Maria, l’infallibilità del papa quando parla ex cathedra, ecc.
La tradizione ecclesiale
La Chiesa, fin dai primordi della sua esistenza sulla terra come popolo del patto guidato da Mosè, ha avuto e ricevuto le sacre Scritture come libro del patto (anche se si trattava solo della prima parte del libro, la Torah), cioè la Parola di Dio. Questa Parola ha conservato per la Chiesa di tutti i tempi le norme della sua fede (le credenda, le realtà da credere) e della sua vita (l’agenda, le cose da fare).
Infatti, come abbiamo già visto, il patto è iniziato con la creazione del mondo e dell’uomo. Per grazia di Dio ci sono sempre stati figli di Dio tra gli esseri umani a rispondere fedelmente alle parole di Dio. Tuttavia, è solo al tempo di Mosè, dall’Esodo e precisamente sul monte Sinai, che cominciò ad esistere, sotto l’unzione del sangue del patto (che preannuncia, prefigura e “tipizza” il sangue di Cristo che verrà), un popolo del patto con un libro del patto, la Parola scritta di Dio (Esodo 24).
Da allora, la Chiesa con la sacra Scrittura, e la sacra Scrittura con la Chiesa, sono sempre rimaste e sempre rimarranno insieme fino alla fine della storia. Entrambe esistono solo coesistendo: la sacra Scrittura come verità; la Chiesa come colonna e sostegno della verità – fermo restando che la verità ha la “precellenza”, cioè la pre-eccellenza, sulla Chiesa.
A partire dalle tavole di pietra “scritte con il dito di Dio” (Esodo 31:18), la sacra Scrittura si amplierà. Verranno prima i Profeti e poi gli Scritti. Infine, nella pienezza dei tempi, quando lo Spirito avrà cominciato a costruire la sua Chiesa sul fondamento degli apostoli con il residuo fedele del popolo ebraico (mentre il vecchio Israele con il tempio e i suoi sacrifici sta tramontando), allora la quarta e ultima parte si aggiungerà alle altre tre, dandoci la Torah + i Profeti + gli Scritti + i ventisette libri della tradizione degli apostoli.
Da quel momento in poi, la santa Chiesa cattolica – il popolo del patto ora nell’era nuova e definitiva del tempo ecclesiale – si accosta alla sacra Scrittura – ora completa e inesauribile, per meditarla e seguirla, per tradurla e trasmetterla, e per spiegarla e applicarla fedelmente. Senza aggiungervi o togliervi nulla. Rispettando il suo contenuto unico e vario.
Il “Tota Scriptura” e la “tradizione” cattolica
Il Credo ecumenico di Nicea-Costantinopoli del quarto secolo, assieme al Credo degli apostoli d’Occidente (così chiamato perché riassume la fede degli apostoli), parla della Chiesa cattolica. Similmente, il Credo atanasiano del quinto secolo parla della fede cattolica. In nessun modo i cattolici tradizionalmente detti, romani o ortodossi d’oriente, possiedono diritti esclusivi su questa parola. Anche i Riformatori del XVI secolo hanno adottato questa parola per loro stessi. La comune spiegazione del significato di cattolico che si accontenta di equiparare la Chiesa cattolica e la fede cattolica alla Chiesa universale e alla fede universale non è solo un errore, ma nega alla parola il suo pieno significato.
La parola greca katholicos deriva da due parole giustapposte: kath, che significa “secondo”, e holon, che significa “il tutto”. Quando la parola “cattolico” viene ridotta al suo senso meramente quantitativo, ciò implica un significato spaziale o temporale: “secondo tutto lo spazio” (cioè universale); o “secondo tutto il tempo” (cioè continuo, perpetuo, permanente). Quando qualcuno dichiara: “Credo la Chiesa cattolica”, sta semplicemente dicendo: “Credo nell’universalità della Chiesa”, o “Credo nella continuità, eternità e permanenza della Chiesa”. C’è, tuttavia, qualcosa di più importante, qualcosa di più essenziale in questa parola: il suo senso qualitativo. Infatti, il senso quantitativo (sia spaziale che temporale) deriva dal senso qualitativo, essendo quest’ultimo principale e primario. Secondo il senso qualitativo, “cattolico” significa “In accordo con l’insieme della rivelazione normativa che, per la Chiesa, è la sacra Scrittura”.
Dobbiamo certamente credere nell’universalità della Chiesa nello spazio e nella perpetuità della Chiesa nel tempo. Ma prima di tutto dobbiamo credere nella cattolicità della Chiesa di Dio (tota ecclesia), la cui obbedienza consiste principalmente nell’essere e rimanere fedele a tutta la Parola di Dio (tota scriptura).
Consideriamo Sant’Atanasio (296-373). Quando si trovò solus contra mundum, solo contro il mondo – e anche contro tutta la Chiesa universale: i suoi vescovi e pastori – fu lui solo a rimanere cattolico. Perché fu Atanasio che sostenne fermamente, “secondo tutta la sacra Scrittura”, la divinità della persona di Cristo, consustanziale alla persona del Padre, veramente Dio e veramente uomo, mentre l’universo (cioè il mondo) che lo circondava e lo perseguitava senza tregua aveva ceduto all’eresia ariana (gli ariani, discepoli di Ario, rifiutavano la dottrina della trinità e la divinità di Gesù).
Essere cattolico è rispettare il testo della Scrittura come un insieme inseparabile, adorando colui che ne è l’Autore primario e sovrano. Significa rifiutare di scegliere una parte della Scrittura piuttosto che un’altra, vale a dire rifiutare l’eresia.
Il contrario di cattolico è eretico, e viceversa.
Inoltre, il principio di sola scriptura (professare che la norma della Chiesa è la sola Scrittura) deve essere accompagnato dal principio di tota scriptura (professare che la norma della Chiesa è la Scrittura nella sua totalità). Quando diciamo “secondo la sacra Scrittura”, dobbiamo intendere secondo l’intera Scrittura – niente di più (sola), niente di meno (tota).
I nostri fratelli cattolici separati, sia romani che ortodossi orientali, non possono – né dovrebbero – obiettare il fatto che ci definiamo cattolici. Infatti, noi dobbiamo essere, e in linea di principio siamo, più cattolici di loro. Aggiungendo una presunta “tradizione orale rivelata” alla sacra Scrittura, essi hanno permesso alle loro tradizioni – che non solo non hanno fondamento nella sacra Scrittura, ma sono palesemente contrarie ad essa – di interferire con, e alla fine soffocare e distorcere, la tradizione che deriva dalla Scrittura (Traditio e Scriptura fluens, come dicevano i nostri antichi Dottori). Scegliere una parte della Scrittura piuttosto che un’altra è eretico. Ma scegliere qualcosa al di fuori della Scrittura non è meno eretico. Nulla va tolto, nulla va aggiunto. Il Signore lo ha reso chiaro sia all’antica Chiesa, Israele (Deuteronomio 4:1-2; 13:1-3; Ecclesiaste 3:14; Proverbi 30:5-6), sia al nuovo Israele, la Chiesa (Apocalisse 22:18-19). La Chiesa coesiste con la Scrittura, ma essendo la vera Parola di Dio, la Scrittura governa la Chiesa fino alla fine della storia (Matteo 5:17 e seguenti). La Chiesa non può rivendicare poteri sulle Scritture. La tradizione ecclesiale, attraverso i secoli, deve sempre rimanere umilmente sottomessa alla Scrittura. La voce della madre (Galati 4:26), della sposa (Apocalisse 21:2), che è la Chiesa cattolica, deve essere fedelmente in accordo con la voce del Padre, lo Sposo che è il Signore, espressa nella sacra Scrittura, di cui è l’Autore primario e sovrano.
Il progresso della tradizione ecclesiale
Già completa dalla fine dei tempi apostolici nel 70 d.C., centrata interamente su Cristo e illuminata da lui e dallo Spirito Santo che ha mandato, e data alla Chiesa come regula fidei et vitae (la regola-standard della fede e della vita), la sacra Scrittura è la fonte inesauribile della tradizione autenticamente ecclesiale (Traditio e Scriptura fluens).
Questa fonte unica è veramente inesauribile. La Chiesa, mater et magistra, come (e meglio di) “ogni scriba che diventa un discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa, il quale tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie” (Matteo 13:52). Questo lavoro non finisce mai. Incaricata di “presentare compiutamente la parola di Dio, il mistero che fu tenuto nascosto per le passate età e generazioni, ma che ora è stato manifestato ai suoi santi, ai quali Dio ha voluto far conoscere quali siano le ricchezze della gloria di questo mistero fra i gentili, che è Cristo in voi, speranza di gloria” (Colossesi 1:25-28), la Chiesa, seguendo gli apostoli, e fedele alla loro tradizione normativa, può e deve sempre promuovere la conoscenza che riceve progressivamente, con precisione sempre maggiore, “affinché i loro cuori [quelli dei santi] siano incoraggiati e, uniti mediante l’amore, siano dotati di tutta la ricchezza della piena intelligenza per conoscere a fondo il mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale tutti i tesori della sapienza e della conoscenza sono nascosti” (Colossesi 2:2-3).
La tradizione genuinamente ecclesiale non limita né estende la rivelazione stabile della sacra Scrittura, ma piuttosto, sotto la guida dello Spirito Santo, serve ad estrarre e applicare, tradurre e trasmettere, la pienezza del suo significato. Gradualmente nel tempo, e non senza conflitti e difficoltà, emerge una tradizione sempre più distinta, con chiarimenti sempre più precisi (anche se, a causa dell’inesauribilità della Scrittura, la precisione assoluta rimane fuori portata).
Durante la sua vita terrena (per non parlare della sua intercessione celeste!), il Signore Gesù pregava “per quelli che credono in me per mezzo della loro parola”, riferendosi alla parola degli apostoli (Giovanni 17:20). Se possiamo e dobbiamo credere che ci sia una cattolicità quantitativa della Chiesa nel tempo (continuità, eternità) e nello spazio (universalità), allora possiamo e dobbiamo altresì credere che ci sia anche, e soprattutto, una crescente cattolicità qualitativa della Chiesa nella sua comprensione del significato della rivelazione trinitaria e cristologica della sacra Scrittura. Questa cattolicità qualitativa della Chiesa cresce man mano che essa scandaglia le profondità del canone ormai completato e tramanda ciò che diventa sempre più raffinato lungo l’arco del tempo ecclesiale (dal 70 d.C. in poi) fino ai giorni della storia in cui “la conoscenza del Signore riempirà la terra, come le acque coprono il fondo del mare” (Isaia 11:9; cfr. 65:17-25; Matteo 28:18-20; e Romani 15:11-13).
Il rischio, la tentazione, l’errore, è che la Chiesa, o una chiesa, violi la tradizione allontanandosi dalla fedeltà alla Scrittura su questo o quel punto, e scegliendo (“eretizzando”) presunte verità trovate al di là e contrarie alla Scrittura. Poiché questo potrebbe sempre accadere, la tradizione ecclesiale dovrà sempre essere criticata ed essere pronta a criticare sé stessa.
Inoltre, ogni vera Riforma della Chiesa – o di una Chiesa – non è altro che la messa in pratica, l’applicazione di questa autocritica ad ogni costo, il che non opera contro la tradizione e non legittima l’autorità della chiesa, ma, al contrario, opera per recuperare, purificare, liberare e rafforzare la medesima. Non solo la Chiesa trae profitto dalle verità che la sua tradizione adotta, ma allo stesso modo può e deve trarre profitto dagli errori in cui la sua tradizione è caduta, perché è solo correggendoli che si può compiere o recuperare un vero progresso nella tradizione ecclesiale.
Le due grandi epoche nel progresso della tradizione ecclesiale
Se definiamo un’epoca come “un momento, un movimento storico di importanza peculiare e decisiva” [7], allora ci sono due epoche di primo ordine nel progresso della tradizione ecclesiale: l’epoca dei primi quattro concili ecumenici (325-451), e quella della Riforma (1530-1647). Il fatto rilevante – e raramente menzionato – è che queste due epoche, per quanto diverse possano essere, hanno una stessa ragion d’essere. Con coraggiosa fedeltà alla sacra Scrittura, entrambe hanno risposto alla chiamata di confessare la fede: Dio, e Dio solo, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, è il Signore e il Salvatore e non c’è nessun altro oltre a lui.
Questo non vuol dire che una tale confessione fedele fosse totalmente assente nei periodi precedenti o successivi a queste due epoche. Ci sono stati certamente coloro che hanno preparato la strada, seguiti da coloro che hanno mantenuto la rotta – uomini umili, oggi sconosciuti, i cui nomi sono scritti in cielo, che, come i Padri e i Dottori così giustamente chiamati, hanno continuato a leggere e meditare assiduamente le Scritture e a offrire incessanti preghiere che non hanno mancato di portare frutto.
L’EPOCA DEI PRIMI CONCILI ECUMENICI
Le prime eresie e i primi quattro Concili Ecumenici
Fin dai primi giorni del tempo ecclesiale, la meditazione teologica della Chiesa e dei cristiani fedeli si è incentrata sul fatto che Dio si è rivelato nella sua Parola come il Dio che è sempre uno e trino. Fin dalle prime formulazioni del Credo degli apostoli e della formula battesimale che risale a Gesù stesso – “Ti battezzo nel nome (singolare) del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (plurale)” – la Regula Fidei (la regola della fede della Chiesa) ha attirato l’attenzione sul mistero trinitario, che era a sua volta legato al mistero cristologico. Anche prima che questi misteri fossero formalmente riconosciuti e insegnati, facevano parte della confessione della Chiesa.
Durante il secolo successivo agli apostoli (dalla fine del I secolo alla seconda metà del II secolo), i “Padri apostolici” come Clemente di Roma, Barnaba, Ignazio di Antiochia ed Erma, insieme agli “Apologisti” come Giustino Martire, Melito di Sardi e l’anonimo autore della Lettera a Diogneto, prestarono attenzione ai fondamenti scritturali di questi misteri. Tutto ciò va sicuramente tenuto in conto. Tuttavia, è un quasi contemporaneo di Ireneo (130-230) che si distingue per la sua insistenza sull’unità consustanziale del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Dobbiamo a Tertulliano (155-230) questo sviluppo nella dottrina della Trinità, avvenuto più di un secolo prima del primo Concilio ecumenico di Nicea (325). Anche Ireneo aveva parlato di unità consustanziale, ma fu Tertulliano a completare Ireneo parlando inoltre della distinzione, senza separazione, delle tre persone divine. Ancora, fu Tertulliano a coniare la parola Trinitas (Trinità), che aveva il vantaggio di combinare “uno” e “tre” e di indicare così il mistero, uno e trino, dell’unico Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che si è rivelato in Gesù Cristo e in tutta la sacra Scrittura.
Il mistero cristologico, ossia che la persona divina del Figlio ha assunto la natura umana oltre a quella divina senza cessare di essere Dio – in altre parole, il mistero di Gesù Cristo che è sia vere Deus (veramente Dio) che vere homo (veramente uomo) – è intimamente legato al mistero trinitario. Così la Chiesa ha sempre prestato attenzione a questi due misteri insieme, sia molto prima rispetto al primo Concilio ecumenico di Nicea (325) che molto dopo rispetto al quarto Concilio ecumenico di Calcedonia (451). L’obiettivo non è stato quello di spiegare questi misteri in modo esaustivo (una tale comprensione è impossibile!), ma piuttosto di apprenderli fedelmente, il che è necessario e sufficiente.
L’impulso razionalistico che ha favorito la spiegazione completa rispetto alla comprensione per fede ha dato origine a molte eresie che si sono allontanate dalla fede ecclesiale (la fides quae creditur, la fede che è creduta, e confessata, dalla Chiesa, in opposizione alla fides qua creditur, la fede con cui si crede). Queste eresie aggiungevano elementi alla fede in un punto, sottraevano elementi altrove – in ogni caso allontanandosi dalla Scrittura! – con il risultato che tali eresie non hanno illuminato ulteriormente i misteri rivelati della fede ecclesiale, ma piuttosto li hanno soppressi. Eppure, l’introduzione di queste eresie ha anche spinto la Chiesa cattolica – cattolica “secondo tutta la Scrittura e secondo la sola Scrittura” – a chiarire la fede di cui essa è “colonna e sostegno”. Così è stato spesso a causa delle eresie – anche se è Dio che bisogna ringraziare! – che la tradizione ecclesiale ha fatto progressi. Qualunque cosa il diavolo faccia, Dio la volge sempre al bene. Le eresie tendono a deviare dalla fede cattolica e a distorcerla nonostante le verità parziali che contengono. Cercando di rispondere ad esse, la Chiesa trae beneficio da questo rigoroso esercizio di chiarimento dottrinale, dal quale emerge più forte per riorientare e restaurare la vera forma della fede. Nei primi secoli, diverse eresie hanno messo in dubbio il vere Deus e/o il vere homo, o la relazione del vere Deus e del vere homo con la fede [8].
L’eresia di Ario (256-336)
Ario e l’arianesimo negavano che Cristo fosse veramente Dio. Al suo apice, l’eresia ariana era diffusa in tutto l’Impero e per un certo periodo, ebbe persino il controllo della maggior parte delle chiese (resta il fatto, comunque, che ha sempre avuto seguaci e fino ad oggi ne include molti all’interno delle chiese di tutte le denominazioni). Il mantenimento di una fedele confessione di fede richiese una lotta contro l’arianesimo. Sant’Atanasio (296-373) in Oriente e Sant’Ilario (315-367) in Occidente, insieme ai primi due concili ecumenici (Nicea, 325, e Costantinopoli, 381), risposero alla chiamata. In accordo con le Scritture, essi dichiararono la fede in “un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo…” (il Credo Niceno).
L’eresia di Apollinare (morto nel 390)
Apollinare, di Laodicea, insegnava che il Logos divino (la Parola) in Cristo aveva sostituito la sua mente, il che equivaleva a un attacco sferrato al vere homo – Cristo, fondamentalmente, non era umano nello stesso modo in cui noi siamo umani; non aveva una mente umana. Sant’Atanasio si impegnò a fondo per contrastare il suo ex alleato che ora era caduto in un errore, un’eresia che era l’opposto dell’eresia ariana. Ario era colpevole di negare la piena divinità di Cristo; Apollinare negava la piena umanità di Cristo. Ad Atanasio si unì Sant’Ambrogio di Milano (340-397) che aveva, anch’egli combattuto contro l’apollinarismo. Nell’anno 381, il Concilio di Costantinopoli, in accordo con la Scrittura e contro Apollinare, dichiarò che Cristo aveva assunto una natura pienamente umana – cioè vere homo, veramente uomo. Così ogni immaginabile divisione della sua natura umana fu respinta.
L’eresia di Nestorio (380-451)
Nestorio sosteneva che Cristo non era una sola persona con due nature, ma piuttosto due persone diverse – una divina, l’altra umana – riducendo effettivamente l’incarnazione in questo modo a un’unione morale tra Dio e Gesù uomo, che non costituisce affatto un’incarnazione. Così non si poteva dire che Gesù fosse vere Deus, veramente Dio. Il terzo Concilio ecumenico, il Concilio di Efeso dell’anno 431, si prese l’incarico di condannare il nestorianesimo. In questa maniera, la reale unione delle nature divina e umana nell’unica persona di Cristo fu attestata con vigore in modo conforme alla Scrittura, e l’eresia della separazione delle due nature in due persone diverse fu respinta.
L’eresia di Eutiche (378-453)
Contemporaneo di Nestorio e fautore dell’errore opposto, Eutiche era un monofisita (sostenitore di “una sola natura”). Mischiava la natura divina e quella umana, sostenendo una confusione delle due, una natura mista divino-umana (= teantropica) della persona di Cristo. La spiegazione che proponeva equivaleva quindi a una negazione del vere homo, la natura veramente umana di Cristo. Il quarto Concilio ecumenico, il Concilio di Calcedonia dell’anno 451 (sul quale avremo altro da dire), condannò la dottrina di Eutiche affermando – di nuovo, in conformità alla Scrittura – che l’unica persona di Cristo aveva due nature, divina e umana, senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione. E così fu formulato ancora più precisamente, dopo i concili di Nicea, Costantinopoli ed Efeso, che il nostro Signore è davvero vere Deus et vere homo (veramente Dio e veramente uomo)
Il quinto e sesto concilio ecumenico
Il periodo che stiamo considerando vide altri due concili che seguirono l’epoca dei primi quattro concili ecumenici (325-451).
Il quinto e il sesto concilio ecumenico, gli ultimi concili ecumenici ad essere fedeli alla sacra Scrittura, sono conosciuti come Costantinopoli II (553) e Costantinopoli III (680-681). A proposito, osserviamo due fatti.
In primo luogo, in linea con il Concilio di Efeso (431), Costantinopoli II condannò il culto della natura umana di Gesù; il culto e l’adorazione possono essere rivolti solo a Dio, alla persona divina di Gesù Cristo che ha assunto la natura umana pur rimanendo pienamente divina. Con questo, il Concilio proibì, secondo la Scrittura, qualsiasi introduzione del culto all’uomo – e, a fortiori, del culto a qualsiasi creatura – nella fede e nel culto cristiani.
In secondo luogo, il Concilio di Costantinopoli III condannò l’eresia dei monoteliti (fautori dell’“univocità della volontà” di Cristo). Con un approccio molto più subdolo dei monofisiti, i monoteliti mischiavano e confondevano la volontà divina e la volontà umana di Cristo in una sola volontà. Con questa mossa, la volontà dell’uomo fu fusa nella volontà di Dio, e si aprì la possibilità per l’uomo di diventare uno con Dio.
Condannando l’adorazione della natura umana (anche quella di Gesù stesso) e la confusione della volontà divina e umana (anche in Cristo), Costantinopoli II e III posero le basi per la condanna degli eretici moderni che vorrebbero equiparare la “fede in Dio” alla “fede nell’uomo”, e i “diritti umani” alla “verità di Dio” [9]. In seguito ai grandi concili del periodo 325-451, Costantinopoli III affermò una volta per tutte, secondo la Scrittura e secondo la fede cattolica che ne deriva: “ Non esalteremo a essenza divina ciò che è creato, né abbasseremo la gloria della natura divina al posto adatto alla creatura [10]”.
Ritorno a Calcedonia
Con grazia e verità, e per fedeltà e sottomissione alla Parola di Dio, la sacra Scrittura, il Concilio di Calcedonia concluse quest’epoca decisiva per la fede cattolica chiarendo il mistero della Trinità e, soprattutto, il mistero della persona di Gesù Cristo. Elaborando e dichiarando in termini chiari e precisi – per quanto umanamente possibile – la confessione della fede cattolica, il mistero cristologico, il “veramente Dio, veramente uomo” dell’unico e solo mediatore, nostro Signore Gesù Cristo, questo concilio respinse definitivamente e fedelmente ogni pretesa umana, personale o sociale, di auto divinizzazione (la Chiesa, lo Stato, una scuola di pensiero filosofico o scientifico, ecc.) Nessuno, tranne il Signore Gesù Cristo, potrà mai dire: “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra” (Matteo 28:18). Solo in lui – il Verbo sovrano incarnato, seduto alla destra del Padre in cielo sia ora che fino alla sua venuta nella gloria, e che insegna attraverso le sacre Scritture, ora complete per tutti i tempi, ciò che la sua Chiesa deve custodire e trasmettere (Matteo 28:20) – solo in lui si trova la fonte della vera libertà dell’uomo e di tutte le legittime autorità che sono istituite da Dio, sottoposte alla sua sovranità, responsabili a lui, e limitate al dominio da lui assegnato [11].
SÌ! DIO SOLO È IL SIGNORE SALVATORE E NON CE N’È ALCUN ALTRO.
L’ORIENTE E L’OCCIDENTE DOPO CALCEDONIA
Le Chiese ortodosse d’oriente dopo Calcedonia
Per le Chiese ortodosse d’oriente, il periodo successivo ai sei concili ecumenici è proseguito senza tanti problemi fino ai giorni nostri [12]. A differenza delle Chiese d’occidente, la cui comprensione della Scrittura si è approfondita, le Chiese ortodosse d’oriente non hanno visto alcuna necessità (o anche possibilità) di andare oltre le affermazioni dogmatiche (dogma in greco significa “verità indiscutibile”) riguardanti i misteri trinitari e cristologici: l’unica eccezione è la rivendicazione dogmatica del culto delle icone e delle reliquie, come positivamente definito – sebbene non conforme alla Scrittura – dal settimo concilio ecumenico (Nicea II, 787). Avendo sia la Scrittura che i sette Concili ecumenici (sette è un numero simbolico) come suo fondamento immutabile, l’ortodossia – definita “un albero verdeggiante fondato sulla roccia”, – sarebbe tuttavia diventata piena di speculazioni mistico-gnostiche come la “deificazione” dell’uomo [13], le “energie divine” con cui Dio manifesta la sua immanenza [14], e la sofiologia (la dottrina della Sapienza) [15]. Questo non vuol dire che l’ortodossia non abbia nulla da insegnarci.
Abbiamo, infatti, molto da imparare dalla sua vivida percezione della risurrezione e dalla sua radiosa liturgia, per citare solo due delle tante cose che mostrano una grande fedeltà alla Parola di Dio.
Dal 1917, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre e delle due guerre mondiali, la Chiesa ortodossa avanza lentamente ma costantemente in tutto il mondo: dal Giappone agli Stati Uniti, all’Europa, all’Africa, all’America Latina. Stabilendo molti nuovi contatti sia con il protestantesimo che con il cattolicesimo romano, e soffrendo persecuzioni in molti paesi nel corso dei decenni, la sua comprensione della sacra Scrittura, la sua preghiera e la sua visione cristiana del mondo sono state approfondite, come si vede, per esempio, in For the Life of the World di Alexander Schmemann (St. Vladimir’s Press, 1973). Inoltre, la tradizione ortodossa ha preso coscienza dei pericoli posti dall’Umanesimo, anche quelli che si celano all’interno della Chiesa. Questa preoccupazione è evidente nelle opere di Solzhenitsyn, così come nelle opere del teologo serbo, padre Justin Popovitch (1894-1979), in particolare nel suo studio Man and the God-Man (1969 in serbo, 2009 in inglese) [16].
L’ortodossia sembra uscire da secoli di stagnazione teologica, e tale sviluppo – che può avvenire solo se si tratta della vera estensione del regno di Cristo attraverso la fede e l’obbedienza alla sua Parola – racchiude molte promesse per il cristianesimo.
Abbiamo menzionato sopra i “dogmi”, un’espressione che deve essere intimamente associata ai “misteri”. La parola “dogma” designa un punto importante e incontestabile della dottrina che costringe la fede della Chiesa e la coscienza (il cuore) dei cristiani perché è rivelato non solo nei vari passi specifici della Scrittura uniti tra loro, ma in tutto il tessuto della Parola scritta di Dio. Gradualmente, e accompagnati da una grande lotta spirituale, la Chiesa e i cristiani individualmente sono arrivati ad accettare questi dogmi come punti fondamentali della rivelazione. La loro verità viene afferrata progressivamente.
La Chiesa cattolica d’occidente dopo Calcedonia
Se datiamo il Medioevo in occidente da Calcedonia (451) alla Riforma (1530, data della Confessione di Augusta), allora possiamo dire che questo periodo è durato poco più di un millennio. È stato un periodo epico della storia molto più luminoso di quello che viene rappresentato da tanti studiosi umanisti. Durante questo lungo periodo, la tradizione cattolica fu mantenuta, sebbene fosse spesso oscurata e sfigurata da insegnamenti e pratiche non bibliche. Durante questi secoli i fedeli, e soprattutto i “pastori e gli insegnanti”, non hanno vigilato sulla fede come avrebbero dovuto. Ma Cristo Re lo fece – il Re non rimarrà mai senza sudditi. Inoltre, non c’è mai stata una rottura totale nel corso della vita della Chiesa cattolica, secondo la promessa indistruttibile: “Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:20). Fu da questa Chiesa, anche quando sembrava più nascosta, ma sempre presente e tangibile, che la Riforma ricevette con gratitudine (1) la sacra Scrittura che gli antichi Padri e i Dottori della Chiesa medievali avevano sempre, all’unanimità, riconosciuto essere la vera Parola di Dio, (2) il Credo dei Padri (Credo di Nicea-Costantinopoli) e il Credo di Atanasio, e (3) gli insegnamenti fondamentali e biblici dei primi sei Concili ecumenici. Così i cattolici riformati non avevano bisogno di far risalire la loro autorità a presunti antenati spirituali o padri che avevano fondato, o guidato, sette oscure e di dubbia natura. Piuttosto, come vedremo, la Riforma cercò di collocarsi all’interno del continuum della Chiesa e della tradizione cattolica mantenuta fin dagli apostoli, pur riconoscendo che queste erano soffocate e compromesse da istituzioni e/o dottrine decadute. Due citazioni di Calvino meritano a questo punto la nostra attenzione:
Poiché il patto che nostro Signore ha stabilito con Cristo e con tutte le sue membra permane e permarrà inviolabile; e questo viene dichiarato quando è detto: “se i suoi figli abbandonano la mia legge e non camminano secondo i miei ordini, se violano i miei statuti e non osservano i miei comandamenti io punirò la loro trasgressione con la verga, e la loro iniquità con percosse; ma non ritirerò loro la mia benignità e non smentirò la mia fedeltà” (Sl. 89:31-34) [17].
E:
Essendo ora mia intenzione discorrere della Chiesa visibile, impariamo dal solo titolo di madre quanto utile, anzi necessaria, sia la conoscenza di lei; non c’è infatti alcuna possibilità di entrare nella vita eterna, se questa madre non ci ha concepiti nel suo seno e non ci partorisce, ci allatta, ci custodisce infine sotto la sua direzione e la sua autorità finché, spogliati di questa carne mortale, siamo resi simili agli angeli (Mt. 22.30) [18].
Ci chiediamo inoltre: la Chiesa è mai stata veramente pura e immacolata? Non basterebbe considerare le chiese al tempo degli apostoli – Corinto, Galazia, Efeso, Pergamo, Sardi, Laodicea, per esempio? Tutte queste furono chiamate dal Signore a pentirsi e a ravvedersi. Come non trovare elementi positivi nella Chiesa medievale che, pur nel suo declino, includeva così tanti uomini e donne appassionatamente devoti – più di noi su diversi punti – al Dio trinitario, a Cristo Dio-uomo, e alle sacre Scritture ricevute e ascoltate come la Parola stessa del Signore, nostro Creatore e Salvatore?
*
La figura che indiscutibilmente marcia alla testa di questa grande processione della Chiesa occidentale medievale è Sant’Agostino (354-430), la cui vasta produzione letteraria ha esercitato la sua influenza e ha dato frutti abbondanti in ogni secolo da allora fino ad oggi. Dalla sua conversione alla sua morte – cioè dalle sue Confessioni alle sue Ritrattazioni, passando per le sue opere mature, come La dottrina cristiana (396-426), La Trinità (400-428), e La città di Dio (413-426), tra le altre – vediamo il pensiero di Sant’Agostino allontanarsi sempre di più dal pensiero pagano classico, specialmente dal platonismo, su cui inizialmente si basava molto, e sempre di più verso una teologia completamente cristiana – cioè biblica. Questa teologia lo condusse decisamente in almeno tre direzioni.
Primo, combatté il pelagianesimo affermando la sovranità della grazia divina [19].
Secondo, negò il presunto primato e l’autonomia della ragione umana, uno dei vari tratti distintivi della filosofia greca, affermando il primato della fede, della verità della Parola di Dio. Tutto questo era racchiuso nella sua famosa frase credo ut intelligam – “Credo, per capire”.
Terzo, rifiutò ogni amalgama, ogni falsa sintesi, affermando l’antitesi spirituale tra la Città di Dio (civitas Dei) e la città terrena (civitas terrena), la città dell’uomo trasgressore del patto, tra Gerusalemme e Babilonia, un’antitesi che si trova anche in noi come individui. Queste due città sono state originate da “due amori […] la terrena [dal]l’amor di sé fino all’indifferenza per Iddio, […] la celeste [dal]l’amore a Dio fino all’indifferenza per sé. Inoltre quella si gloria in sé, questa nel Signore. Quella infatti esige la gloria dagli uomini, per questa la più grande gloria è Dio testimone della coscienza. Quella leva in alto la testa nella sua gloria, questa dice a Dio: Tu sei la mia gloria, colui che mi rialza il capo (Salmi 3:3)” [20].
L’influenza di Agostino è stata tramandata nel Medioevo da tre figure principali che hanno ricevuto e continuato a costruire sulla base del suo pensiero: un filosofo, Sant’Anselmo (1033-1109), un mistico, San Bernardo (1091-1153), e un teologo, San Bonaventura (1221-1274). Il Proslogion di sant’Anselmo – che inizialmente portava il titolo più agostiniano di Fides quaerens intellectum (Fede alla ricerca della comprensione) – concludeva il suo primo capitolo con queste parole prese direttamente da Agostino: neque enim quaero intelligere ut credam, sed credo ut intelligam (Non cerco di capire per poter credere, ma credo per poter capire). Nel suo Cur Deus Homo? (Perché Dio [si è fatto] uomo?), Sant’Anselmo fece progredire la comprensione della Chiesa circa l’espiazione, esponendo brillantemente, per la prima volta, la dottrina dell’espiazione.
Quando si studia un punto specifico della dottrina cristiana, non è raro scoprire un filo conduttore del pensiero veramente cattolico che collega diverse figure chiave nel corso del tempo. Prendiamo un esempio particolarmente significativo, la soddisfazione di Cristo, e vediamo come questo tema si sviluppa da Sant’Anselmo ai Dottori della Riforma, passando per San Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino (1227-1274):
L’EPOCA DELLA RIFORMA
Introduzione
La Riforma nella Chiesa d’occidente nei secoli XVI e XVII si pone in linea con la fede cattolica dei primi sei Conciliecumenici, cioè la tradizione ecclesiale che scaturisce dalla Scrittura. Essa rivendicò come propri i Credoe le decisioni dei suddetti Concili.
Ciò fu espressamente riconosciuto in diverse confessioni riformate.
Per esempio, la Gallicana (La Confessione di fede francese redatta a Parigi nel 1559, confermata a La Rochelle nel 1517) dichiara negli articoli VI, XIV e XV:
Questa sacra Scrittura ci insegna che in questa sola e semplice essenza divina, che noi abbiamo confessato, vi sono [tre] persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il Padre, causa prima e principio e origine di tutte le cose. Il Figlio, la sua Parola e sapienza eterna. Lo Spirito Santo, la sua virtù, forza ed efficacia. Il Figlio eternamente generato dal Padre. Lo Spirito Santo eternamente procedente da entrambi. Le tre persone non confuse, ma distinte e tuttavia non separate, ma di una stessa essenza, eternità, potenza e uguaglianza. E in questo confessiamo ciò che è stato stabilito dagli antichi concili e detestiamo tutte le sètte e le eresie che sono state rigettate dai santi dottori, come s. Ilario, s. Atanasio, s. Ambrogio e s. Cirillo.
Noi crediamo che Gesù Cristo, essendo la sapienza di Dio e il suo eterno Figlio, ha rivestito la nostra carne, per essere Dio e uomo in una persona, uomo simile a noi, in grado di patire nel corpo e nello spirito, ma puro da ogni macchia. E quanto alla sua umanità, che egli è stato vero seme di Abramo e di Davide, benché sia stato concepito con la forza segreta dello Spirito Santo. Al riguardo, noi detestiamo tutte le eresie che hanno turbato le chiese fin dai tempi antichi.
Noi crediamo che nell’unica persona, cioè Gesù Cristo, le due nature sono effettivamente e inseparabilmente congiunte e unite, pur conservando ogni natura le sue proprietà distintive, al punto che, come in questa congiunzione la natura divina, conservando le sue proprietà, è rimasta increata, infinita e tale da riempire ogni cosa, così la natura umana è rimasta finita, con la sua forma, misura e proprietà. Inoltre, benché Gesù Cristo, risuscitando, abbia conferito l’immortalità al suo corpo, non gli ha tuttavia tolto la verità della sua natura. Per cui noi lo consideriamo nella sua natura divina in modo tale da non spogliarlo della sua continuità.
Alla fine del suo articolo sull’autorità della Scrittura, la Gallicana, dimostrando la sua fedeltà intenzionale e senza riserve alla tradizione ecclesiale fedele alla Scrittura, dichiara: “E perciò noi confessiamo i tre Simboli, cioè degli apostoli, di Nicea e di Atanasio, poiché sono conformi alla parola di Dio” (articolo V).
Tali dichiarazioni si trovano in tutto l’insegnamento dei Riformatori e dei Dottori riformati professanti. Un semplice sguardo all’Istituzione della religione cristiana di Calvino, ricca di citazioni dei Concili e dei Padri, basterà a dimostrarlo. Fedeli alla Parola di Dio, le chiese riformate affermavano:
In base a questa impostazione di metodo, accettiamo pienamente gli antichi concili quali Nicea, Costantinopoli, il primo di Efeso, Calcedonia, e gli altri che si sono tenuti per condannare gli errori e le false opinioni degli eretici; li consideriamo, ripeto, con riverenza e onore in virtù degli articoli di fede che furono colà definiti. Questi concili infatti contengono solo una pura ed evidente interpretazione della Scrittura, che i santi Padri, con oculatezza hanno messa a punto per respingere i nemici della cristianità [21].
Laddove gli antichi Padri e/o Concili si scostavano dalla Scrittura, i Riformatori chiaramente non li assecondavano. Lutero, già nel 1525, aveva detto: “Pertanto si deve considerare l’autorità dei padri come indifferente e bisogna estirpare e gettare via le decisioni erronee, ovvero tutto ciò che è stato stabilito al di fuori della parola di Dio. Cristo è infatti superiore all’autorità dei padri”. Di conseguenza, per fedeltà alla Scrittura-Parola di Dio, i Riformatori e i riformatiprofessanti respinsero, e sempre respingeranno, le decisioni del secondo Concilio di Nicea (787) che imponeva il culto delle immagini sacre, le icone. Così ha giustamente aggiunto Calvino:
Il ripristino delle immagini … ha susseguentemente prevalso tra il popolo. Sant’Agostino però dichiara che questo non può accadere senza grave pericolo di idolatria. Epifanio, dottore più antico ancora, si esprime in termini più severi perché afferma che la presenza di immagini nei templi dei cristiani deve considerarsi peccato ed abominazione [22].
Altrimenti detto, le decisioni dei Concili e gli insegnamenti dei Padri della Chiesa antica e dei Dottori del Medioevo sono tali che
[Noi]prendiamo modestamente le distanze da quei santi padri, quando troviamo che essi sostengono qualcosa che è lontano dalle Scritture o ad esse contrario. E facendolo, non pensiamo di fare loro alcun torto, visto che sono tutti d’accordo a vietare di porre i loro scritti sullo stesso piano di quelli canonici, ma comandano che li si metta alla prova per sapere se concordano o sono in disaccordo con quelli, esortandoci ad accogliere ciò che con essi concorda e a rifiutare tutto ciò che è con essi in disaccordo.
Così riassume il secondo capitolo della Seconda Confessione Elvetica (1566), che il Sinodo tenutosi a La Rochelle nel 1571, il Sinodo della Gallicana, ha solennemente riconosciuto e adottato.
La necessità della Riforma
Nella vita e nella missione della Chiesa veramente cattolica niente è più importante della sua chiamata, del suo servizio, della sua responsabilità e del suo dovere di essere fedele alla Scrittura-Parola di Dio. È su questo singolo punto che la Riforma, fin dal suo primo concepimento nel 1520, ha trovato giustificazione e necessità, ed è da questo punto che ha tratto la sua autorità. Il papato e i suoi ministri, al fine di mantenere le loro stravaganti tradizioni, non avevano maggior diritto nel XVI secolo di esercitare il loro potere come Chiesa istituzionale contro l’insegnamento fedele alla Bibbia dei Riformatori, di quanto i capi di Israele, i funzionari degli ebrei, ne avessero nel primo secolo di esercitare il loro potere (chiaramente istituito da Dio in Deuteronomio 17:8-13) contro l’insegnamento fedele alla Bibbia (a quel tempo, l’Antico Testamento) di Gesù e degli apostoli.
Gli apostoli riferiscono con approvazione dei credenti di Berea che “ricevettero la Parola con ogni premura, esaminando ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano così” (Atti 17:11). E questo era precisamente ciò che i Riformatori desideravano vedere a Roma – che Roma esaminasse le proprie tradizioni alla luce delle Scritture [23].
In alcuni momenti decisivi nella storia della Chiesa, sia nell’antica amministrazione del patto che nella nuova, il Signore della Chiesa ha chiamato in via eccezionale alcuni uomini a uffici straordinari, paralleli ma distinti da quello del normale “ministero ordinato”, un ufficio che richiedeva loro, spesso in condizioni di grande solitudine, di richiamare il popolo di Dio a una rinnovata obbedienza alla sua Parola. Basti pensare a uomini come Elia nell’antica amministrazione (1 Re 17 e seg.), o a un sant’Atanasio nella nuova – entrambi condannati e respinti tanto da coloro che esercitavano l’autorità ecclesiastica quanto dal popolo di Dio in generale. In una lettera indirizzata ai suoi colleghi vescovi, sant’Atanasio osò parlare di “tutta la Chiesa che viene smembrata”, perché a quel tempo gli ariani e i loro vescovi governavano quasi tre quarti delle chiese e, essendo estremamente abili nell’arte della politica ecclesiastica, riuscirono a convocare più di dieci grandi concili favorevoli alla loro eresia, tra cui: Tiro, 335; Arles, 353; Milano, 355; Sirmio, 357 (con questa gemma: “Tutti sanno senza dubbio che la fede cattolica insegna che ci sono due persone: la maggiore è il Padre, e la minore sotto di lui, il Figlio”); e Rimini, 359-360 (“il Figlio come il Padre in tutte le cose!”). Sant’Atanasio fu scomunicato in diverse occasioni, e nel 357 fu condannato da Papa Tiberio. E pensare che tutto questo avvenne tra il Concilio ecumenico di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381)! Questo dimostra semplicemente che l’eresia, come un’erbaccia infestante, non smette mai di crescere e diffondersi.
Ancora nel 1859, il cardinale John Henry Newman (1801-1890), le cui convinzioni lo portarono a diventare cattolico romano, scriveva – e credo che abbia osservato e parlato correttamente – “Vedo dunque, nella storia Ariana un lodevole esempio di una situazione della chiesa durante la quale, per conoscere la tradizione degli apostoli, abbiamo dovuto far ricorso ai fedeli” [24].
Quando Papa Leone X scomunicò Martin Lutero, non solo sfidò un Dottore e Riformatore della Chiesa, ma per di più, senza saperlo né volerlo, sconvolse l’approfondimento dell’interpretazione della Parola di Dio da parte di tutta la Chiesa occidentale. La sua azione non solo mise un freno alla Riforma della Chiesa cattolica ancora unita, ma arrestò anche la sua avanzata lungo la traiettoria stabilita dai primi Concili ecumenici. La decisione affrettata del papa, presa prima ancora che si potesse convocare un Concilio – su cui Lutero, insieme a molti altri, aveva insistito – produsse un’altra spaccatura tra i cristiani d’occidente (la prima fu la spaccatura tra le Chiese d’oriente e d’occidente che risale almeno all’inizio del XIII secolo, il saccheggio di Costantinopoli sotto Innocenzo III e la quarta crociata).
Ignorando la pratica stabilita dalla Scrittura (cfr. Atti 15) che impone ai capi della Chiesa di cercare la risoluzione di una controversia in uno spirito di conciliazione secondo la tradizione che procede dalla Scrittura normativa, Papa Leone X scelse invece di porre fine personalmente alla questione attraverso la sua Curia [25]. Con un forte senso della crescente minaccia, e senza alcuna intenzione di ascoltare la diffusa richiesta di Riforma, il sistema ecclesiastico romano, ovvero l’establishment romano, si mosse per proteggere le sue posizioni di potere.
Quanto più si ama la Chiesa, tanto più si dovrà lottare per la sua liberazione dai mali che la affliggono, soprattutto quando questi mali la spingono sull’orlo di una visibile rovina … Una Chiesa corrotta è composta da due elementi societari – uno buono, l’altro cattivo; uno che la rende Chiesa, l’altro che la corrompe. Il primo deve essere rispettato e preservato nella sua interezza, nella misura in cui dipende da noi. Ma il secondo è un elemento disastroso che nessuno ha il diritto di stabilire e che coloro che amano la Chiesa sono chiamati e obbligati a distruggere. Possiamo anche aggiungere che il primo di questi elementi ci dà il diritto e il dovere di agire contro il secondo [26].
Il significato permanente della tradizione ecclesiale pre-riforma
Ribadiamo: fino alla Riforma, la madredi tutti noi, la Chiesa comune a tutti noi, con le sue luci e le sue ombre, a tutti coloro che oggi sono cattolici romani, o anglicani, o luterani, o riformati, era la Chiesa cattolica d’occidente [27].
Così riconosciamo e riceviamo insieme gli antichi Padri della Chiesa e i Dottori del Medioevo che furono unanimi nella loro confessione dei grandi dogmi della Trinità e di Cristo, e nella loro convinzione per cui la sacra Scrittura è veramente la Parola di Dio. Questo, tuttavia, non li rende infallibili. Alcuni degli insegnamenti di questi scrittori siamo costretti ad accettarli con gratitudine, mentre altri siamo costretti a contestarli e a rifiutarli. Mentre esaminavano vari punti dottrinali alla luce autorevole della Scrittura, i Riformatori prestavano notevole attenzione a ciò che i Padri e i Dottori avevano detto su di essi (dopo tutto, la vera tradizione ecclesiale accoglie il confronto). Essi scoprirono che le convinzioni dei Padri e dei Dottori sulla maggior parte di questi punti dottrinali non erano coerenti, ma variavano ampiamente ed erano spesso in conflitto. Fu così per dottrine come la Scrittura e la tradizione[i], la salvezza per grazia, la giustificazione e la santificazione, la mariologia, la mediazione[i] e gli intermediari, il culto degli angeli, dei santi, delle immagini e delle reliquie, i sacramenti, la fede, le opere e il merito, il purgatorio, ecc. Ciò era prevedibile, perché ogni teologo di ogni epoca è influenzato in qualche misura da idiosincrasie personali, dal suo ambiente culturale, dallo spirito intellettuale della sua epoca, da pressioni sociali, ecc. Ma ciò che conta soprattutto è il grado della sua attenzione e obbedienza alla Scrittura unito all’umile preghiera.
Dobbiamo aggiungere che, nonostante l’attuale divisione tra chiese distinte, tutti i cristiani di oggi che vogliono essere cattolici e ortodossi prestano attenzione, come fratelli, ai Padri e ai Dottori prima della Riforma. La prova si trova nel fatto che molti Dottori della Riforma, oltre a Calvino, erano considerati esperti in patrologia (lo studio dei Padri della Chiesa primitiva). Come il riformatore Pietro Martire Vermigli (1500-1562), amico di Calvino e Bucero, la cui Defensio (1559) è un commento alle opere dei Padri, nonché uno dei maggiori trattati sull’eucaristia di tutta la Riforma. Tali furono anche i luterani Martin Chemnitz (1522-1586), che dimostrò la sua conoscenza dei Padri nel suo L’esame del Concilio di Trento (pubblicato dal 1565-1573) e nel suo trattato Le due Nature di Cristo (1574), e Johann Gerhard (1582-1677), autore della prima Patrologia mai scritta (a lui dobbiamo il termine stesso di patrologia) e di una Confessione cattolica che è un trattato sulle tradizioni cattoliche dei Padri. Ma all’interno di questi dobbiamo, come notava Chemnitz, “separare la paglia dall’oro”. Prove più recenti si trovano nelle diverse edizioni denominazionali o ecumeniche delle opere dei Padri e delle opere particolari dei Dottori medievali pubblicate sulle due sponde dell’Atlantico.
Due cose ancora è necessario sapere sul lungo periodo del Medioevo.
In primo luogo, il ruolo del papa durante questo periodo era lontano dall’essere definito come lo sarebbe stato definitivamente al Concilio di Trento (1545-1563), un concilio unicamente romano – e la dottrina dell’infallibilità papale, contestata da molti all’interno della Chiesa romana, non sarebbe stata proclamata fino al Vaticano I (1870-1871), anche questo un concilio unicamente romano.
In secondo luogo, la Chiesa in Occidente durante il Medioevo era tutt’altro che centralizzata. La Chiesa romana sarebbe diventata ancora più centralizzata nei quattro secoli da Trento alla Seconda guerra mondiale. Un apparente indebolimento di questa centralizzazione potrebbe essere osservato nella transizione al Vaticano II (1962-1965). Ma durante il Medioevo regnava una libertà tollerata, anche nella dottrina e nel culto, che è difficile per noi immaginare oggi. Questo ha permesso a molti cristiani, sia chierici che laici, di sopportare l’insopportabile riguardo a diverse questioni di dottrina poiché non erano ostacolati nel confessare e perseguire la loro vita cristiana secondo la tradizione che scaturisce dalla Scrittura.
Esempi:
Jaroslav Pelikan, nel quarto volume del suo magistrale The Christian Tradition, intitolato “Reformation of the Church and Dogma: 1300-1700” (nel capitolo 1: “Doctrinal Pluralism at the end of the Middle Ages” “Il pluralismo dottrinale alla fine del Medio Evo”), mostra abbastanza chiaramente il pluralismo dottrinale che esisteva nei secoli XIII e XIV su un certo numero di Loci, o punti dottrinali – dall’opera di redenzione di Gesù Cristo alla mariologia, i sacramenti e il loro numero, l’eucaristia e la transustanziazione, ecc. [31]. Era un pluralismo che, dopo la Riforma, la più centralizzata e monolitica Chiesa romana non avrebbe più tollerato.
È degno di nota che il teologo agostiniano inglese John Wycliffe (1328-1384), che fu un precursore dei Riformatori su certi punti (cfr. il suo De veritate Scripture, 1378) e che godeva del fedele sostegno dell’Università di Oxford e del popolo cristiano, non fu mai scomunicato. Anzi, la sua punizione fu postuma! Fu solo nel 1428, ben dopo la sua morte e dopo il martirio di Jan Hus e il Concilio di Costanza (1414-1418), che le sue ossa furono riesumate, bruciate e le loro ceneri gettate nello Swift. Quanto a Jan Hus (1370-1415), fu decano della Facoltà di Teologia di Praga e fu anche un precursore dei Riformatori su alcuni punti, e la sua vita, malgrado prematuramente spezzata, diede molti frutti. Sebbene alla fine sia stato imprigionato (nel 1414, e nonostante la garanzia dell’imperatore Sigismondo di un lasciapassare), poi condannato come eretico e bruciato sul rogo per ordine del Concilio di Costanza il 6 luglio 1415, tuttavia era stato, già nel 1411, un predicatore ufficialmente riconosciuto della chiesa boema, fedelmente sostenuto dal popolo cristiano e dall’Università di Praga, di cui divenne rettore nel 1401. Era anche protetto dall’arcivescovo di Praga e dal re Venceslao IV.
IL DOGMA SOTERIOLOGICO
La giustificazione per fede prima della Riforma
Abbiamo visto che durante il periodo dei primi quattro concili ecumenici (325-451) sono stati sviluppati (alla luce della sacra Scrittura e della tradizione ecclesiale) due grandi dogmi, il dogma trinitario e il dogma cristologico, che proclamano la verità fondamentale secondo cui solo Dio è il Signore-Salvatore e non ce n’è un altro oltre a lui.
Con l’epoca della Riforma – e sempre per far luce sulla stessa verità fondamentale – altri due grandi dogmi saranno tratti dalla Scrittura: il dogma soteriologico e il dogma scritturistico [32]. E, di nuovo, questi emergono da quel continuum di tradizione ecclesiale fedele alla rivelazione.
Il dogma soteriologico e quello scritturistico sono strettamente correlati, così come lo sono il trinitario e il cristologico. Inoltre, ogni coppia di dogmi è strettamente correlata all’altra. La stretta relazione di questi dogmi deriva dal fatto che i quattro dogmi fondamentali presi insieme – trinitario, cristologico, soteriologico e scritturistico – ci aiutano a capire chi è Dio, secondo la sua autorivelazione (la rivelazione del suo nome) nella Scrittura [33].
Lungo tutta la storia della Chiesa (sia la storia dell’Antico Israele che la storia del Nuovo), la verità soteriologica che “il Dio di Abrahamo, Isacco e Giacobbe, il Dio trino, è IL SALVATORE: la salvezza è opera della grazia sovrana e immeritata di Dio” – fu scritta sul cuore di ogni credente. La realtà non ha dovuto aspettare che la Chiesa la definisse dogmaticamente: lo era già prima che fosse definita. Dall’incarnazione, la preghiera di ogni fedele cristiano è stata e sarà fino all’ora della sua morte: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!” [34]. Questo è il suo primo, costante e ultimo appello (anche se la dottrina della sua chiesa particolare è contaminata, penetrata dal pelagianesimo o dal semi-pelagianesimo) [35], perché nessun uomo in questo mondo, cristiano, musulmano, buddista, ateo, agnostico, ecc., nessun uomo può salvarsi da solo, ma
Il Dio trino è, in Gesù Cristo, l’unico e solo Salvatore – al cento per cento, senza la minima autonomia da parte nostra, nemmeno lo 0,00001 millesimo!
Non abbiamo in Dio un bagnino, qualcuno che ci salva aiutandoci verso la salvezza, bensì un Salvatore che salva definitivamente – che, nel suo amore, è il solo ad avere il potere di salvare.
Vale anche quando il dogma soteriologico non è riconosciuto o è rifiutato dalla Chiesa, come nel caso della Chiesa ortodossa orientale più o meno pelagiana. La pietà dei suoi fedeli – e dei suoi teologi – è spesso in linea con il dogma soteriologico chiarito dalla Riforma. Così poté scrivere il teologo serbo Justin Popovitch (1894-1979):
Come si sente il credente ortodosso davanti alla persona di Cristo Dio-uomo? – Completamente peccatore. Questo è il suo sentimento, il suo atteggiamento, la sua posizione, la sua confessione, il suo stesso io tutto intero. Questo senso di non essere altro che peccatore, peccatore in prima persona, davanti al dolce Signore Gesù è l’anima della sua anima, il cuore del suo cuore … Questo atteggiamento è un sacro dovere e una preghiera sincera per ogni cristiano ortodosso senza eccezione. È a questo che i nostri maestri immortali, i santi Padri, ci hanno accompagnato e guidato. Basta citarne due: San Giovanni di Damasco e San Simeone il Nuovo Teologo. La loro santità è certamente degna dei Cherubini, le loro preghiere sicuramente serafiche; eppure anche loro avevano una completa consapevolezza e riconoscimento del loro stato peccaminoso unita ad un atteggiamento di profonda conversione. Questa stessa antinomia pervade la nostra fede ortodossa, evangelica e apostolica, e la nostra vita vissuta in questa stessa fede [36].
Nella sua risposta a Erasmo, Lutero fa un’osservazione simile proprio sui teologi di cui Erasmo ha citato le “parole sul potere della libera scelta”.
Da parte mia mi sarà facile mostrarvi l’opposto, poiché questi santi che vantate tanto, tutte le volte che si rivolgono a Dio per pregare e riconciliarsi con lui, dimenticano completamente il loro libero arbitrio, disperando di se stessi e invocando la sola e semplice grazia, benché meritevoli di ben altro. Così ha fatto spesso Agostino; così Bernardo quando, in punto di morte, disse: «Ho perso il mio tempo, perché ho vissuto da dannato». Non vedo qui far riferimento a nessun potere che si unisca alla grazia, ma piuttosto accusare ogni potere in quanto avverso alla grazia stessa [37].
Di nuovo, nel corso della storia della Chiesa, i fedeli hanno saputo che “il Dio trinitario, è IL SALVATORE: la salvezza è opera della grazia sovrana e immeritata di Dio”.
La giustificazione per fede esposta dai Riformatori
Prima della Riforma, la dottrina specifica della giustificazione per fede non era ancora stata esposta. Anche quando l’argomento fu ampliato dai Padri e dai Dottori medievali [38], le distinzioni biblicamente essenziali tra giustificazione e rigenerazione, giustificazione e santificazione, giustificazione dei peccatori e giustificazione delle persone giuste (i giustificati) non erano presenti. Persino Sant’Agostino, che aveva esposto in modo così eccellente la libertà, la sovranità e l’efficacia della grazia di Dio che salva i trasgressori del patto, non insegnava la giustificazione per fede.
In mancanza di una definizione precisa di questo dogma ecclesiale – che mantiene, conserva e mette in evidenza questo mistero rivelato – sono sorte le dottrine dei meriti, delle opere supererogatorie dei santi e delle indulgenze. Tali idee eretiche e semi-pelagiane accompagnavano l’empia nozione secondo cui la giustificazione è parzialmente ottenuta e guadagnata dalle opere umane.
Il principale contributo della Riforma alla tradizione ecclesiale fu quello di definire il grande dogma soteriologico della giustificazione per fede, e lo fece in nome della Chiesa cattolica e della tradizione ecclesiale derivata dalla Scrittura. In prima linea in questo grande sforzo ci fu Martin Lutero. E ciò che Lutero scoprì e portò alla luce per primo, è ciò che le Confessioni di fede ecclesiali avrebbero proseguito, con lui (come Augusta, 1530) e dopo di lui (fino a Westminster, 1647), a proclamare riguardo a questa dottrina:
Coloro che Dio efficacemente chiama, quelli pure gratuitamente giustifica:
E nella sacra Scrittura troviamo:
Infatti non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito come sacrificio propiziatorio mediante la fede nel suo sangue, per dimostrare la sua giustizia, avendo usato tolleranza verso i peccati commessi in passato, al tempo della sua divina pazienza; e per dimostrare la sua giustizia nel tempo presente affinché egli sia giusto e giustifichi colui che ha fede in Gesù. Dov’è dunque il vanto? Esso è escluso. Per quale legge? Delle opere? No, ma per la legge della fede; poiché riteniamo che l’uomo è giustificato mediante la fede senza le opere della legge (Romani 3:22-28).
Vi sia dunque noto, fratelli, che per mezzo di lui vi è annunciato il perdono dei peccati; e, per mezzo di lui, chiunque crede è giustificato di tutte le cose, delle quali voi non avete potuto essere giustificati mediante la legge di Mosè (Atti 13:38-39).
Infatti Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio (Giovanni 3:17-18).
In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita (Giovanni 5:24).
La giustificazione dell’empio, del peccatore – “perdonando i loro peccati, e reputando e accettando le loro persone come giuste” – è un atto giudiziario, forense del Dio onnipotente e amorevole. Per operare un cambiamento nell’uomo (ma ancor prima che il minimo cambiamento in lui abbia avuto luogo) Dio cambia la condizione, la posizione dell’uomo in relazione alla sua legge, che è santa, giusta e buona. Questo atto di grazia, non meritato dall’uomo, è unicamente e pienamente meritato mediante il perfetto e unico sacrificio di Gesù Cristo, il Figlio del Padre, che è “veramente Dio”ed è diventato “veramente uomo” “per noi e per la nostra salvezza”.
Con la sua obbedienza e la sua perfetta giustizia, essendo stati soddisfatti tutti i requisiti della legge divina, il nostro Signore-Salvatore Cristo ha portato la pena del peccato per molti. Come peccatori, essendo stati sottoposti alla giusta ira e al giudizio di Dio, essi sono stati restituiti all’onore e ai privilegi che si addicono ai “figli di Dio”, di cui altrimenti non sarebbero stati degni. Il Verbo, che era Dio, è rimasto Dio ed è Dio, si è fatto uomo. In sé e per sé, nessuno lo riconobbe o lo ricevette: “Ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome, i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà d’uomo, ma sono nati da Dio” (Giovanni 1:12-13).
Per descrivere questa giustificazione dell’empio, del peccatore, la Riforma e i suoi Dottori hanno usato unanimemente e giustamente i termini “forense” e “imputato”. “Forense”, derivato dal latino forensis che significa “da fuori”, comunicava la verità che nessuna parte della nostra giustificazione viene da noi stessi – viene da fuori di noi, dal Dio trino, da Gesù Cristo. “Imputato”, dal latino imputata che significa “messo in conto”, evidenziava il fatto che questa stessa giustizia, la giustizia di Gesù Cristo che è insita in lui, ci è messa in conto dalla grazia.
Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui (2 Corinzi 5:21).
Una giustizia aliena
Quando la Riforma parlò di “giustificazione per fede”, cosa intendeva di preciso?
Era già stato detto da un profeta che “il giusto per la sua fede vivrà” (Abacuc 2:4), un’affermazione ripresa tre volte nel Nuovo Testamento:
Cos’è che rende una persona “giusta”? Il verbo “giustificare” (sâdaq in ebraico), significa rendere giusto, dichiarare “non colpevole”, assolvere. Il giusto, il giustificato, è colui che è accettato dal Signore che regna dal suo “trono di grazia” (Ebrei 4:16), unicamente per il perdono, la misericordia di Dio, in cui e per cui crede, e in cui ripone la sua fiducia. “Chi crede nel Figlio ha vita eterna; chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui” (Giovanni 3:36).
Nella sua epistola ai Romani, Paolo impiega tre capitoli (2-4) per dimostrare che la salvezza è per grazia, e che l’uomo, a meno che non disobbedisca rifiutando questo Vangelo, ottiene la salvezza per fede. Paolo dà l’esempio di Abrahamo, “padre di tutti i credenti”:
Davanti alla promessa di Dio non vacillò per incredulità, ma fu fortificato nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli ha promesso, è anche in grado di compierlo. Perciò gli fu messo in conto come giustizia (Cfr. Genesi 15:6). Or non per lui soltanto sta scritto che questo gli fu messo in conto come giustizia, ma anche per noi, ai quali sarà pure messo in conto; per noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù, nostro Signore, il quale è stato dato a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione (Romani 4:20-25).
La fede di cui parla la Scrittura non è una sorta di opera meritoria da parte dell’uomo, come se avesse bisogno di contribuire, o aggiungere “fede”, alla sua giustificazione.
Come i Dottori della Riforma hanno chiarito, seguendo la Scrittura: la fede non contribuisce alla nostra salvezza; piuttosto, riceve da Cristo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per la nostra giustificazione. Essere giustificati per fede – o per mezzo della fede – significa che la fede è solo lo strumento attraverso il quale riceviamo la giustizia di Gesù Cristo, una giustizia esterna offerta nel Vangelo.Non è la nostra fede che ci giustifica, ma solo la giustizia di Cristo – solo grazie alla sua giustizia noi peccatori siamo dichiarati giustificati, resi giusti. Questa è la giustizia di un Altro – justicia aliena (“una giustizia aliena”). La nostra fede, che è il dono di Dio ai suoi eletti (Efesini 2:8; Tito 1:1), riceve la sua giustizia con la consapevolezza che tale giustizia è interamente gratuita e immeritata, con la lode a colui che ci ha dato questa fede e ha pagato il prezzo della croce e dell’inferno per “redimerci” dalla maledizione di Dio, e con una gioia che canta Alleluia!
La santificazione accompagna la giustificazione
La giustificazione è per sola fede, ma come hanno insegnato i riformatori e le confessioni riformate, la giustificazione non è mai sola.
Poiché la giustificazione è accompagnata dalla rigenerazione, da essa procede – sotto, con e per mezzo di essa – una vita e una lotta per la santificazione che può e deve svilupparsi nei fedeli e lo farà. La giustizia è così infusa in loro, una giustizia personale.
Ancora, Dio giustifica gli uomini imputando loro, dall’esterno, per grazia, la perfetta giustizia di Gesù Cristo alla quale non contribuiscono in alcun modo. Quindi, ora e nell’ora della morte, questa giustizia è la fonte, la causa e il fondamento della loro glorificazione di Dio Salvatore; è la loro unica certezza. E tuttavia tutti coloro che Dio ha giustificato conosceranno (non per essere salvati, ma perché sono salvati) una vita interiore di unione con Gesù Cristo, un’unione che dà loro – infondendo in loro – le forze e le virtù necessarie per combattere in ogni area della vita contro il potere del diavolo, del peccato e della morte – un potere sul quale Cristo ha già trionfato. Queste forze e virtù non sono per l’autoglorificazione, come se fossero la causa della nostra giustificazione, ma esclusivamente per la gloria di Dio.
… La grazia della giustificazione non è separata dalla rigenerazione, per quanto siano cose distinte. Ma poiché senza dubbio è noto, in base all’esperienza, che rimane sempre qualche traccia di peccato presso i giusti, bisogna pur che siano giustificati in altro modo, ma non perché rigenerati in novità di vita. Dio comincia a riformare i suoi eletti nella vita presente, prosegue quest’opera a poco a poco e non la porta a termine fino alla morte, di modo che sono sempre colpevoli di fronte al suo giudizio. Egli non giustifica solo in parte, ma fa in modo che i credenti, rivestiti della purezza di Cristo, osino comparire liberamente in cielo. Una porzione di giustizia non tranquillizzerebbe le coscienze, finché non sia chiaro che piacciamo a Dio in quanto siamo giusti dinanzi a lui senza eccezione. Ne consegue che il vero insegnamento concernente la giustificazione è pervertito e interamente capovolto quando si tormentano gli spiriti con dubbi, quando si scrolla in loro la fiducia della salvezza, quando si ritarda e si impedisce l’invocazione libera e franca di Dio, e quando non si dà loro riposo e tranquillità unite a gioia spirituale …
(San Paolo) esclama gemendo: “O quanto sono misero! E chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Ro 7.24). Poi, avendo il suo rifugio nella giustizia, fondata sulla sola misericordia di Dio, si gloria in modo meraviglioso contro la morte, gli obbrobri, la povertà, la spada ed ogni afflizione: “Chi”, dice, “accuserà gli eletti di Dio, dato che egli li giustifica? Sono assolutamente persuaso che nulla ci separerà dall’amore che egli ha per noi in Gesù Cristo” (Ro 8.33). Afferma con forza e chiarezza che è dotato di una giustizia che da sola gli basta interamente alla salvezza dinanzi a Dio; tanto che il misero asservimento per il quale aveva deplorato la sua condizione, non deroga in nulla alla fiducia di gloriarsi, e non gli può impedire di giungere al suo scopo. Questo contrasto è ben noto, anzi perfino familiare a tutti i credenti che gemono sotto il fardello delle loro iniquità, e tuttavia non cessano di avere una fiducia vittoriosa per sormontare ogni timore e dubbio.
Insegniamo che Dio seppellisce i peccati degli uomini che giustifica, perché odia il peccato e non può amare se non coloro che ritiene giusti. La mirabile la giustificazione per la quale i peccatori, ricoperti dalla giustizia di Gesù Cristo, non hanno timore del giudizio di cui sono degni, e trovando in se stessi motivo di condanna, ricevono una giustificazione che risiede fuori di loro [39].
La giustificazione è accompagnata dalla santificazione.
Mentre la giustificazione rimuove completamente la colpa del peccato, la santificazione rimuove progressivamente la contaminazione del peccato e rinnova il giusto, il giustificato, in modo che sia sempre più conforme all’immagine del suo Signore.
Mentre la giustificazione è un atto dichiarativo di Dio che imputa la giustizia di Gesù Cristo all’uomo, la santificazione è un’opera interiore di Dio nell’uomo che risulta nell’obbedienza cooperativa dell’uomo, ossia il “volere” e l’“agire” dell’uomo secondo il buon proposito di Dio (Filippesi 2:13).
Mentre nella giustificazione la giustizia di Cristo ci viene imputata, nella santificazione la giustizia di Cristo viene, a poco a poco e in parte, infusa in noi.
Mentre la giustificazione non conosce alcun grado dell’essere più o meno giustificati (un uomo o è giustificato o non lo è; tertium non datur – non c’è una terza via), la santificazione progredisce a poco a poco, senza mai raggiungere la perfezione in questa vita terrena.
Mentre la giustificazione è un atto totale e perfetto, lo stesso per tutti i credenti, la santificazione varia secondo la diversità dei doni dello Spirito, essendo il suo splendore tra i credenti talvolta maggiore, talvolta minore.
Come per altre dottrine in cui il pensiero cristiano fedele richiede di unirle senza dividerle, lo stesso vale per la giustificazione e la santificazione: bisogna distinguerle senza separarle.
Fede e opere
Contra: Ma non è scritto: “Voi vedete [dunque] che l’uomo è giustificato per opere, e non per fede soltanto” (Giacomo 2:14-26)? Non c’è forse un contrasto tra gli apostoli Paolo e Giacomo su questo punto?
Respondeo: Quando Paolo e Giacomo parlano di “giustificazione”, non stanno parlando della stessa cosa.
Paolo sta parlando della justificatio peccatoris – la giustificazione dell’empio, del peccatore. Giacomo, invece, sta parlando della justificatio justi – la giustificazione del giusto, del giustificato. Sia Paolo che Giacomo si appellano ad Abrahamo, ma nel caso che Paolo menziona, Abrahamo non è ancora giusto, non è ancora giustificato, e quindi, dice Paolo, è “giustificato per la fede” (cfr. Genesi 15, specialmente il v. 6 – “Egli credette al Signore, che gli contò questo come giustizia”); il caso che Giacomo menziona viene dopo, molto tempo dopo che Abrahamo fu giustificato per fede, e la questione di lui che obbedisce al comando di Dio di sacrificare Isacco riguarda un’altra giustificazione: la giustificazione per opere (cfr. Genesi 22).
Su questo punto Paolo e Giacomo non si rivolgono nemmeno agli stessi oppositori. Paolo si oppone ai legalisti, coloro che pretendono di trovare una sorta di giustificazione dal peccato nelle opere della legge. Il falso insegnamento dei legalisti esclude la giustificazione per grazia ricevuta attraverso la fede (justificatio peccatoris). Giacomo, invece, si oppone agli antinomiani, coloro che sostengono che la loro fede – un semplice assenso alla verità dell’esistenza di Dio (cfr. Giacomo 2:19) – sia sufficiente da sola, anche se non accompagnata da buone opere. Il falso insegnamento degli antinomiani esclude un’altra giustificazione: la giustificazione (justificatio justi) per opere. La fede degli antinomiani è morta come quella dei demoni – tranne per il fatto che i demoni almeno tremano (Giacomo 2:14-19). La vera fede non è mai senza opere; le opere sono il culmine di una vita di fede.
Così Giacomo mostra, di concerto con altre affermazioni di Paolo (Romani 12; 13:8-10; Efesini 4:17-31; 5:15-6:18; Filippesi 2:12-18), che la vera fede porta ad una vita obbediente alla legge di Dio, che le opere seguono necessariamente la vera fede – la fede non è un semplice assenso ad una verità, ma ciò che è “messo in conto come giustizia” dal Dio della misericordia. Non vale nemmeno la pena ricordare che Giacomo, nel testo in questione (Giacomo 2:14-26), dice che Abrahamo fu giustificato per grazia, per mezzo della fede (Giacomo 2:23). Non c’è disaccordo tra Giacomo e Paolo su questo punto.
Laddove c’è una giustificazione esterna per mezzo della fede, ci deve essere anche una giustizia interiore, una giustizia di vita, una giustizia che si riceve e giunge secondariamente – essendo fondata su questa giustificazione forense – ma comunque necessaria e reale, rivelandosi e dimostrandosi davanti agli uomini (compreso sé stessi!) attraverso le opere. La giustificazione imputata ci giustifica pienamente davanti a Dio poiché è la giustizia di Cristo, ed è sempre accompagnata dalla nostra giustizia intrinseca che conferma la giustizia della fede; si manifesta attraverso le buone opere, che rappresentano i segni, sia verso gli altri che verso noi stessi, dell’inizio e della crescita della nostra giustizia intrinseca.
Quando san Giacomo nomina la fede, intende una credenza frivola, ben diversa dalla vera fede … Non dice: se qualcuno ha la fede senza le opere, ma: se si vanta di averla. Poi, in modo ancora più esplicito, quando definisce ironicamente questa fede peggiore della conoscenza dei diavoli [Giacomo 2:19]; infine, chiamandola fede “morta” [Giacomo 2:20]. Si potrà sufficientemente capire quel che intende con la definizione che ne dà: tu credi, dice, che c’è un Dio [Giacomo 2:19]. Certo, se tutta la tua fede si limita a credere che c’è un Dio, non fa meraviglia che essa non possa giustificare … È chiaro che [Giacomo] parla della dichiarazione di giustizia dinanzi agli uomini, e non dell’imputazione di giustizia da parte di Dio; come se dicesse: coloro che sono giusti per fede, provano la loro giustizia per mezzo dell’obbedienza e delle buone opere, e non già per mezzo di una nuda ed immaginaria sembianza di fede. Insomma, non chiede con quali mezzi siano giustificati, ma richiede dai credenti una giustizia che si riveli attraverso le opere … Si limita a cercar di abbattere la vana fiducia di coloro che, per scusare la loro indifferenza a compiere il bene, si attribuiscono falsamente il titolo di fede. Perciò, in qualunque modo girino e rigirino le parole di san Giacomo, non potranno trarne che queste due affermazioni: che un vano immaginare di aver la fede non ci giustifica, e che il credente, lungi dall’accontentarsi di una tal fantasticheria, palesa la sua giustizia attraverso le buone opere [40].
La battaglia spirituale
Ogni credente devoto, essendo pienamente giustificato dalla perfetta giustizia di Gesù Cristo imputata a lui per grazia, è dunque impegnato nel progresso della santificazione (con i suoi alti e bassi), in una battaglia spirituale. Questi è consapevole del fatto che sarà, e deve essere, inesorabilmente impegnato in questa battaglia fino alla sua morte (Romani 8:31-39). La sconfitta non è un’opzione, questo è certo; ma nemmeno l’orgoglio o il trionfalismo. Questa aspra lotta (vegliate! pregate!) prevede sofferenze da sopportare con hupomenè, pazienza perseverante, che permette di resistere alle prove e alle tentazioni (entrambe sono espresse dalla stessa parola in greco: peïrasmos) per il tempo necessario alla realizzazione del piano di Dio.
Più avanziamo nella luce del Cristo risorto e vittorioso durante i giorni della nostra vita terrena, più misuriamo la nostra povertà contro le sue ricchezze, la nostra debolezza contro la sua forza, la nostra miseria contro la sua santità; e più comprendiamo quanto immeritata sia l’elezione che ci porta al servizio di un tale Signore-Salvatore e quanto indegni siamo noi che, se lasciati alle nostre sole forze, saremmo incapaci della benché minima fedeltà in questo servizio. La norma della santificazione è la Parola di Dio: la Parola incarnata, Gesù Cristo, e la Parola scritta, la Bibbia – sia come legge sia come vangelo. La legge, facendosi strada sempre più profondamente nella nostra vita nel corso del tempo, man mano che la giustizia di Cristo, sempre imputata, viene infusa in noi, si rivolge alla nostra fedeltà, chiamandola all’obbedienza. Sempre rinnovato, il vangelo fornisce il motivo (la gratitudine) e il potere (la grazia) di obbedire – di fare i primi passi dell’obbedienza, e di ricominciare continuamente.
E così cominciamo a vedere il semper peccator, semper justus, semper penitens della Riforma:
La preghiera continua, incessantemente: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!”
Ma noi abbiamo questo tesoro (cioè il glorioso vangelo di Cristo, la gloria di Dio nel volto di Gesù Cristo) in vasi di terra, affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi. (2 Corinzi 4:7; leggere insieme a 5:10)
… allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte. (Filippesi 3:10; cfr. tutto il cap. 3)
Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui. (Romani 8:17)
IL DOGMA SCRITTURISTICO
Osservazioni preliminari
Prima di esporre il dogma scritturistico vero e proprio, come definito dalle Confessioni riformate, permettetemi due osservazioni preliminari.
Prima osservazione – La testimonianza propria della Scrittura riguardo a sé stessa
La sacra Scrittura stessa dichiara, in vari punti e in vari modi, di essere la Parola di Dio. Così, quando la fede cattolica ha confessato l’origine e la paternità divina dei sessantasei libri che la compongono, non ha fatto altro che rispettare la Scrittura su questo punto.
La Chiesa ha sempre affermato che la Scrittura è ispirata, fin dai tempi apostolici. Purtroppo, i termini usati oggi – come sacra e ispirazione – sono troppo vaghi e non raggiungono il chiaro significato di théopneustos, la parola greca che Paolo usa quando dice che il libro, la Bibbia, la Scrittura (ai suoi tempi, l’Antico Testamento) è “ispirata da Dio” (2 Timoteo 3:16). Dire che la Scrittura è théopneustos equivale a dire che procede dal soffio, lo Spirito, di Dio, che è stato soffiato (alitato) da Dio. San Pietro esprime la stessa cosa in un altro modo. Gli autori umani della Scrittura, i Profeti, i portatori della Parola di Dio, dice, furono innanzitutto “sospinti dallo Spirito Santo”, tanto che il loro discorso, la loro profezia, non procedeva praticamente “mai dalla volontà dell’uomo”, ma da Dio (2 Pietro 1:21).
Il mistero dell’ispirazione, o piuttosto del soffio divino, procede soprattutto dal fatto che ciò che i testi umani della sacra Scrittura – che sono, con rare eccezioni [41], l’opera di veri e propri autori umani recanti i tratti distintivi delle loro personalità, situazioni, caratteri e stili unici – hanno in definitiva espresso, è esattamente ciò che Dio voleva dire non solo alla gente di allora, ma anche agli uomini e alle donne dei secoli a venire, fino alla scelta delle parole ebraiche e greche (e talvolta aramaiche) utilizzate.
Questi “portatori dello Spirito” (o pneumatofori) sono stati scelti da Dio, che governa tutte le cose con sovranità provvidenziale e pattizia, la cui conoscenza creativa – poiché egli trascende il tempo – è intima e infinita, e la cui volontà santa, saggia, buona e onnipotente rende possibile l’esistenza del futuro e tutto ciò che è in esso – sia le cose necessarie che quelle contingenti e libere [42]. Fu lui che dotò questi autori della sacra Scrittura di tutte le cose necessarie per il loro compito, e con il suo Santo Spirito li sostenne in ogni aspetto del loro lavoro – dai loro studi più personali e dettagliati (ad esempio Luca 1:1-4) alle visioni che ricevettero, interpretarono e tramandarono (ad esempio Ezechiele, Apocalisse), e persino all’espressione e alle precise parole che usarono (ad esempio Matteo 5:18). Nei loro stili unici, di solito abbastanza ordinari anche se a volte molto brillanti, fu dato loro di essere gli autori della sacra Scrittura, sebbene da sempre il Dio trascendente-immanente fosse l’Autore ultimo.
Seconda osservazione – La fede apostolica nell’ispirazione della Scrittura
Ricordiamo ciò che abbiamo detto prima sullo sviluppo della sacra Scrittura.
Dal momento in cui Israele apparve sulla scena della storia ai tempi di Mosè, dato che allora era diventato il popolo di Dio, Dio aveva dato loro la prima parte del libro del patto, l’inizio della sacra Scrittura. Israele riconobbe e confessò che questa Scrittura embrionale era la Parola di Dio alla quale dovevano sottomettersi (Esodo 19-24; Deuteronomio 4:44-7:11).
Poi, nel corso di dieci secoli, libro per libro, parte per parte, la Torah, i Nevi’im e i Ketuvim (la Legge, i Profeti e gli Scritti) furono rivelati in sequenza e dati a Israele come Parola scritta di Dio. Ancora oggi, gli ebrei ortodossi si riferiscono a questi scritti in breve, come il TaNaKh.
Infine, venne il tempo della Chiesa, il nuovo Israele, che all’inizio consisteva esclusivamente del residuo fedele dell’antico Israele che aveva ricevuto la sacra Scrittura dell’antica manifestazione del patto. Poi, a poco a poco, prima della distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., essi ricevettero da Cristo che regna alla destra del Padre e dallo Spirito che procede dal Padre e dal Figlio – lo Spirito che aveva già “parlato per mezzo dei profeti” ed era disceso il giorno di Pentecoste – i ventisette libri della tradizione degli apostoli (paradosis in greco, che significa “ciò che viene tramandato”).
Con ciò, il canone dogmatico dei libri sacri, ispirati da Dio (Torah + Nevi’im + Ketuvim + tradizione degli apostoli; TaNaKh + tradizione) fu completato e sigillato. Ma ci sarebbe voluto molto tempo prima che il canone storico ecclesiale raggiungesse – e coincidesse con – il canone dogmatico. In altre parole, mentre noi affermiamo che i libri della sacra Scrittura che oggi abbiamo erano effettivamente “canonici” (in senso dogmatico) dal momento in cui Dio, per mezzo del suo Spirito, completò la loro ispirazione, riconosciamo che ci volle del tempo affinché la Chiesa di Dio riconoscesse questi libri come la vera Parola di Dio (che già erano), e li includesse nel suo canone ecclesiastico. La vera canonicità di un libro, la sua autorità come Parola di Dio, non è mai dipesa dalla Chiesa; al contrario, la canonicità dogmatica del libro è stata stabilita nella Chiesa, così che la canonicità ecclesiale della Scrittura deriva dalla sua canonicità divina.
Tenendo presente quanto sopra, possiamo ora concludere questo punto preliminare. Come la fede apostolica è stata tramandata attraverso i secoli, dagli inizi dell’era della Chiesa attraverso i secoli dei Padri apostolici e apologetici, e fino ai nostri giorni, la Chiesa cattolica, sia in Oriente che in Occidente, ha sempre sostenuto l’ispirazione verbale della sacra Scrittura, persino l’ispirazione delle sue stesse parole. Di conseguenza, essi hanno affermato che la sacra Scrittura ha lo status di Parola di Dio [43].
Tutti i Padri, Dottori e Riformatori della Chiesa, fino ad oggi, sarebbero stati d’accordo con Sant’Ireneo di Lione (130-202) quando disse degli apostoli: “Il Vangelo, che essi dapprima predicarono e poi per volontà di Dio trasmisero nelle Scritture perché fosse per noi ‘fondamento e colonna’ (1Tim. 3,15) della nostra fede” [44].
La fede della Chiesa, la fede cattolica e ortodossa, secondo la Scrittura e riguardo alla Scrittura, è stata ed è ancora espressa in queste semplici parole: Sacra Scriptura est Verbum Dei – La sacra Scrittura è la Parola di Dio.
Riconoscere la Dottrina della Scrittura come il dogma della Scrittura
Nel definire il dogma della Scrittura della Chiesa, la Riforma – con i suoi Dottori e le sue Confessioni – avrebbe alzato il livello di ciò che costituisce un dogma per la Chiesa.
L’asticella aveva certamente bisogno di essere alzata, perché sebbene la fede della Chiesa mantenesse la dottrina dell’ispirazione verbale della sacra Scrittura e la sua identificazione con la Parola di Dio, si poteva trovare, anche in molti degli antichi Padri della Chiesa, una deriva da un dogma scritturale chiaramente definito. Influenzati dalle filosofie pagane (specialmente dal neoplatonismo) o dall’approccio di un pensatore cristiano originale, brillante, ma spesso avventato, Origene (184-253), questi Padri abbracciarono un’interpretazione allegorica della Bibbia. Di conseguenza, il loro commento biblico tendeva ad una speculazione che accantonava il chiaro significato del testo. Mentre la fede ecclesiale di cui si è parlato era, in teoria, mantenuta, ciò che lo Spirito Santo di Dio diceva, rivelava e insegnava era, in pratica, spesso distorto, e talvolta anche completamente oscurato ed eclissato. Come ha scritto Henri Blocher: “L’esegesi spirituale è degenerata in allegorismo. La svalutazione del significato letterale (che non veniva negato) ha allentato la presa dell’autorità scritturale” [45].
Questo allontanamento dalla chiara interpretazione della sacra Scrittura fu ulteriormente rafforzato nel Medioevo con il razionalismo (o più semplicemente un modernismo precoce) di Abelardo [46], il ruolo autonomo accordato alla ragione dalla Scolastica [47], il nominalismo di Guglielmo di Occam (1285-1349) [48], così come il persistente pelagianesimo o semi-pelagianesimo (assente solo dalle opere di quei dottori che scelsero di seguire sant’Agostino, come sant’Anselmo o san Bonaventura).
Infine, e più in particolare, una minaccia al dogma scritturale non venne solo dai singoli teologi, ma anche dall’autorità rappresentativa della Chiesa (papi e concili, sia medievali che moderni). Appellandosi a una presunta tradizione che, per quanto strana e indefinibile, si era progressivamente stabilita come una nuova e seconda fonte della rivelazione, l’autorità rappresentativa della Chiesa si accordava arrogantemente il diritto di definire dottrine e autorizzare pratiche che non erano in accordo con la Scrittura, e talvolta persino in opposizione ad essa. E così studiosi e dottori devoti che, su certi punti, avevano attentamente ascoltato la Scrittura, cominciarono a incoraggiare e insegnare ciò che, su altri punti, il magistero ecclesiale aveva osato inventare e stabilire. L’elenco delle invenzioni comprende il culto della Madonna, alla quale venivano attribuiti i titoli di nostro Signore (“Mediatrice”, “Regina del cielo”, per esempio); il culto dei santi che erano diventati essenzialmente piccole divinità specializzate; i meriti, le indulgenze concesse dai papi per cifre da capogiro; la transustanziazione e il culto dell’ostia consacrata; la salvezza per opere; l’autorità sovrana (spirituale e temporale) del vescovo di Roma, ecc. Questa corruzione della dottrina da parte delle autorità rappresentative costituiva un’infedeltà molto più grande dei peccati pubblici e dell’immoralità del clero, che era spesso incoraggiata dall’esempio del Papa stesso. Persino la ricchezza esorbitante della Chiesa e il suo commercio di cariche ecclesiastiche erano meno dannosi di queste deviazioni dottrinali, perché queste ultime alla fine avrebbero lasciato il loro segno nel profondo della tradizione, della predicazione, della liturgia, della catechesi, della morale e del governo della Chiesa – e, di conseguenza, sarebbero penetrate nella vita spirituale e nei costumi dei cristiani che arrivavano ad accettarle come ovvie, incontestabili, sotto pena di essere accusati di eresia o scomunicati. Tutto questo dimostra la necessità di un dogma della Scrittura, come dice Calvino:
Se consideriamo quanto sia fragile lo spirito umano ed incline a dimenticare Dio, quanto è facile per lui cadere in ogni tipo di errore, da quali istinti sia spinto nel foggiarsi strane credenze, si potrà comprendere quanto sia stato necessario per Dio avere i suoi documenti autentici in cui scrivere la sua verità onde essa non perisse per dimenticanza né venisse meno per errore e non fosse corrotta dalla temerarietà degli uomini [49].
Se Lutero è ricordato come il grande Dottore della giustificazione per fede – un dogma ecclesiale sposato da tutte le Confessioni riformate – allora l’intera schiera dei Dottori riformati, incluso Calvino, dovrebbe essere riconosciuta per aver contribuito a stabilire il dogma ecclesiale riguardante la sacra Scrittura e la sua autorità – anch’esso sposato all’unanimità dalle Confessioni riformate.
Non potrei fare di meglio che citare la Confessione di fede Gallicana (1571) e la Confessione di fede di Westminster (1647):
Noi crediamo che la Parola contenuta in questi libri è derivata da Dio e riceve la sua autorità unicamente da lui e non dagli uomini. Ed essendo essa la regola di ogni verità, contenente tutto ciò che è necessario per il servizio di Dio e per la nostra salvezza, non è consentito agli uomini, e nemmeno agli angeli, di aggiungervi, togliervi o cambiarvi alcunché. Ne consegue che né l’antichità, né le tradizioni, né la quantità, né la saggezza, né i giudizi, né i proclami, né gli editti, né i decreti, né i concili, né le visioni, né i miracoli devono essere opposti a questa sacra Scrittura. Al contrario, ogni cosa deve essere esaminata, regolata e riformata in base ad essa (Confessione di Fede Gallicana, articolo 5).
Estratti da Westminster (capitolo 1) sulla sacra Scrittura:
I punti essenziali del dogma della Scrittura
Consideriamo i punti essenziali del dogma della scrittura articolato dalle Confessioni riformate.
Quali testi sono di autorità ultima
Le Confessioni fanno più che enumerare semplicemente, uno per uno, quei libri che sono canonici in senso dogmatico, che hanno “autorità divina” (La Confessione di Fede Gallicana, articolo 3; La Confessione Belga, articolo 4; Westminster, 1. 2) [50]. Esse vanno a definire precisamente quali testi hanno autorità definitiva per la Chiesa, essendo “l’Antico Testamento in ebraico e il Nuovo Testamento in greco”, “immediatamente ispirati da Dio, e, per la sua singolare cura e provvidenza, mantenuti puri in ogni epoca”.
Fino alla Riforma, la maggior parte dei Dottori della Chiesa, seguendo l’esempio di Agostino, misero il testo greco della Septuaginta e della Vulgata latina sullo stesso piano della Scrittura ispirata. Questo era vero anche per Agostino, che credeva che la leggenda della Lettera di Aristea fosse il racconto storico di un miracolo. Così due traduzioni dei testi sacri vennero ad essere considerate più autorevoli dei testi stessi. Infatti, dopo che la Riforma ebbe messo radici, il Concilio di Trento – i cui membri erano quasi tutti ignoranti sia dell’ebraico che del greco – farà della Vulgata latina di San Girolamo (che Girolamo stesso aveva dichiarato non ispirata!) una vera e propria “icona verbale” [51].
Come aveva fatto su molte altre questioni, la Riforma avrebbe reclamato e sostenuto l’antica – cioè pre-agostiniana, pre-medievale – tradizione cattolica [52]. I Riformatori sarebbero tornati “alle fonti”, e questo significava al testo masoretico per l’Antico Testamento e al testo bizantino per il Nuovo.
I Riformatori avrebbero riconosciuto come canonico il testo ebraico tramandato da Israele alla Chiesa (Romani 3:1-2 e 9:4), il testo della sinagoga, il testo che gli scribi (i sopherîm, o “uomini del libro”, del sepher) avevano trasmesso ai Masoreti (da massora, che significa “trasmissione”, “tradizione”). Nel trattare il testo, i masoreti erano più che attenti: erano scrupolosi, perché consideravano il testo come l’atto costitutivo ispirato e sacro quale effettivamente era. Dal quinto all’undicesimo secolo, si occuparono della sua trasmissione con un rinomato rigore – preciso nei minimi dettagli (per assicurare la precisione, contavano il numero di consonanti sia verticalmente che orizzontalmente, e notavano la posizione delle lettere centrali e delle parole di ogni libro). Erano “trasmettitori” della Parola di Dio in parole umane, nella fede e nelle preghiere così come nella loro conoscenza dettagliata del suo vocabolario e della sua grammatica. Erano così ansiosi di lasciare il testo consonantico [53] inviolabile il più possibile inalterato che scelsero di non segnare i punti vocali impliciti che sarebbero andati sopra, sotto o in mezzo alle consonanti, e misero gli accenti e le correzioni suggerite – “ciò che dovrebbe essere letto” – solo nei margini o a lato. Dal 1524 al 1525, il “testo ricevuto”, il testo masoretico, fu accuratamente redatto a Venezia da Jacob ben Chayyim (è questa edizione che lo studioso ebreo Cassuto ha utilizzato per la sua Bibbia ebraica, pubblicata a Gerusalemme nel 1953).
Per il Nuovo Testamento, la Riforma dichiarerà canonico il testo greco (chiamato “testo bizantino”, anche se sarebbe meglio chiamarlo “testo ecclesiale”, poiché fu a lungo considerato come il testo normativo dalla Chiesa, sia in Oriente che in Occidente). Questo è il “testo ricevuto” (textus receptus) che Erasmo (1469-1536) avrebbe pubblicato nel 1516.
Questo è il motivo per cui le chiese della Riforma hanno tanto stimato il ministero ordinato dei loro “pastori e dottori” (Efesini 4:11) [54], ai quali era richiesta la formazione necessaria per poter consultare la Bibbia nelle lingue originali.
Permettetemi di concludere questa sezione con alcune citazioni dagli scritti di Francesco Turretini [55].
Sebbene la loro utilità sia enorme per l’istruzione dei credenti, tuttavia nessuna versione può o deve essere messa sullo stesso piano dell’originale, tanto meno essere preferita ad essa. (1) Perché nessuna versione ha qualcosa di importante che la fonte ebraica o greca non abbia in modo più completo, poiché nelle fonti non solo la materia e le frasi, ma persino le singole parole sono state dettate direttamente dallo Spirito Santo. (2) Una cosa è essere un interprete, un’altra è essere un profeta, come dice Girolamo (Praefatio in Pentateuchum [PL 28.182]). Il profeta in quanto ispirato da Dio (theopneustos) non può sbagliare, ma l’interprete in quanto uomo non manca di alcuna qualità umana poiché è sempre soggetto ad errori. (3) Tutte le versioni sono i ruscelli; il testo originale è la fonte da cui scaturiscono. Quest’ultima è la regola, la prima è la materia, avente solo autorità umana.
Tuttavia, non si deve negare ogni autorità alle varie versioni. Bisogna qui distinguere attentamente una duplice autorità divina: una relativa alla materia, l’altra alle parole. La prima riguarda la sostanza della dottrina che costituisce la forma interna delle Scritture. La seconda riguarda la casualità della scrittura, la forma esterna e accidentale. La fonte le possiede entrambe, essendo ispirata da Dio (theopneustos) sia per le parole che per la materia, ma le versioni possiedono solo la prima, dato che sono espresse con parole umane e non divine…
Ne consegue che le versioni … potrebbero essere esposte a errori e ammettere correzioni; tuttavia, sono autentiche per quanto riguarda la dottrina che contengono (che è divina e infallibile) [56].
La Parola scritta deve essere ascoltata nella Chiesa
Spesso si sente dire che la Riforma è responsabile per l’aumento dell’individualismo. I cattolici romani e gli ortodossi accusano la Riforma di questo, mentre i protestanti modernisti liberali la lodano per questo. Tuttavia, contrariamente a questa presunta affermazione, la Riforma non ha mai esaltato l’individualismo. Infatti, ha sempre sostenuto che la Parola di Dio scritta deve essere ascoltata nella e con la Chiesa.
La Riforma ha enfatizzato l’autorità sovrana delle Scritture, ma non dobbiamo dimenticare che ha enfatizzato questo dogma (insieme al dogma soteriologico) nelle sue Confessioni di fede ecclesiali, che, inoltre, hanno integrato i dogmi cristologici e trinitari definiti dai primi concili ecumenici. Tutti questi dogmi presero il loro posto nella traditio e Scriptura fluens ecclesiale (tradizione che segue la Scrittura).
Anziché sostenere l’individualismo, le Confessioni della Riforma si oppongono chiaramente ad esso:
La Confessione di fede francese (gallicana)
Ora, poiché noi non godiamo di Cristo se non mediante l’Evangelo, noi crediamo che l’ordinamento della chiesa che è stato stabilito dalla sua autorità deve essere sacro e inviolabile …Noi crediamo quindi che nessuno deve ritirarsi in disparte e accontentarsi della sua persona, ma che tutti insieme devono conservare e mantenere l’unità della chiesa … ovunque Dio abbia stabilito un vero ordinamento di chiesa … Noi crediamo che tutti coloro che non si sottomettono a quest’ordinamento, o se ne separano [per riunirsi altrove], vanno contro l’ordine di Dio (articoli 25 e 26).
La seconda Confessione elvetica
Del resto, noi abbiamo in così alta stima la comunione con la vera Chiesa di Dio da negare che possano vivere davanti a Dio coloro che non sono in comunione con la vera Chiesa di Dio, ma si separano da essa. Infatti, come fuori dall’arca di Noè non si poteva essere salvati, quando il mondo venne distrutto dal diluvio, così noi crediamo che non vi sia alcuna salvezza certa al di fuori di Cristo, il quale si comunica nella Chiesa ai suoi eletti. Per cui insegniamo che è necessario che coloro che vogliono vivere, non si separino mai dalla vera Chiesa di Cristo … Diciamo pertanto che la vera unione della Chiesa consiste negli articoli di fede [dogmi], nella vera e concorde predicazione dell’Evangelo di Cristo … (capitolo XVII).
La Confessione di fede di Westminster
La chiesa cattolica o universale, che è invisibile, consiste dell’intero numero degli eletti, che sono stati, sono, o saranno raccolti in uno, sotto Cristo il Capo della medesima; ed è la sposa, il corpo, il compimento di colui che porta a compimento ogni cosa in tutti.
La chiesa visibile, la quale pure è cattolica o universale sotto il Vangelo (non confinata a una nazione, come in precedenza sotto la legge), consiste di tutti coloro in tutto il mondo che professano la vera religione; e dei loro figli: ed è il regno del Signore Gesù Cristo, la casa e famiglia di Dio, al di fuori della quale non vi è possibilità ordinaria di salvezza.
A questa chiesa visibile e cattolica Cristo ha dato il ministero, gli oracoli, e gli ordinamenti di Dio, per la raccolta e il perfezionamento dei santi, in questa vita, fino alla fine dell’età presente: e, mediante la propria presenza e il suo Spirito, secondo la sua promessa, li rende efficaci a tal fine (capitolo XXV).
Coloro che accusano (o lodano) la Riforma per l’aumento dell’individualismo farebbero bene ad esaminare il posto riservato alla Chiesa nelle Confessioni della Riforma.
Inoltre, gli insegnamenti della Riforma, come si trovano nelle sue Confessioni e negli scritti dei suoi Dottori, sottolineano che nessuna fedele predicazione, insegnamento e interpretazione della Scrittura può essere separata dalla tradizione cattolica e, di conseguenza, che tale predicazione, insegnamento e interpretazione devono essere eseguiti in una cordiale e dichiarata sottomissione ai dogmi ecclesiali derivanti dalla Scrittura e chiariti nei primi secoli (i dogmi trinitari e cristologici) così come nei secoli XVI e XVII (i dogmi soteriologici e scritturali).
Né i primi concili ecumenici, con le loro definizioni trinitarie e cristologiche, né le confessioni della Riforma, con le loro definizioni soteriologiche e scritturali, hanno inventato nuove dottrine in aggiunta a ciò che dice la Scrittura. Hanno semplicemente preservato la Fides catholica e Scriptura fluens (la fede cattolica che procede dalla Scrittura) chiarendola contro le molte eresie minacciose che spuntavano continuamente, e confessando il Soli Deo Gloria (a Dio solo la gloria!), che:
DIO SOLO È IL SIGNORE SALVATORE, E NON C’È ALTRI CHE LUI.
Ribadiamo ancora una volta: la sacra Scrittura, la Parola di Dio, non può essere accettata, secondo il suo vero significato, al di fuori del contesto ecclesiale, al di fuori del consenso dogmatico della Chiesa cattolica. Questo consenso ha peso e valore in virtù della sua fedeltà alla Scrittura. Questo consenso deve quindi essere sempre difeso e sostenuto perché è costantemente minacciato da coloro che, disprezzando la fede cattolica e non comprendendo la tradizione cattolica, si allontanano di conseguenza dalla Parola scritta data dal Signore Gesù Cristo alla Chiesa, sua sposa. È da questa Parola che derivano necessariamente i dogmi ecclesiali in questione.
Si può quindi capire perché la Riforma, dai suoi primi giorni in poi, abbia prodotto così tanti catechismi che espongono la fede e i dogmi cattolici per tutti i cristiani, bambini, o credenti battezzati, e per chiunque cerchi la verità. Questi dogmi avrebbero potuto essere trascurati con grande pericolo, perché non solo la Scrittura sarebbe stata fraintesa, ma alle eresie sarebbe stato assicurato un momentaneo trionfo a rovina delle anime [57].
Il dogma scritturistico rende chiaro che la Chiesa è la serva della fede
Vediamo che lo sviluppo del dogma scritturistico da parte della Riforma non era inteso a minare la tradizione cattolica, una tradizione che la Riforma guardava con (nelle parole di J. Pelikan) riverenza critica, come fece per tutta la storia della Chiesa [58]. La Riforma, i cui leader parlavano della Chiesa come “la madre che concepisce e porta [in grembo] ogni cristiano” [59]e “la Chiesa madre di tutti coloro di cui Dio è padre” (la Mère de tous ceux dont Dieu est le Père), era per molti aspetti molto più cattolica dei suoi avversari [60]. Con il dogma scritturistico, ha chiarito ciò che avrebbe dovuto essere definito fin dall’inizio della Chiesa e assunto durante i primi concili – ciò che era già stato codificato, effettivamente testimoniato dai dogmi trinitari e cristologici definiti dai primi sei concili ecumenici.
In tutte le sue Confessioni, la Riforma ha fatto ciò che era atteso da tempo (e questo è il nucleo del dogma scritturistico!): ha dichiarato dogmaticamente che la fede (la Fides quae creditur, la fede che esige di credere) viene prima della Chiesa, nel senso che la Chiesa deve essere la serva della fede, e non il contrario. In assenza di questa chiara dichiarazione dogmatica, fedele alla Scrittura (dovete “combattere strenuamente per la fede, che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre”; Giuda 3), alla fine gli insegnamenti della Chiesa si pongono troppo spesso al di sopra della Parola di Dio. Lutero affermò con fermezza: “Che cosa può stabilire la Chiesa che la Scrittura non abbia già stabilito in precedenza?” [61].
La verità non sta in ciò che la Chiesa insegna. Sta nella Parola (che istruisce la Chiesa ).
Alla Chiesa è stata data una missione di insegnamento (Matteo 28:19-20) che può svolgere efficacemente solo aderendo in primo luogo, continuamente e rigorosamente alla verità: Gesù Cristo, la Parola fatta carne, la sacra Scrittura, la Parola soffiata da Dio.
Secondo Roma, la necessità che la sacra Scrittura fosse chiarita dalle tradizioni ecclesiali (che erano state “battezzate” allora come “la Tradizione”) era maggiore della necessità che tali tradizioni fossero chiarite e autorizzate dalla Scrittura del Signore.
Inoltre, come sosteneva Calvino, “la Chiesa, ricevendo la Sacra Scrittura e garantendola con il suo riconoscimento non la autentica, quasi fosse stata, prima di allora, dubbia o contestata; ma riconoscendola come pura verità del suo Dio la venera e la onora com’è necessario per dovere di pietà” [62].
La Riforma e il Concilio di Trento hanno dato risposte diverse alla domanda fondamentale e inevitabile: chi governa come sovrano dotato di piena autorità sulla Chiesa? Il Concilio di Trento dichiarò: “il sovrano pontefice romano!”. Così Roberto, il cardinale Bellarmino (1542-1621), uno dei dottori della Controriforma romana, riassunse molto bene Trento quando scrisse nel suo De Verbo Dei (“Sulla Parola di Dio”), 19: “Il giudice supremo non può essere la Scrittura ma il sovrano ecclesiastico, da solo o con l’aiuto e il consenso dei suoi colleghi vescovi”. Al contrario, la Riforma dichiarò: “No! Il giudice supremo è lo Spirito Santo che parla con e mediante la Scrittura!”
Il nocciolo del dogma scritturale, come confessato e definito dalla Riforma, fu che ogni autorità ecclesiastica (Concili o Sinodi), nel suo necessario, anche se secondario, ruolo ministeriale, dovrebbe sempre essere in grado di mostrare che le sue decisioni dottrinali sono chiaramente secondo la Scrittura. Il leitmotiv, la chiamata della Chiesa mater et magistra (madre e maestra) dovrebbe essere sempre: “Alla Legge! Alla Testimonianza!” (cfr. Isaia 8:20).
Per l’Antico Testamento: “Hanno Mosè e i profeti; ascoltino quelli” (Luca 16:29).
Per il Nuovo Testamento, Gesù dice ai suoi apostoli: “Voi che mi avete seguito sarete seduti su dodici troni a giudicare [esercitare l’autorità su] le dodici tribù d’Israele [tutta la Chiesa]” (Matteo 19:28b).
Cristo e i suoi stessi apostoli non cessarono mai di appellarsi all’autorità sovrana della Scrittura (Matteo 4:1-11; 15:3; 22:32-33; Giovanni 5:39-47; 10:32-38; Atti 17:1-14; 18:1-11; 26:22-23; ecc.).
Con la sua Scrittura, Dio stesso interpreta la sua Scrittura.
E se è vero in un senso che il Figlio di Dio incarnato non ha mai scritto nulla, è molto più vero in un altro senso che lui è l’Autore, insieme al Padre e allo Spirito Santo, di tutta la Scrittura.
Ogni volta che il Nuovo Testamento introduce una citazione dell’Antico Testamento con “Sta scritto”, questo è un sinonimo di “Dio ha voluto che fosse scritto …” o più profondamente ancora: “Dio, per sua ispirazione, ha scritto…”
Contra: Con l’intenzione di relativizzare l’autorità divina della Scrittura, i teologi romani dopo la Riforma hanno insegnato che la Parola di Dio è stata scritta solo occasionalmente – “a causa delle circostanze”.
Respondeo: È fondamentalmente vero che la Scrittura è stata scritta “in circostanze particolari”, tenendo presente che (1) la composizione della Scrittura è sempre avvenuta per comando e “ispirazione” di Dio e (2) le circostanze non accadono mai se non secondo la sovrana provvidenza di Dio.
Mosè non fu l’unico a cui il Signore disse: “Scrivi questo fatto in un libro, perché se ne conservi il ricordo (zikkâron in ebraico)” o “Scrivetevi dunque questo cantico (Cantico di Mosè)” [63]. Ci furono anche Isaia (8:1), Geremia (30:2) e Abacuc (2:2), tra gli altri (cfr. Esodo 24:12; Deuteronomio 31:9; Salmo 102:18; Apocalisse 1:10-11; ecc.).
La causa principale per cui la Parola di Dio fu messa per iscritto fu il comando sovrano di Dio. Le circostanze stesse, che erano comunque nella mano di Dio, erano solo le cause secondarie. Gli apostoli hanno certamente insegnato e scritto abbastanza spesso un resoconto delle circostanze. Ma, nel trattare queste circostanze, misero per iscritto i loro insegnamenti solo su comando del Signore e secondo la loro chiamata di “insegnare alle nazioni”.
Secondo l’“amministrazione divina”, cioè il piano di salvezza, lo Spirito Santo era – e rimane fino alla fine del mondo – il supremo Aiutante sia di Gesù Cristo, il Verbo incarnato, sia della sacra Scrittura, il Verbo “alitato”. (Filippesi 1:9 dice dello Spirito Santo che egli è l’Epichorète – colui che provvede, che agisce in noi; altrove è chiamato Paraclete – colui che è chiamato accanto, che porta, che sostiene). Ma è anche l’Aiutante (l’Epichorète, il Paracleto) che ci unisce a Gesù Cristo, che testimonia in noi che la sacra Scrittura è veramente la Parola di Dio, e che illustra la sacra Scrittura alla Chiesa e a tutti i fedeli affinché la verità, quale essa è, risplenda nel suo affettuoso e forte fulgore.
Concludiamo questo capitolo con tre brevi citazioni [64].
Siamo fratelli, perché litigare? Si plachi il nostro animo, il Padre non ci ha lasciati senza testamento … Apri il testamento, leggi … (Sant’Agostino [354-430], sul Salmo 21)
Sicuro criterio di verità in ogni dottrina è la testimonianza ispirata da Dio (San Gregorio di Nissa, [335-394] Contro Eunomio – Libro I, 39.294)
Che gli scritti divinamente ispirati siano il nostro giudice; e che il verdetto della verità sia così ricevuto senza riserve da coloro i cui insegnamenti devono essere conformi agli insegnamenti della Scrittura (San Basilio [c. 330-379], Lettera 189 a Eustazio il Dottore)
Note:
1 Jaroslav Pelikan: The Emergence of the Catholic Tradition
2 Cfr. Giovanni 17:1-5; 6-19; 20-26.
3 Di conseguenza, benché salmo 2:6 (“Sono io che ho stabilito il mio re sopra Sion, il mio monte santo”) ebbe la prima realizzazione con re Davide, trova una realizzazione migliore e più completa col “Figlio di Davide”, nostro Signore Gesù Cristo, intronato come re dei re e Signor dei signori alla sua ascensione alla mistica ma non meno reale, Sion celeste.
4 Isaia deve essere letto con questo monte come suo tema principale.
5 Matteo 5:13-16; 1 Timoteo 3:15
6 N.d.t. Uno pensa alla frase calzante coniata da Jacques Le Goff quando parla de “il tutmultuare dell’immaginazione” che caratterizzò molte formule dottrinali nel primo Medio Evo (The Birth of Purgatory, trad. ingl. Arthur Goldhammer, 1986)
7 In latino: “momentum” è una contrazione di “movimentum”.
8 N.d.t.: Cfr. Harold O. J. Brown: Heresies: The Image of Christ in the Mirror of Heresy and Orthodoxy from the Apostle to the Present (1984) Brown scrive: “L’eresia … presuppone l’ortodossia. E, curiosamente, è l’eresia che ci offre alcune delle migliori evidenze a favore dell’ortodossia perché mentre l’eresia è spesso molto esplicita nei primi secoli della cristianità, l’ortodossia è spesso molto implicita”. Se speriamo, oggi, che l’ortodossia che crediamo sia “la fede trasmessa ai santi una volta per sempre” (Giuda 3), allora è necessario assumere che sia più vecchia dell’eresia. Ma l’eresia compare nei registri storici prima, ed è meglio documentata di ciò che la maggior parte delle chiese è giunta a chiamare ortodossia. Come dunque può l’eresia essere più giovane e l’ortodossia più originale? La risposta è che l’ortodossia era lì fin dal principio e l’eresia la riflesse. A volte si coglie uno sguardo di un’altra persona o di un altro oggetto su uno specchio su un lago prima di vedere l’originale. Ma l’originale aveva preceduto il riflesso e la nostra percezione di esso. Diremmo che la stessa cosa vale per l’ortodossia – l’originale – e dell’eresia – il riflesso. Frequentemente vediamo prima l’eresia ma l’ortodossia l’ha preceduta” (4).
9 Cfr. Jean Marc Berthoud: Une religion sans Dieu. Les Droits de l’Homme contre l’Évangile (L’Age de l’Homme, 1993).
10 “Non ammetteremo, certamente, una sola naturale operazione di Dio e della creatura, perché non avvenga che attribuiamo all’essenza divina ciò che è stato creato, o riduciamo l’eccellenza della natura divina al rango di ciò che conviene alle creature”.
11 Cfr. Pierre Courthial: “Actuelité de Chalcédoine”, Foi et Vie, N° 10, 1976 pp. 59-66.
12 La Riforma, per esempio, fece contatto con le Chiese Ortodosse, ma mancò di influenzarle. In effetti, Cirillo Lucaris, patriarca di Costantinopoli, scrisse una Confessione di Fede (1629) che favoriva lo sviluppo del pensiero riformato nella Chiesa Ortodossa d’Oriente. Però, non solo la sua confessione fu ignorata ma servì anche a provocare una reazione all’interno del mondo ortodosso che rinforzò ulteriormente la sua unicità. Le autorità ottomane riuscirono ad annegare Lucaris, mettendo cos’ fine a qualsiasi influenza la Riforma potesse aver avuto in Oriente. Vedi George Hadjantoniou: Protestant Patriarch, The Life of Cyril Lucaris (1572-1638), Patriarch of CVostantinople (Richmond: John Knox Press, 1961).
13 Deificazione (theosis): “Dio fu fatto uomo affinché l’uomo possa diventare Dio”; cfr. per esempio Massimo il Confessore (morto 662).
14 Cfr. per esempio: Gregorio Palamàs (1296-1359).
15 Cfr. per esempio: Serge Boulgakov (1871-1944) e Paul Florensky (1882-1943). Bisogna aggiungere, comunque, che malgrado l’attenzione data a speculazioni rischiose e biblicamente incorrette sul soggetto della Sofia, c’è anche molto, nel lavoro di questi teologi, che è fedele alle Scritture.
16 N.d.t.: La traduzione Inglese di Man and the God-Man, pubblicata nel 2009 da Sebastian Press, non era disponibile quando Courthial scrisse questo libro nel quale encomiava la traduzione francese di Popovitch pubblicata da “L’Age d’Homme” nel 1989 (L’homme et le Dieu-homme).
17 Calvino: Istituzione delle Religione Cristiana, IV. 1. 27.
18 Ibid., IV. 1. 4.
19 Pelagio (c. 360 – c. 422) e il suo discepolo Celestius, condannati da un Concilio africano tenuto a Cartagine nel 418, diedero il primato al valore a all’autonomia dell’uomo. Rigettarono il peccato originale: il peccato era limitato ad azioni presenti, isolate senza conseguenze ontologiche. Secondo il pelagianesimo, Dio e l’uomo si relazionano reciprocamente in totale libertà: l’uomo agisce sempre liberamente di propria volontà, se lo desiderasse potrebbe essere senza peccato. Pelagianesimo e semi-pelagianesimo, o nelle forme più o meno attenuate o in quelle più estreme, è sempre stato presente nella storia della Chiesa. Un latente pelagianesimo si è manifestato tanto nel mondo Ortodosse d’Oriente che nelle Chiese d’Occidente (Il “Molinismo” dal suo sostenitore il Gesuita spagnolo Luis Molina, 1535-1601, che fu attaccato dai Tomisti [i discepoli di Tommaso d’Aquino, 1225-1274] nel XVI secolo nella Chiesa Romana; e “l’Arminianesimo” che prende il nome da Jacob Arminius, 1560-1609, attaccato dai calvinisti nelle Chiese Riformate).
20 La Città di Dio, Libro XIV, cap. 28.
21 Calvino: Istituzione, IV. 9. 8.
22 Ibid., IV. 9. 9.
23 Ciò che i Riformatori desideravano da Roma era, a questo riguardo, simile a ciò che Gesù desiderava dai giudei ai suoi tempi.
24 John Henry Newman: “On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine”, Rambler, luglio 1859. N.d.t.: Newman si attirò tremenda critica per la posizione che aveva propugnato in quest’articolo. Vedi John R. Connolly: John Henry Newman: A View of Catholic Faith for the New Millennium (Lanham, MD: Rowman and Littlefield Publishers, 2005), 8. “Non c’è dubbio che in questo caso non si chiedevano loro [ai fedeli] consigli, opinioni e giudizi, ma si voleva soltanto accertare una situazione di fatto, si faceva cioè ricorso alle loro credenze come ad una testimonianza di quella tradizione apostolica sulla quale soltanto si può fondare qualunque definizione dottrinale”
25 È vero che in questo periodo perfino il Cardinale Cajetano (1468-1533), maestro generale dei Domenicani e del legato tedesco, osò affermare che il papa era “al di sopra del Concilio, al di sopra della Scrittura, e al di sopra di tutto ciò che è la Chiesa!”
26 Questa citazione è tratta da Défense de la Reformation, II, IV, di Jean Claude (1619-1687).
27 N.d.t.: Courthial fa questo punto con vigore perché ci sono molti gruppi dissidenti che cercano di tracciare la storia della “vera Chiesa” indietro agli apostoli attraverso comunità cristiane piccole e relativamente sconosciute che stanno al di fuori della Chiesa Cattolica. Come ha detto precedentemente, questo crea grandi problemi per tali storici per il fatto che questi gruppi furono generalmente coinvolti in qualche eresia.
28 Encyclopedia Universalis, prima edizione, vol. 18, 32.
29 Étienne Gilson: La philosophie au Moyen Age (Payot III edizione), 747-753.
30 Questa citazione proviene dalla quarta e finale Appendice che conclude il secondo volume di Introduction à la Dogmatique réformée di Lecerf (Parigi: “Je Sers”, 1938), p. 260. L’appendice tratta la definizione di fede data dal catechismo post-tridentino, definizione che il grande medievalista e tomista Étienne Gilson (1884-1978) discusse nel suo libro che al tempo era appena uscito: Christianisme et philosophie. Di passaggio, è interessante notare che Gilson, nel suo La philosophie au Moyen Age (cfr. Una precedente citazione) scrive: “L’influenza della teologia dei Padri e dei Dottori va ben oltre i confini della Chiesa Cattolica [Romana]”, riferendosi quindi alla “Chiesa Anglicana” e … al “Calvinismo”. [N.d.t. La traduzione dall’appendice è mia, sebbene il lettore possa trovare una traduzione Inglese pubblicata in Lecerf: op. cit., 403].
31 Jaroslav Pelikan: The Christian Tradition: A History of the Development of Doctrine, vol. 4, “Reformation of Church and Dogma (1300-1700)” (University of Chicago Press, 1984).
32 In assenza di un aggettivo migliore, dico “soteriologico” poiché in greco sôter = salvatore e sôtêria = salvezza. Per quanto concerne “scritturistico” è definito come “riguardante le sacre Scritture”.
33 La rivelazione della Scrittura è semplicemente un lungo e misterioso “specificare il proprio nome” da parte di Dio.
34 Questa semplice evocazione è la “Preghiera a Gesù” al cuore della tradizione spirituale Ortodossa d’Oriente.
35 Vedi nota precedente sul pelagianesimo.
36 L’Homme et le Dieu-homme (Losanna: L’Age d’Homme, 1989), 156.
37 Martin Luther: The Bondage of the Will, trad. ingl. Di J.I Packer e O.R. Johnston (Grand Rapids: James Clarke & Co. Ltd, 1957), 114
38 Calvino potè in questo modo fare riferimento alle eccellenti affermazioni di Signore Ambrogio su questo soggetto. Cfr. Calvino, Istituzioni, III, 11. 3 e 11. 23.
39 Calvino: Istituzione, III, 9. 11.
40 Ibid., III. 17. 11-12.
41 Per esempio: Esodo 34:27-28.
42 Qui adotto i termini usati da Lecerf: Études calvinists (Delachaux et Niestlé, 1949), 22.
43 Nel suo libro: Inspiration and Canonicity of the Scriptures (Greenville: A Press, 1993) nel capitolo 3 intitolato “L’ispirazione verbale nella storia della chiesa”, R. Laird Harris fa riferimento a diversi Padri della Chiesa che sostengono questo punto: Clemente di Roma (Prima Epistola); Ignazio di Antiochia, morto circa 117 (Lettere agli Smirnesi, ai Magnesiesi e ai Filadelfiesi); Policarpo, discepolo di san Giovanni, martirizzato nella stessa epoca (Lettera ai Filippesi); Giustino Martire (115-165) (Discorso ai Greci, Prima Apologia, Dialogo con Tripho); Ireneo: (Contro le eresie); Clemente alessandrino, ecc., ecc. Sarebbe necessario citare anche i grandi dottori dell’Era della Fede, da sant’Agostino a Tommaso d’Aquino ecc., ecc. L’elenco è infinito!
44 Contro le eresie, III, I, 1.
45 Prolégomènes – Introduzione alla teologia – note tratte da un corso insegnato alla Facoltà di Vaux-Sur-Seine nel 1976, 53.
46 Abelardo, un profeta dell’esercizio del dubbio metodologico, fu un precoce precursore di Cartesio e della “modernità”.
47 Il motivo “natura grazia” avrebbe dominato a lungo il pensiero occidentale, biforcando, non solo natura-grazia, ma anche, lungo le stesse linee, ragione- rivelazione, creazione-redenzione e filosofia-teologia. Questo lasciò aperta la porta per l’adattamento delle fede cristiana a motivi non-cristiani, portando alle moderne antitesi dualiste.
48 Guglielmo di Occam “rimpiazzò parole e idee con meri segni, con ciò trasformando il linguaggio naturale in una semplice algebra del pensiero. Per Occam, le parole non convogliano verità o realtà: convogliano potere”. Arnaud-Aaron Upinsky, nel suo eccellente lavoro La tête coupée (Parigi: Guibert, 1991), 198.
49 Calvino: Istituzione, I. 6. 3.
50 Sebbene il Vecchio Testamento delle Bibbie protestanti abbia questi libri, e solo questi libri che sono nella Bibbia Ebraica, non li hanno però ordinati secondo la Bibbia ebraica (vale a dire la Legge, poi i Profeti, poi gli Scritti), ma hanno seguito l’ordine della Septuaginta (Pentateuco, libri storici, libri poetici, e libri profetici)! È una vergogna e necessiterà di correzione.
51 Quest’espressione è di T. P. Letis, un fedele discepolo della Riforma, in una conferenza del 1990: “La Vulgata Latina e il Concilio di Trento: La Bibbia latina come icona verbale”. Nelle pagine che seguono traggo da diversi articoli pubblicati da questo studioso in anni recenti nelle eccellenti recensioni in Christianity and Society e The Chalcedon Report.
52 Jaroslav Pelikan: Obedient Rebel (New York, NY: Harper & Row, 1964) e The Emergence of the Catholic Tradition, 100-600 (University of Chicago, 1971); e Robert Markus: The End of Ancient Christianity (Cambridge University Press; 1990).
53 Lo scritto ebraico è consonantico, che significa che le sue parole contengono solo consonanti, generalmente tre per parola. E quelle tre lettere stabiliscono la radice (il significato primitivo) della parola; il lettore forniva le vocali. Per esempio, le tre consonanti Q-D-S veicolano l’idea di santità. Il lettore, a seconda del contesto, avrebbe saputo se leggere e dire QaDaS: “Egli è santo”, o QaDoS: “santo” o QoDeS: “luogo santo”.
54 Per esempio, vedi la Seconda Confessione Elvetica (1566) che dichiara al capitolo XVIII riguardo ai “ministri” di Dio che dovrebbero essere “uomini capaci che si distinguono da un sufficiente apprendimento consacrato” affinché possano “spiegare la parola di Dio”.
55 Francesco Turretini (1623-1687), un teologo riformato e il suo contemporaneo Abraham Calov (1612-1686), un teologo luterano ed autore di una Biblia Illustrata (non illustrata ma spiegata! – un magistrale commentario di tutta la Bibbia, 1672-1676) – dovrebbero essere considerati gli ultimi due dottori della Riforma. Il Magnus Opus di Turretini fu il suo Istituzione della Teologia Elentica (“Insegnamenti su teologia molto dibattuta”), pubblicato postumo nel 1688 a Ginevra dove Calvino aveva insegnato per molto tempo (elenctica dalla parola greca elenchein, significa la teologia che Turretini scrisse, come disse egli stesso nella prefazione: “per refutare e, se possibile, convincere – gli oppositori” da tutti i lati. Quelli che, senza averli mai letti, parlano dei dottori ortodossi del XVII secolo come sostenere una “ortodossia morta” trova, leggendoli, che stanno trattando con una teologia vibrante, intessuta di silenzio e preghiera, come ogni teologia dovrebbe essere. È recentemente apparsa una magnifica edizione inglese in tre volumi (Presbyterian and Reformed Publishing, 1977). L’opera copre ventiquattro temi (Loci, in latino, o “argomenti”)in tutto, ordinati come “domande”. Lecerf parla di Turretini come del “Tommaso d’Aquino Riformato” (Études calvinistes, 128).
56 Turretini: Institutes of Elenctic Theology, 1, traduzione di George Musgrave Giger (Phillipsburg, NJ: Presbyterian and Reformed Publishing, 1997), 125-126 (I, Q. XIII, XII- XV).
57 Tra questi catechismi erano annoverati: Dai luterani Il Piccolo e Il Grande Catechismo di Lutero (1529) e i suoi Articoli di Smalcalda (1537); dai riformati Istruzione nella Fede di Calvino (1537) e il suo Catechismo di Ginevra (1545); il Catechsimo di Heidelberg di Oleviano e Ursino (1563); dagli anglicani: The Book of Common Prayer e i Trentanove articoli (1549). Lecerf dichiarò continuamente che i due capolavori della Riforma sono l’Istituzione della Religione cristiana di Calvino (1536-1560) per la dogmatica, e il Book of Common Prayer per la liturgia.
58 Pelikan: Obedient Rebels, 13.
59 Lutero: Il grande catechismo, II, III, 3° paragrafo.
60 Calvino: Istituzione, IV. 1.1.
61 Martin Luther: The Bondage of the Will, 69.
62 Calvino: Istituzione, I. 7. 2.
63 Esodo 17:14; Deuteronomio 31:19; Cap. 32- “Il cantico di Mosè”.
64 Cfr. Turretini: Institutes of Elenctic Theology, Second Topic, Q. 20, XIV.