Il Significato della Giustizia

Dopo la caduta di Roma, Marcellino scrisse ad Agostino, facendo riferimento all’asserzione di Volusiano, il quale accusava il cristianesimo di due cose. Primo, i precetti di Matteo 5: 39-41, come insegnati dai cristiani, contraddicevano gli obblighi di cittadinanza. Secondo, Volusiano diceva implicitamente che la caduta di Roma era dovuta alla religione cristiana. La mente rigorosa di Volusiano vide una contraddizione tra, da un lato le richieste della giustizia e qualsiasi e tutti i tentativi  dello stato di far avanzare la giustizia, e, dall’altro lato, la comune interpretazione dell’etica cristiana, la quale, con la sua dottrina dell’amore e del perdono sovvertiva la giustizia.

 

La questione era tale che fu necessario per Agostino rispondere. La sua analisi dell’uomo portava di fatto ad un concetto dell’uomo e dell’amore che eludeva  il concetto di giustizia. Per Agostino  l’uomo vive nei termini o dell’amore terreno, cupiditas, orientato verso il basso e verso il tempo e l’io, o della caritas, amore celeste, orientato verso Dio, l’eternità e lo svuotamento di sé [1]. Per mostrare il tipo d’amore richiesto dalla caritas, l’uomo dovrebbe in effetti vivere al di là della giustizia.

Anziché affrontare il problema fondamentale che Volusiano percepiva ma esitava ad esprimere a voce alta, Agostino mancò di vederlo completamente. La sua risposta fu semplicemente un’affermazione del moralismo dell’amore, e l’uomo che fu capace di vedere l’ovvio moralismo di Pelagio s’inchinò ad un più subdolo moralismo di propria fattura. La risposta di Agostino fu essenzialmente sei argomenti:

  1. Come poteva questo moralismo essere condannato nel cristianesimo quando Roma stessa lo sosteneva in un periodo precedente, e con ciò divenne grande? Non avevano forse i grandi romani affermato la necessità del perdono, della clemenza, dell’indulgenza? Perché condannare lo stesso principio nella forma cristiana?
  2. Lo scopo di questo moralismo per Agostino era duplice, primo per produrre concordia sociale e, secondo, per salvare peccatori con una dimostrazione di perdono. Ciò che Agostino mancò di notare è che il concetto biblico di perdono è condizionale al vero pentimento, non il suo fondamento, ed è solo dopo illimitato in estensione. In questo modo il perdono non è una licenza per peccare ma la risposta di Dio e dell’uomo al vero pentimento. Non è il terreno ma il frutto della salvezza.
  3. Inoltre, Agostino fece il tempo meno reale dell’eternità e le richieste della giustizia meno valide di un etica soterica dell’amore e del perdono. L’eternità è da preferirsi al tempo e alla giustizia. Ma la posizione biblica è l’incarnazione, che mai rinuncia il tempo ma riconcilia tempo ed eternità. Agostino in questo modo chiaramente evitò la questione.
  4. Poi Agostino arrivò vicino ad asserire un carattere messianico per la sofferenza sopportata nel nome dell’amore e del perdono, e criticò Paolo per aver fallito a questo riguardo.
  5. Agostino poi difese, per non sembrare sconfinato nell’anarchia, il diritto del magistrato alla correzione paternalistica, affermando anche che la guerra allo stesso modo deve essere paternalistica e correttiva.
  6. Roma cadde, infine, non per il moralismo cristiano ma per l’immoralismo romano. Questa verità lapalissiana non alterò la validità del problema di Volusiano, per quanto vera fosse l’immoralità di Roma [2].

 

I versetti in questione, Matteo 5: 39-41, venivano ancora letti in un falso contesto e visti come contrari a qualsiasi altra cosa nella Scrittura che concerna la giustizia. Ciò che Gesù dichiarò qui faceva riferimento alle relazioni personali, dove irrigidirsi sui diritti avrebbe solamente aggravato piuttosto che raddrizzato una situazione, e a casi di servizio forzato da regole governative. Riguardo a Matteo 5: 41, per esempio, e della parola “costringe”, Ellicott, per nulla liberato dall’interpretazione di Agostino, comunque nota:

La parola greca implica la speciale compulsione o il servizio forzato quale corriere o messaggero al servizio del Governo, e fu importato dal servizio postale Persiano, organizzato intorno al piano d’impiegare uomini in questo modo arruolati per forza per trasportare dispacci di tappa in tappa (Herod. Viii 98). L’utilizzo dell’illustrazione qui sembra implicare l’adozione dello stesso sistema dal governo romano sotto l’Impero. Soldati romani e i loro cavalli venivano alloggiati in case di Giudei a questo obbligati. Altri venivano forzatamente arruolati per servizi di durata breve o più lunga [3].

Ancora, quando Gesù lo dipinse come un segno di saggezza, se portati in giudizio per una tunica, arrendere anche il mantello (Matteo 5:40), egli parlò, non nei termini di un idealistico pacifismo, che vorrebbe convertire il criminale, ma con saggezza e crudo realismo. Nella maggior parte delle epoche l’uomo è stato ben più saggio ad accettare una perdita qua e una là piuttosto che incorrere in una perdita maggiore o nel male di un processo civile [4].  William Seagle, che ha servito sia nel ministero degli Interni degli Stati Uniti che nella Tavola Nazionale delle Relazioni Sindacali, ha scritto dell’inefficienza dei tribunali: “Uno studio fatto dall’Istituto  per gli Studi della Legge all’Università John Hopkins ha evidenziato che nella Corte Suprema della Contea di New York meno del 7% del totale dei giudizi emessi dalla corte erano stati effettivamente risarciti alla parte ‘vincente’ [5]. Possiamo essere piuttosto tranquilli che i giudici hanno percepito il loro salario e gli avvocati le loro parcelle. In molti casi, dove sembra esserci maggiore  efficienza, altri fattori rendono ancor più imperativo evitare il tribunale. Troppo spesso, nelle dittature, qualsiasi incontro con la corte di giustizia è mortale, nelle democrazie, troppo spesso, andare in tribunale arricchisce in massima parte gli avvocati, e può essere piacevole quanto un tuffo in una fogna. Il cristiano è comandato di insistere per la giustizia (Lu. 18: 2-8), poiché Dio onora questa perseveranza sia in relazione alle corti di giustizia umane che a sé stesso. Ma non può esserci illusione in  tale sforzo, né sciocche contestazioni per un mantello. La linea di combattimento deve essere tracciata sugli essenziali. Questo crudo realismo deve essere collegato ad un’assoluta speranza che agisce redentivamente nel nome di Cristo, certi della sua capacità di conquistare o di revocare e di avere il sopravvento. Il dovere è dell’uomo, e la questione è di Dio. La dura realtà del combattimento e della persecuzione, presentata proprio nelle beatitudini, è stata trasformata dagli uomini nella teoria  dell’onnipotenza dell’amore e del suo potere salvifico. Il realismo biblico fu in questo modo convertito in un impossibile idealismo perfezionista, e la particolarità biblica in un’inflessibile universalizzazione. La Bibbia, radicalmente anti-idealista, è stata trasformata in un manuale per idealisti con questa persistente mala lettura.

Le conseguenze di questo radicale moralismo furono la sovversione della vera giustizia, e la confusione della giustizia con la carità, con l’amore e col perdono. Tale confusione è diventata luogo comune da tutte le parti, come testimonia una dichiarazione nel 1948 dal WCC (Consiglio Mondiale delle Chiese): “La giustizia richiede che gli abitanti dell’Asia e dell’Africa, per esempio, dovrebbero avere i benefici di una maggiore produzione di macchinari” [6]. È questo concetto di giustizia che oggi è richiesto da tutte le parti da gruppi di minoranza e di maggioranza.

Ma proprio il retroterra di quest’opposizione dell’amore alla giustizia è sia antinomiano che pagano ed è sicuramente anti-biblico. Sboccia in parte da sistemi gnostici i quali, con retroterra dualistico contrapponevano un Dio d’ira materialista, creatore, uno immerso nella creazione e questioni di giustizia, con un Dio spirituale che era al sopra e al di là della creazione materiale ed ostile ad essa, e che era tutto amore e dolcezza [7].  Ma la dottrina biblica di Dio non vede ostilità alcuna tra amore e giustizia; i due sono distinti ma inseparabili. Per l’amore è impossibile fiorire sovvertendo o by-passando la giustizia; a quel punto ha il significato di una licenza al male ed è in sé stesso non amore ma una forma di male [8].  Quando Jehovah si identifica ripetutamente come “Dio geloso”, Egli indica l’unità di amore e giustizia, e che l’amore era inevitabilmente e inestricabilmente un aspetto della sua richiesta di giustizia. La perfetta illustrazione di questa coincidenza è la croce di Cristo, dove, secondo la dottrina biblica, l’ira divina contro il peccato e la richiesta di giustizia di Dio furono soddisfatte sul portatore del peccato, uomo rappresentativo e federale: Gesù, ad uno e lo stesso tempo che l’amore di Dio in tutte le sue sorprendenti dimensioni veniva presentato nella stessa persona di quel Dio-uomo. La dottrina dell’espiazione perciò proibisce sia la contrapposizione dell’amore alla giustizia che la loro confusione, poiché esistono in unità senza confusione. Perciò Agostino su questo punto errava e Volusiano stava muovendo verso la risposta giusta a motivo della sua domanda. La caritas  distruggerà uno stato, perché è un concetto di amore celeste che è antinomiano e sovversivo della giustizia. Inevitabilmente il pensiero prodotto dalla caritas deve guardare al grido per vera giustizia come motivato usualmente da cupiditas, amore terreno. Tale modo di pensare infine conduce a Francesco d’Assisi, a pretesi santi che confusero la pazzia con la santità e il furto per amore dei poveri con la giustizia. In questo modo per Ambrogio il comunismo divenne cristiano perché stante al di là della giustizia, al di là del reame del proprio interesse o amore terreno. Ambrogio ridefinì la giustizia in termini pretesi cristiani escludendo da essa due idee “pagane”, vendetta e proprietà privata; l’idea di potere pure viene esclusa dalla giustizia [9].

L’uomo giusto ha compassione, l’uomo giusto presta. L’intero mondo di ricchezze giace ai piedi del saggio e del giusto. Il giusto considera ciò che appartiene a tutti come suo proprio, e ciò ch’è suo come proprietà comune. Il giusto accusa sé stesso piuttosto che altri [10].

Sorprendentemente, Ambrogio, in confusione totale, lesse questa concezione in retrospettiva alle origini nella “Giustizia Divina” stessa![11]. Il moralismo del paganesimo fu così innalzato e intensificato dalla chiesa.

Infatti, il moralismo del paganesimo era stato meramente battezzato e accolto nell’ovile, e più tardi Dante vide Virgilio come propria guida attraverso la maggior parte del purgatorio (Purgatorio XXX); mentre in Paradiso egli vide gli spiriti pronunciare parole di Sapienza: “Amate la giustizia voi che siete i giudici della terra”, e poi altri spiriti si radunano sulla cresta della lettera e prendono la forma di un’aquila, il simbolo della legge e della giustizia romana (Paradiso XVIII). Non stupisce che a questo punto Dante, che vide il cielo come il trionfo della legge naturale romana e della sua giustizia, abbia con angoscia chiesto perché i pagani virtuosi fossero esclusi dal cielo in tale palese contraddizione alla giustizia “di Dio”. La risposta è che qui c’è un mistero che sta al di là della conoscenza umana (Paradiso XIX). Dante non poté dare altra risposta: la giustizia di Dio e la legge naturale erano uno, e, di conseguenza, i filosofi romani sarebbero dovuti essere in cielo assieme al trionfante simbolo romano di legge e giustizia. Ma Dante riuscì a trovare due pagani in cielo, Rifeo il troiano, chiamato da Virgilio “l’un uomo fra i troiani più giusto e osservante del diritto” (Eneide; ii), e Traiano, entrambi, dal punto di vista della storia pagani, ma secondo le “informazioni” di Dante entrambi morti nella vera fede, Rifeo in Cristo a venire, e Traiano in Cristo venuto. In questo modo Dante è gratificato di sapere che la predestinazione ha salvato e salverà molti apparentemente pagani (Paradiso XX). Per Dante, la superiorità del cristianesimo, che era in continuum col nobile paganesimo, si posava sulle sue aggiunte  a quella struttura, aggiunte che la rendevano completa. Così, l’amore, aggiunto dal cristianesimo, ha valore ultimo e trascende la giustizia, e la visione finale è del “l’Amore che muove il sole e le altre stelle”. La Divina Commedia fu un trattato religioso e politico, designato a guidare gli uomini verso la vera beatitudine e fu, senza usarne le usuali formule terminologiche, sempre e  comunque una rivendicazione della filosofia della legge naturale.

La legge naturale fu portata dentro la chiesa molto presto dopo la chiusura del Nuovo Testamento. La chiesa primitiva, attinse da pensatori e filosofi greci e romani i quali videro la fede come mezzo di rinnovamento dell’impero, la videro come il compimento delle antiche virtù e moralità che Roma aveva un tempo onorato. Per questo essi erano pronti a dare il benvenuto a qualsiasi moralismo come alleato malgrado sé stesso, talché ciascun nemico fu affrontato con una forte intolleranza formale e allo stesso tempo con una pronta assimilazione del suo pensiero di legge naturale.

Ma, come Troeltsch ha giustamente indicato, il complessivo retroterra del pensiero di legge naturale era panteista [12]. Nessuno sviluppo di teoria di legge naturale è riuscito a superare questo retroterra panteista, né è possibile che lo faccia. La legge naturale presuppone un ordine normativo che sia inerente all’universo o nella natura, mentre il pensiero biblico vede l’universo come decaduto e pervertito, e la sola fonte della legge in qualsiasi circostanza essere non la creatura, né la creazione, ma il Creatore – Dio – nella sua parola e per mezzo di essa. La legge naturale è dunque inevitabilmente anti-cristiana e presuppone un ordine ultimo autonomo nella natura o identico alla natura o nell’uomo inevitabilmente in distinzione da Dio.

In anni recenti, c’è stato sia un revival che un rinnovato attacco contro le teorie di legge naturale [13]. Si può affermare, comunque, che sia gli esponenti della teoria di legge naturale che i suoi critici ugualmente sostengono una filosofia di legge naturale. Il trionfo della filosofia della legge naturale fu per molti aspetti la filosofia di Kant, nella quale le legge immanente e l’uomo sono stati fermamente e inestricabilmente congiunti, rendendo possibili Hegel e Marx, col loro procedimento storico quale nuova legge naturale, l’esistenzialismo con una versione altamente personale, e il pragmatismo, con un nuovo e strumentale concetto di quella verità ora completamente immanente e mutevole.

La teoria di legge naturale alla fine è relativismo [14], e ancor più tale col sorgere dell’ipotesi dell’evoluzione. Se il mondo della natura è un continuo procedimento e mutamento, allora procedimento e mutamento sono essi stessi divini e Verità, e nessuna verità finale è possibile finché il procedimento non finisce. In nessun punto del procedimento  la verità è finale o assoluta ma sempre e solo relativa, strumentale nei termini del procedimento e in fase di sviluppo. Di qui, il pragmatismo ed il relativismo sono gli inevitabili prodotti, e i logici prodotti di Hegel, e, di conseguenza, della teoria di legge naturale [15].  In ogni momento porta dentro di sé il seme della propria distruzione. È costretto ad affrontare un procedimento quale scaturigine di norme con radicali presupposizioni che non osa riconoscere. Né i teorici della legge naturale né i loro critici relativisti o positivisti riconosceranno che alla base del loro pensiero ci sono presupposizioni senza fondamento. Quale ragione hanno, per esempio, di supporre che la vita sia più valida della morte, o che la morte non sia l’obbiettivo di ogni procedimento? Di fatto, secondo alcuni, la volontà di morte può essere importante quanto la volontà di vita se non maggiore. E se le brame della società del tempo presente sono la fonte della legge, perché avere la legge, visto che la maggioranza della società sembra incline all’anomia? E visto che pochi cittadini sembrano interessarsi di giurisprudenza, su che basi si giustifica il suo studio e la sua pratica? Perché la ragione, quando prevale l’indifferenza umana o la ribellione contro la ragione, o quando la natura sembra in ultima analisi irrazionale? Nessun relativista ha affrontato questo problema più intensamente e più onestamente di Hans Kelsen, il quale ritrae il conflitto drammaticamente nel faccia a faccia tra l’ “assolutista”, Gesù, col “relativista”, Pilato:

Allora Pilato chiese: “Cos’è verità?” E poich’egli, lo scettico relativista non sapeva cosa fosse la verità, l’assoluta verità nella quale quest’uomo credeva, Pilato, coerentemente, procedette per via democratica rimettendo la decisione del caso al voto popolare. Uscì di nuovo verso i Giudei, dice il vangelo, e disse loro: “Io non trovo alcuna colpa in lui. Ma vi è tra voi l’usanza che io vi liberi uno nella Pasqua, volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?” Allora tutti di nuovo gridarono: “Non costui ma Barabba” Il vangelo aggiunge: “Or Barabba era un brigante”. Per quelli che credono nel figlio di Dio e re dei Giudei come testimone della verità assoluta, questo plebiscito è sicuramente un forte argomento contro la democrazia. E questo argomento, noi che facciamo scienze politiche, dobbiamo accettarlo. Ma solo ad una condizione: che siamo sicuri della nostra verità politica, da far osservare, se necessario con lacrime e sangue, che siamo sicuri della nostra verità, come lo fu, della sua verità, il figlio di Dio [16].

Significativamente, con la sua risposta appassionata Kelsen rivela che la sua posizione dopo tutto non è relativismo; il relativismo è applicato solo a questo soprannaturale assolutismo cristiano-teistico. Egli è “altrettanto sicuro” della sua verità quanto Gesù lo era della propria, e chiaramente crede nell’immanenza che giustifica e convalida il momento storico perché non c’è assoluto altro che quello dell’immanenza.

Il radicale soprannaturalismo del pensiero biblico è in questo modo rigettato precisamente perché la sua verità perviene senza e separatamente dalla scoperta e dalla classificazione di esso da parte dell’uomo, in modo tale che non è un prodotto dello sforzo dell’uomo ma della grazia di Dio. Questa è un’offesa ai filosofi-re di ogni epoca.

Learned Hand, parlando della Suprema Corte degli Stati Uniti, ha espresso la sua ripugnanza a governare “Per mezzo di un branco di Guardiani Platonici, anche se sapessi come sceglierli, cosa che di certo non so fare”. Ma qual era il motivo della sua avversione? “Se essi fossero in carica, perderei lo stimolo di vivere in una società nella quale io, almeno teoricamente, ho qualche parte nella direzione delle questioni pubbliche”. Questo è accettabile, anche se significa essere solamente  “una pecora nel gregge”. A questa critica Hand risponde con San Francesco “Mia sorella, la Pecora” [17].  Questo ingannevole alone d’umiltà non elimina il fatto che una verità di valore ultimo è riservata all’uomo come sua produzione e scoperta, e in qualità di intellettuale e di giudice, Hand si piazza in alto nell’ordine dei “guardiani” quantomeno giuridici. E quando la verità verrà scoperta, alcune pecore avranno bisogno di narcotici per poterlo accettare. Chi somministrerà la medicina?

Se potessimo trovare il tempo per qualche attività altra dal forgiare fantastiche macchine da guerra e usarle per distruggerci l’un l’altro, chissà se non potremmo acquisire una conoscenza di noi stessi talmente profonda da scoprire di fatto principi che saranno altrettanto oggettivamente validi di quelli che governano le cose inanimate; e se avverrà, forse la mescalina del signor Aldous Huxley, o i funghi di Gordon Wasson potranno a quel punto aiutare a renderli generalmente accetti. Nel frattempo, non riesco a pensare a niente di meglio che scommettere il nostro futuro su conclusioni intorno a noi stessi che dobbiamo riconoscere come provvisorie, non meglio di congetture che non dobbiamo mai stancarci di metter alla prova [18].

 

 

Ma non può esserci alcuna prova senza una misura già esistente o uno standard, e Hand rigetta sia il “Volere Divino” sia la legge naturale come compresa tradizionalmente [19].  Come possono essere scoperti questi “principi” se lo stesso scetticismo è un assoluto, stabilito tale dai suoi insegnanti di Harvard? “Nell’universo della verità essi hanno vissuto con la spada; non chiesero misericordia agli assoluti e non ne diedero. Andate e fate lo stesso anche voi”[20]. E se la verità o i “princìpi” saranno talmente astrusi da essere riusciti ad evadere innumerevoli secoli di ricerca umana, come li si potranno conoscere se non per mezzo di una élite di filosofi-re, “Un branco di Guardiani Platonici” proprio come Learned Hand? In tale mondo di fatto le masse dovranno essere comandate come nella Repubblica di Platone o come nel Il Mondo Nuovo di Huxley e gli dovrà essere somministrata la mescalina o in funghi di Wasson per renderli assoggettabili al governo dei “princìpi”. I filosofi-re fanno sempre la parte di dio con una modestia perfettamente appropriata! Socrate fu più onesto quando ammise apertamente che il suo stato ideale, col suo libero accesso alle donne da parte dei filosofi-re, la loro volontà creativa in virtù della ragione, e la loro estesa abilità di calarsi nel ruolo di dèi, era un felice e gratificante sogno ad occhi aperti [21].

L’offesa della legge rivelata consiste nella sua radicale distruttività nei confronti dell’aristocrazia intellettuale; alla ragione viene tolto il trono di divinità e viene costretta nuovamente ad essere ragione. La verità è fatta promiscua e accordata sia a Paolo l’erudito sia a Pietro il pescatore, ad Africani illetterati e a principi di stirpe reale, e la sapienza del sapiente è sorpassata e confusa equamente con la stupidità degli sciocchi. Niente deve provocare più diffidenza o timore dell’umiltà dei sapienti.

Religiosamente, il relativismo appare nel misticismo dell’amore come essere senza o al di là della giustizia. L’amore così concepito e considerato come la virtù superlativa è in essenza antinomiano come minimo e inevitabilmente relativistico. Abbandonando (benché apparentemente trascendendo) la giustizia, porta ad una pragmatica liberazione dalla fissità degli assoluti ed è loro ostile nel nome di questa più alta virtù la quale diventa, per esclusione, la sola virtù. Il culto dell’amore fa la sua apparizione insieme al comparire del relativismo ed è una romanticizzata scusa per il suo rinnegamento della giustizia e della legge nel nome di una supposta giustizia e legge più alta, ovvero l’amore anarchico.

Il relativismo religioso è il terreno dell’assolutismo politico. Il concepimento e la richiesta per un assoluto ordine giusto è più forte dove maggiormente gli uomini insistono che gli assoluti cristiani sono senza realtà. Certe forme di assolutismo religioso, quando basate sul concetto di continuità o della grande catena dell’essere, inevitabilmente divinizzano l’ordinamento sociale, e il relativismo inevitabilmente fa la stessa cosa. Quando l’uomo nega la trinità ontologica trascendente (come fanno sia i relativisti sia molte chiese), l’ordine dell’immanenza prevale e diviene l’inevitabile assoluto. Così, per quando pragmatico Dewey abbia dichiarato d’essere, l’inevitabile risultato del suo pensiero fu l’assolutizzazione dello stato come ordine della vita, fonte della moralità, e scaturigine della verità. I processi della natura furono investiti con una infallibilità che procedeva con certezza verso la creazione della “grande comunità”.

 

In tutte tali relativizzazioni, non solo è lo stato costituito l’assoluto, e la giustizia è ciò che lo stato fa, ma l’uomo, apparentemente esaltato e liberato da questa emancipazione da Dio, è emancipato pure da carattere e virtù [22]. Ogni qual volta la legge, la condizione di vita dell’uomo, è nel potere dello stato ed è creazione dello stato e senza riferimento trascendentale, anche l’uomo è a quel punto una creatura dello stato e in suo potere, per quanto apparentemente benevoli gli scopi dello stato. La legge è la condizione della vita e, nei termini della legge biblica l’uomo, creato ad immagine di Dio, è vice-reggente sotto Dio in Cristo, e re della creazione. La sua responsabilità, la legge del suo essere, è di esercitare il dominio, sottomettere la terra e tutta la creazione scientificamente, agriculturalmente, esteticamente, politicamente, in ogni sfera di vocazione umana, sotto Dio. Quando tale concetto è sostenuto nei termini della dottrina biblica della trinità ontologica e della discontinuità tra Creatore e creazione, la dignità della creatura è stabilita e la divinizzazione dell’uomo e del suo ordinamento sociale diventano impossibili. La giustizia è stabilita fermamente in Dio e nella sua volontà rivelata e preservata dal diventare la creatura dei pretendenti dèi, l’uomo, lo stato, la chiesa, la famiglia, la scuola o la tribù.

Sotto l’impatto del relativismo, la giustizia, assieme alla legge, è fatta creatura dello stato ed è così distrutta. La giustizia è ciò che Stalin, Hitler, il Presidente, la Corte Suprema, o la gente dice che sia, e niente di più. Comunque sia, i relativisti rigettano la crudezza di questa conclusione e insistono che la giustizia è in procedimento, uno sviluppo che si evolve insieme con l’uomo e col suo stato  verso uno stadio di verità costantemente più elevato. La funzione del giurista, in questo procedimento, diventa, com’era con Holmes e sempre più con altri, l’interpretazione di quella direzione della mente sociale, con come risultato una giurisprudenza piuttosto mistica. Per il giurista scettico, giustizia e legge positiva sono inevitabilmente identiche; la giustizia è ciò che lo stato dice e fa, cosicché Holmes poteva sentirsi giustificato nell’essere  “a sinistra” in un periodo e “a destra” in un altro. In ogni situazione, egli era “giusto” perché sensibile alla “legge” dietro la legge, ovvero il temperamento sociale del suo tempo. Holmes trattava con disprezzo le interpretazioni umanitarie della legge. Le leggi sono “convinzioni che hanno trionfato” e niente di più.[23] La giustizia è dunque la volontà della folla, il credo del branco e niente di più. Non ha alcuna relazione a Dio e non fa agli uomini una richiesta morale se non che si conformino. Un uomo giusto non è caratterizzato di conseguenza come uno che si distingue dagli uomini in termini di carattere e di integrità, ma come uno che corre fedelmente col branco.

Nell’interpretazione idealistica, la direzione o evoluzione di quel procedimento è conosciuto misticamente ed è perciò visualizzato ed incarnato nei termini di un ordinamento sociale ideale, come il comunismo, il socialismo o la democrazia, In quest’antica eresia moralistica, l’uomo deve lavorare zelantemente per creare quest’ordine ideale il quale poi lo solleverà dalla necessità di essere un uomo, la necessità per la responsabilità, la moralità, il carattere, l’integrità e la necessità per più di un crudo minimo di lavoro. La sola funzione dell’uomo sarà il conformarsi. Questo sogno dell’ordinamento ideale è un sogno prevalente e popolare e la maggior parte dei candidati politici si presentano in campagna elettorale quali pretesi messia. E come ha osservato de Jouvenel: “La fine logica dell’illusione ora in voga è quella piuttosto assurda di una società nella quale ogni cosa sarebbe predisposta con giustizia e nessuno sarebbe obbligato ad essere giusto” [24].

Ogni concetto di legge e di giustizia che abbia le sue origini nel tempo e nel procedimento, che sia scettico o perfezionista nella sua interpretazione, è un fallimento radicale nel provvedere qualsiasi legge e giustizia. Mentre esige la conformità, e ne crea una facciata, fallisce completamente nel mantenere l’ordine. Una conformità da campo di concentramento, stabilita e forzata da uno stato di polizia non è mai un sostituto per l’ordine che sgorga dal significato. Quando gli uomini camminano nei termini di una vocazione e nella confidenza nell’approssimata verità della loro società, l’ordinamento sociale è il prodotto della fede e della vita piuttosto che l’arcigna sottomissione alla paura e alle baionette. In ogni e tutti i concetti relativistici di legge e giustizia, le Corti diventano inevitabilmente Guardiani Platonici, loro stesse i legislatori. La Corte Suprema degli Stati Uniti, operando con principi relativistici, ha conseguentemente assunto, come ha dichiarato il Consiglio Superiore della Magistratura, il 23 agosto, 1958: “Ciò che a noi sembra primariamente poteri legislativi” [25].

L’uomo, essendo stato creato ad immagine di Dio, può solo vivere nei termini della legge di Dio, la condizione di vita per lui, cosicché la sua ribellione contro Dio, il peccato, è la causa dell’ingresso della morte fisica nel mondo. Questa separazione da Dio è anche la causa della continua morte interiore dell’uomo e della sua morte sociale, talché la volontà di morire è un fattore importante nella storia umana in ogni epoca d’incredulità ed in ogni cultura ostile ai presupposti della fede biblica [26].

Ogni concetto di legge e di giustizia immanente e relativista cade sotto l’influsso del soggettivismo e diviene così una contraddizione a se stesso. Il radicale soprannaturalismo, trascendenza e discontinuità della trinità ontologica come rivelata nella rivelazione biblica è rifiutata da molti perché giunge separata e avulsa dalla scoperta dell’uomo e dalla sua ordinazione, ma questo è precisamente la sua forza e la sua autorità. Tempo e procedimento non sono distrutti dall’eternità e dall’eterno decreto di Dio, ma anzi ne derivano il loro significato e sono salvati dall’insignificanza. La Trinità ontologica è proprio il terreno e la necessaria premessa di ogni pensiero umano [27]. Nessuna conoscenza è possibile su qualsiasi altra premessa, e l’uomo, su qualsiasi altra premessa, è immerso nel mare dei crudi fatti e lasciato senza né conoscenza né speranza  d’averla. Tutta la conoscenza conseguita dal non credente è fondata su premesse prese in prestito, sulla non ammessa premessa del decreto eterno della Trinità ontologica. Legge e giustizia sono in questo modo teocentriche. Ellul, nel dichiarare che “La legge è interamente Cristocentrica” [28], indebolisce la sua altrimenti abile esposizione di The Theological Foundation of Law, perché, se la legge è interamente Cristocentrica, la trascendenza di Dio e la sua legge sono negate. Dio è reso esaustivamente presente, alla maniera di Barth, nella sua rivelazione, nel tempo e nel procedimento, e di nuovo non c’è legge al di là della legge positiva, non c’è legge al di là dello stato. Ogni tale cosiddetto pensiero Cristocentrico è effettivamente una negazione della Cristologia biblica e riporta indietro al vuoto dell’essere indifferenziato, al caos dei crudi fatti, e alla cieca vastità di tempo e procedimento senza significato.

La legge è teocentrica ed è una manifestazione della natura e della vita della Trinità ontologica. Come reso particolarmente chiaro da Paolo in Efesini, la Trinità è la scaturigine di ogni vita e significato nell’universo, non per partecipazione nell’essenza divina ma nei termini della creazione in e per mezzo del Logos divino. Perciò il linguaggio non è antropomorfico ma figurativo (typical) quando parla di Dio come Padre, in quanto che la paternità umana è un ombra o figura della sostanza, la paternità del Padre al Figlio. Amicizia, comunità, ordine, matrimonio, legge, amore e tutte le cose hanno la loro derivazione dall’atto creativo di Dio e sono ombre o figure della vita all’interno della Trinità. Esse posseggono unità nella diversità in virtù della loro comune scaturigine nella Trinità, che è allo stesso tempo sia uno che molteplice. La separazione da Dio è perciò separazione dalla vita in ogni sua forma, e il peccato è descritto come morte vivente. Nessun uomo può separarsi da Dio che è chiamato a glorificare e godere, senza allo stesso tempo accomiatarsi inevitabilmente da se stesso e dalla vita. Noi viviamo ci muoviamo e siamo nel Dio Trino, e la sua legge e la sua giustizia sono le condizioni della vita. La legge perciò o è teocentrica o è non-legge e non-giustizia. Ellul è corretto nell’asserire: “Questa Legge non è un principio per organizzare la società. È una condizione per la vita imposta all’uomo”[29]. Questa è la fede Riformata. Ancora, egli è enfaticamente corretto nell’asserire: “Gesù Cristo è divenuto la giustizia di Dio. Non ci può essere giustizia in nessun modo, nemmeno relativa, al di fuori di Gesù Cristo … non ci può essere studio della legge al di fuori di Gesù Cristo, non può esserci nemmeno legge umana, per quanto relativa, se non è fondata in Gesù Cristo. Separatamente da Lui, noi andiamo a finire con ‘non-legge’”[30]. Ma questo Cristo non può essere la caricatura Barthiana ma solo il Cristo della Scrittura, egli stesso teocentrico, che dichiarò, come Ellul stesso nota: “Io non posso far nulla da me stesso; giudico secondo ciò che odo e il mio giudizio è giusto perché non cerco la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha mandato” (Gv. 5:30).

Questa “volontà del Padre” Gesù venne a compiere, confermando ogni “iota e apice” della legge (Matteo 5:17s.), benché uomini insensati abbiano insistito nel vederci una reiezione della giustizia del Vecchio Testamento da parte di Cristo, un’interpretazione resa possibile solo per una presupposizione evoluzionistica che sopprime tutte le evidenze del contrario.[31] La legge è o la condizione di vita dell’uomo o il terreno della sua morte. In un mondo caduto, la legge funziona così in un senso duplice, primo, a portare giudizio anche fino alla morte sul trasgressore e, secondo, per essere uno strumento nel piano divino per la restaurazione e rigenerazione di tutte le cose. La legge stessa non può operare questa rigenerazione, ma il compimento dell’ordinamento ultimo richiede retribuzione e restaurazione. La creazione, con la sua caduta, non è dannata e distrutta immediatamente ma è costituita l’area dell’incarnazione di Dio in modo che possano essere effettuate riconciliazione e restaurazione. La restaurazione, però, non è ad uno stato passato, ad un Eden, ma alla comunità divinamente ordinata, fa riferimento al futuro, e richiede un compimento non solo di tutto ciò che era potenziale nella creazione originale ma un compimento di tutte le possibilità e potenzialità del procedimento. Perciò, proprio come la verità è propedeutica alla bontà, così il giudizio è propedeutico al compimento.

Due principali dichiarazioni della legge riassumono questo duplice aspetto della legge. La prima è la ripetuta dichiarazione di Dio: “La vendetta è mia, io ricompenserò, dice il Signore” (Ro. 12:19; De. 32:35; Sa. 99:8; Isa. 34:8; Ger. 50:15; Ez. 24:25; Na. 1:2; II Te. 1:8; Da. 58:10; 94:1; Eb. 10:30; Pr. 6:34; Isa. 61:2; Ger. 51:6; Isa. 35:4; 59:17; Lu. 21:22; Giuda 7). La seconda dichiarazione, chiamata Mosaica, benché introdotta a Mosè come parola di Dio perché fosse proclamata (Es. 20:22), è la legge familiare a tutti: “Darai vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, scottatura per scottature, ferita per ferita, contusione per contusione”. (Es. 21:23-25; cf. Le. 24:20; De. 19:21). La vendetta è definita come “l’inflizione di una pena meritata; punizione retributiva”. Insieme con retribuzione, è oggi una parola impopolare. Kelsen giustamente vede la retribuzione come strettamente legata col concetto di causalità e, di conseguenza, eliminare la retribuzione riduce la causalità a probabilità, benché, più tardi, per mantenere all’uomo responsabilità e libertà, egli riconosce che la predicibilità “non è la causalità stessa”. Per Kelsen, la causalità deve essere ritenuta ed emancipata dalla retribuzione per due diversi motivi: fornire un fondamento alla scienza e stabilire il libero arbitrio [32]. Tale contorsionismo verbale non è necessario alla posizione cristiana-teista e alla sua felice accettazione del principio di retribuzione. Malgrado i tentativi di leggere del primitivismo in questa legge, non c’è alcuna evidenza di esso nella Scrittura. “Occhio per occhio, dente per dente” significa chiaro e semplice che la punizione deve essere adeguata al crimine, che né una punizione eccessiva, né una inadeguata possono essere chiamate giustizia. Perciò la morte era la pena per l’omicidio premeditato (Ge. 9:6; Es. 21:12,14; Nu.35: 16-21), ma non per quello colposo o preterintenzionale ( Es. 21:13; Nu. 35:15; De. 19: 4-6) per i quali la pena era diversa (Es. 21:18-20; Nu. 6: 9-15, 22-28; de. 19: 11-13). Il diritto all’autodifesa era riconosciuto (Es. 22:2). Ove la pena di morte era richiesta in altri casi, come per l’adulterio (Le. 20:10), era perché costituiva un attacco e un tradimento contro l’istituzione centrale della società biblica: la famiglia. La moderna mancanza di pena per l’adulterio non è segno di progresso quanto un’evidenza del collasso della famiglia. Il tradimento verso lo stato è oggi un’offesa capitale, ma non lo era sotto la legge biblica, non avendo lo stato tale preminenza. Le leggi sono un’espressione dei valori sociali, e il rigore della legge moderna eccede quello di quella mosaica, e funziona, non a protezione della famiglia, della proprietà, e del patto, ma meramente dello stato, lasciando l’uomo senza difesa davanti alla legge anziché forte e libero in virtù di essa.

Ambedue la vendetta e la retribuzione di Dio fanno riferimento al tempo e all’eternità. Dio, nel riservare a sé stesso la vendetta l’onora come essenziale alla giustizia, e la riserva sia a canali non personali e divinamente ordinati, come i tribunali, quanto all’attività provvidenziale soprannaturale. Ambedue, vendetta e retribuzione, sono così basilari alla giustizia che coloro che cercano di by-passarle finiscono apertamente per by-passare la giustizia in favore dell’amore anarchico, della terapia psichiatrica o della riabilitazione. Tale “giustizia” è orientata al trasgressore e al suo benessere, mentre la giustizia biblica fa riferimento al Regno di Dio e alla protezione e al benessere dell’uomo, il portatore dell’immagine di Dio, al fine che l’uomo possa effettivamente servire Dio con tutte le sue capacità, col credente, felicemente, e con l’incredulo, malgrado sé stesso, in quanto tutte le sue attività legittime non faranno altro che far avanzare il Regno.

Di quanto la legge abbia by-passato Dio e l’uomo rispettoso delle leggi in favore del trasgressore è evidente nell’abbandono della restituzione, un principio fondamentale della legge biblica. Le sentenze detentive, la prigione, non hanno posto nella legge biblica, la carcerazione era solamente temporanea fino a che la sentenza non veniva dichiarata (Le. 24:123; Nu. 15:34). In alcuni tipi di casi, come aggressione e violenza, il risarcimento alla parte lesa doveva costituire la sentenza della corte, ed una varietà di casi relativi pure richiedevano il risarcimento o i danni (Es. 21:19, 32, 35, 36). In questo modo il danneggiato non doveva fare causa per il risarcimento, ma la sentenza stessa della corte ordinava il risarcimento. Nel caso di danni a proprietà con azioni non premeditate, doveva essere restituito l’equivalente della proprietà più il venti per cento (Le. 5:16; Nu. 5:7). La stessa cosa era valida per l’occultamento di proprietà smarrite che era considerato come furto (Le. 6:1-6). Questi casi coinvolgevano primariamente l’abuso di fiducia e la violazione di proprietà. Casi di furto deliberato erano trattati più seriamente e la restituzione era proporzionata:

Sotto le sanzioni della legge Mosaica era messo in atto un elaborato sistema per risarcire una parte lesa. Per quanto possibile la restituzione era identica con, o analoga a, la perdita di tempo e di potere (Es. 21:18-36; Le. 24: 18-23; De. 19:21). Chi avesse rubato e poi macellato o venduto vivo un bue doveva restituire cinque volte tanto, se era una pecora viva, quattro volte. La pena era designata in parte per costituire deterrente, perché le pecore erano maggiormente esposte nel deserto, mentre i buoi erano necessari e non facilmente rubabili [33].

Nella doppia restituzione, il ladro doveva restituire ciò che aveva rubato più l’esatto ammontare o l’equivalente del furto, talché era penalizzato proprio per quanto aveva sperato di profittare col suo furto. Dove fossero coinvolti animali capaci di riprodursi e con ciò accrescere il proprio valore la restituzione era proporzionatamente più grande. (Es. 22:1-4) La restituzione era anche alla base delle leggi sul riscatto, la proprietà, il debito e l’eredità. La retribuzione fu centrale nell’insegnamento di Cristo, come testimoniano le parabole del creditore spietato, delle nozze, del fattore infedele, dell’amministratore e dei servi. Dio afferma ripetutamente che Egli ricompensa ogni uomo secondo le sue opere con precisione e completezza.

Dall’altro lato, quando il criminale era colpevole di reati che rompevano i legami di relazione con la società, seguiva la scomunica, un “tagliare via” dal popolo, cosicché la comunità fosse protetta dai suoi nemici deliberati. Il delinquente incorreggibile, su denuncia dei suoi genitori e l’investigazione delle autorità, era sentenziato a morte (De. 21:18-21) per la protezione della comunità [34]. L’amore, la terapia psichiatrica e la riabilitazione hanno la loro collocazione, quanto le funzioni di persone amiche, dei medici e dei religiosi coinvolti nel sociale, ma non possono essere un sostituto per la giustizia senza che ne consegua un radicale sbriciolamento dell’ordine sociale. Hanno validità solo se fatti parte di un totale programma di restituzione e restaurazione, non come loro sostituto. Nella situazione presente, la persona derubata è raramente, forse mai, compensata, e la restituzione è by-passata in favore sempre più di azioni che se portate alle loro conclusioni logiche porrebbero la società al servizio del criminale. Perciò, Ellul ha ragione nell’insistere che “La manifestazione ultima della giustizia di Dio rivela la volontà di Dio di restituire”, e che “l’idea di restituzione” è “essenziale per la comprensione della legge divina” [35].  La legge è una manifestazione della giustizia di Dio e la condizione di vita per l’uomo. Ellul ha notato quest’enfatica dichiarazione di Dio sul significato dell’obbedienza alla legge “Così l’Eterno ci comandò di mettere in pratica tutti questi statuti, temendo l’Eterno, il nostro Dio, affinché ne venisse a noi del bene sempre e perché egli ci conservasse in vita com’è oggi” (De. 6:24). “Seguirai interamente la giustizia, affinché tu viva e possieda il paese che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà” (De. 16:20). Cristo e Cristo solamente è il fondamento della libertà, apertamente tale nel Nuovo testamento, chiaramente tale nel Vecchio quale sacrificio rappresentato dalle figure. La legge, comunque, è per l’uomo redento la condizione della libertà. In Deuteronomio 4:8, “Le parole ‘statuti e giudizi [decreti giusti]’ come in Le. 19:37 denotano l’intera legge del patto nelle sue due caratteristiche principali … statuti include i comandamenti morali e le leggi pattizie statutarie … vale a dire, tutto ciò che il popolo era in dovere di osservare: … giudizi [diritti], tutto ciò che era loro dovuto, o in relazione a Dio o in relazione ai loro simili” (cf. De. 26.16-19).[36]

La legge è legge pattizia, e consegue al giudizio e quindi è funzionale alla restituzione (De. 26:16-19). Come legge pattizia, stabilisce l’uomo, non più un fuorilegge, in qualità di persona dallo stato giuridico ripristinato avendo “ricevuto da Dio un certo numero di diritti che sono ora suoi: il diritto di dominare la creazione”, ed altri diritti specifici confermati nell’uomo legato mediante atto e con poteri pattizi [37].  Togliete la relazione dell’uomo a Dio e la fonte divina della legge, e i diritti dell’uomo scompaiono, insieme col potere dell’uomo di mantenerli. Persino Jefferson, nel 1776, scrisse nelle sue Notes on Virginia, “Possono le libertà di una nazione essere ritenute sicure quando abbiamo rimosso il loro unico fermo fondamento: una convinzione nelle menti della gente che queste libertà sono doni di Dio?” In ciò che è stato definito “Il trattato più influente sulla scienza politica nei decenni immediatamente successivi alla Guerra Civile, Political Science di Theodore Dwight Woosley, prima rettore di Yale e poi professore di scienze politiche, troviamo affermato quanto segue: “I giudici non sono in nessun senso rappresentanti del popolo o del re, o di qualsiasi altra volontà eccetto per quanto prendono un posto che il popolo o il re occupavano prima. In un senso più alto, essi non sono rappresentanti della comunità né dei suoi alti magistrati, ma della giustizia e di Dio … Essi sono infatti più immediatamente servitori di Dio di qualsiasi altro uomo che diriga gli affari di una nazione” [38]. Uomini come Holmes, nell’escludere Dio, mentre sconfessava qualsiasi desiderio di assumere il ruolo di Dio, in definitiva quel ruolo lo assumono. La conseguenza è stata, come sempre è, l’esaltazione dello stato in qualità di fonte della legge e della giustizia, talché la preoccupazione della corte diventa il benessere dello stato, non quello dell’uomo. Ciò è evidente nella Corte Suprema degli Stati Uniti, dove, come Curtis tra gli altri ha osservato, ottengono udienza solo questioni pubbliche e sempre di più solo questioni governative. “Parti in causa delusi dal verdetto spesso dicono che porteranno il loro appello se necessario fino alla corte suprema degli Stati Uniti. Non ci arrivano. Perché la Corte ha di fatto smesso di trattare ordinarie cause private”[39]. Quando la legge diventa la creatura dello stato, anche l’uomo diventa creatura di quello stato e non ha vita al di là della volontà di quello stato. La Corte da’ udienza perciò, come le corti ora fanno, agli appelli delle agenzie del governo contro l’uomo, quando l’uomo cerca di arroccarsi nei termini di antiche libertà ora negate. Tali libertà, quando la corte ha scelto di garantirle, lo ha fatto per uomini di ammessa colpevolezza in modo da aumentare ulteriormente la loro evasione della legge; le immunità dei comuni cittadini, invece, sono state rapidamente erose. L’ampiezza a cui le corti assumono la difesa delle agenzie governative contro il cittadino fu acclarato in un caso apparentemente minore, U.S. contro Wunderlich, nel 1951. La ‘Court of Claims’ dismise “come arbitraria, capricciosa, e gravemente errata, una decisione del Ministro degl’Interni su una disputa concernente una questione su fatti che scaturivano da un contratto governativo, benché un provvedimento al riguardo avesse reso la decisione finale e conclusiva sulle parti in causa.” La Corte Suprema ribaltò la decisione della Corte d’Appello. Il consueto articolo 15 dei contratti governativi lega l’appaltatore e fa del capo del dipartimento governativo la sola fonte d’appello, e una fonte chiaramente di parte. La sola eccezione a questo potere plenario che la Corte aveva precedentemente concesso era: “frode o tale madornale errore che implichi necessariamente mala fede, o il mancato esercizio di onesto giudizio.” Mentre concedeva che la decisione del capo dipartimento nel caso Wundelich fosse stato “arbitrario”, “capriccioso” e “gravemente errato”, la Corte Suprema restrinse le proprie precedenti eccezioni rifiutando di chiamare questa una frode. Due giudici in dissenso Douglas e Reed, commentarono riguardo l’opinione della maggioranza:

Ma la regola che annunciamo ha ampia applicazione ed effetti devastanti. Fa di ogni funzionario appaltatore un tiranno. Gli viene attribuito il potere di un tiranno perfino se è caparbio, perverso o capzioso. Gli viene concesso il potere di tiranno malgrado sia incompetente o negligente. Ha il potere di vita o di morte su un’attività privata malgrado la sua decisione sia gravemente errata. Il potere concesso raramente è negletto.
Il principio di poteri e contropoteri è un principio salutare. Un funzionario che deva rendere conto agirà in modo più prudente … Noi dovremmo permettere alla Court of Claims, l’istituto più adatto per queste dispute, di cassare un funzionario la cui condotta sia chiaramente fuori dai limiti, che sia fraudolento, perverso, capzioso, incompetente o semplicemente  manifestamente errato. Il verdetto che annunciamo rende oppressivo il governo. Il verdetto che la Court of Claims sposa dà ad un cittadino giustizia perfino contro il suo governo.

Jackson nel suo dissenso osservò: “Non dovrebbe conseguire che uno che prenda un contratto pubblico si metta completamente in potere dei funzionari appaltatori e capi dipartimento”[40]. Ma il risultato è questo, e non sarà sufficiente un cambio di giudici, poiché i più, qualsiasi sia la loro politica, sono influenzati dallo stesso fondamentale relativismo che inevitabilmente fa dell’uomo una creatura dello stato e della corte “Un branco di Guardiani Platonici”. La giustizia è un concetto religioso e, senza il suo fondamento biblico, perde rapidamente qualsiasi significato e diventa niente di più che un mito cinicamente sostenuto ed uno strumento di controllo sociale. Il secondo uso della legge, la protezione della società, richiede che il principio di retribuzione e di restituzione sia la sostanza della legge. Senza questo fondamento biblico, la legge deteriora e i giudici diventano uomini cinici che chiedono scetticamente: “Cos’è la giustizia?” e non si aspetteranno una risposta.

Altri, di fatto, fanno riferimento alla richiesta di giustizia come un esempio di primitivismo e barbarie. Henry Weinhofen, professore di Legge all’Università del Nuovo Messico, nega che un “crimine reprensibile” ci muova a giusta indignazione. La nostra richiesta di giustizia in tali casi è piuttosto “tutti i nostri antichi tribali timori di qualsiasi cosa minacci la sicurezza del gruppo”. La richiesta di giustizia o di punizione è il “modo in cui alleggeriamo il nostro proprio senso di colpa senza effettivamente dover soffrire la punizione – uno stratagemma conveniente e piacevole perché non solo ci sgrava dal peccato, ma ci fa sentire in realtà virtuosi.” La voglia di punire, come egli definisce la richiesta di giustizia, è di “natura primitiva e irrazionale”. La comprensione e l’amore piuttosto che l’odio ci sono comandati non solo dagli insegnamenti della religione ma anche dagli insegnamenti della psicologia”. Weinhofen è pronto a concedere che qualche punizione “probabilmente effettui una necessaria funzione”, ma non per ragioni altre da quelle psichiatriche, la giustizia come giustizia non è presa in considerazione [41].

Abbiamo in questo modo con Weinhofen, senza niente della fede e dell’intelligenza di Agostino, una presentazione dello stesso fondamentale errore che così fortemente turbò Volusiano. Alla psichiatria come alla legge si può chiedere, come in effetti Volusiano chiese ad Agostino, non avete forse negato la realtà e la possibilità di giustizia con la vostra dottrina di comprensione, amore e perdono? E che amore o comprensione ci sono o possono rimanere in qualsiasi ordinamento che sovverte la giustizia?

 

Note:

[1] Città di Dio, XIV, 28.

[2] Lettera CXXXVIII, A.D. 412, The Nicene and Post-Nicene fathers, Prima serie, Vol. I, pp. 472s., 481-488. Grand rapids: Eerdmans, 1956.

[3] C. J. Ellicott, Commentary on the Whole Bible, vol. vi, p.30.

[4] Così anche il commento di Mattew Henry nel suo Commentario Biblico, Vol. 9, p. 97. (N. d. t.)

[5] William Seagle: Law. The science of Inefficiency, p. 3. New York, Macmillan, 1952. p. 3.

[6] The >Church and the Disorder of Society, p. 198; citata in Ludwig Von Mises: The Anticapitalistic Mentality, p. 82. Princeton, N.J. Van Nostrand, 1956.

[7] Per un’affermazione dello stesso Gnosticismo oggi, si veda Kelsen, What is Justice? Justice, Law, and Politics in the Mirror of Science,p. 378, nota 7, Berkeley: University of California Press, 1957. dove “l’insormontabile antagonismo … tra l’idea di giustizia nel Vecchio Testamento (vale a dire il principio della retribuzione), e la giustizia insegnata da Gesù (vale a dire il principio dellamore)” viene affermato. Kelsen sceglie di ignorare il fatto che il proposito dichiarato di Gesù per la sua vita e la sua venuta sia stato “per dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt. 20:28, Mc. 10:45), per soddisfare la giustizia retributiva di Dio e con ciò manifestare il suo amore.

[8] Perciò, Brunner sbaglia nel vedere la giustizia come un tipo di necessaria ma inferiore  moralità, se paragonata all’amore, né può la giustizia essere limitata all’ “etica dei sistemi o istituzioni” e l’amore essere invece in relazione con l’ “etica personale”. Qualsiasi personale relazione d’ “amore” che debba costantemente passar sopra alla giustizia o è un caso di malattia mentale o di compulsione. Emil Brunner: Justice and the Social Order, pp. 16-20. New York: Harpers, 1945.

[9] Ambrogio “Doveri dei Chierici” Libro I, cap. xxvii, The Nicene and Post Nicene Fathers,  Vol. x, p. 22s. Si veda anche Arthur O. Lovejoy: “The Communism of St. Ambrose”, in  Essays in the History of Ideas, pp. 296-307, New York: Braziller, 1955.

[10] Ambrogio “Duties” I, xxv, 118, in Nicene and Post-Nicene, p. 20.

[11] Epistle LXIII, Nicene and Post-Nicene Fathers, p. 469.

[12] Ernst Troeltsch: “The Idea of Natural Law and Humanity in World Politics”, p. 205, in Otto Gierke: Natural Law and the Theory of Society, 1500-1800.Boston: Beacon Hill, 1957.

[13]  Si veda Otto Gierke, op.cit.,  e Political Theories of the Middle Ages, Boston, Beacon Hill, 1958; Leo Strauss: Natural Right and History, Chicago University of Chicago Press,1955. Kelsen op. cit.; Learned hand:The Bill of Rights, Cambridge, Harvard University Press, 1950; Jacques Ellul: The Theological Foundation of Law, A radical Critique of natural Law, Garden City, Doubleday, 1960; Edwin Norman Garlan: Legal Realism and Justice, New York, Columbia University Press, 1941; Roscoe Pound: What is Justice?New Haven, Yale University Press, 1951; Homer Cummings: Liberty Under Law and Administration, New York, Scribner’s, 1934; Benjamin N. Cardozo: The Paradoxes of Legal Science, New York, Columbia University Press, 1928; Laurence Stapleton: Justice and World Society, Chapel Hill, University of North Carolina Press, 1944; ecc.

[14] Per uno studio importante della legge naturale e della Costituzione Americana si veda Edward S. Corwin: The “Higher Law”Background of American Costitutional Law, Ithaca, New York, Cornell University Press, 1955.  La più alta legge della natura, originariamente vista come espresso  nel governo per mezzo di leggi, giunse a diventare, nel pensiero di uomini come Benjamin Hichborn di Boston durante la Rivoluzione essere essa stessa “un potere esistente nel popolo in senso ampio ed in ogni tempo, per qualsiasi motivo o senza motivo se non il loro sovrano piacere, di alterare o annichilire sia la modalità che l’essenza di qualsiasi passato governo, e di adottarne un altro al suo posto”. (Corwin . p 88) la legge naturale in questo modo cessò di essere legge e l’uomo divenne legge a sé stesso.

[15] Per la relazione di Dewey e di James ad Hegel, si veda Burleigh Taylor Wilkins: “James, Dewey, and Hegelian Idealism” in Journal of the History of Ideas, XVII, 3, pp. 332-346.

[16] Kelsen, op. cit, p. 207s.

[17] Hand, op. cit., p. 73s.

[18] Ibid., p. 74.

[19] Ibid., p. 2s.

[20] Ibid., p.77.

[21] Per uno studio su quest’aspetto di Repubblica, si veda Frederick Nymeyer: Progressive Calvinism,II, p. 74ss; South Holland Illinois: Libertarian Press, 1956. Come osservò Nymeyer “Diventa allora spiegare perché ci siano associazioni intitolate a Platone nei campus universitari, ma mai associazioni intitolate a Mosè”, il promo ha fatto dell’uomo come minimo la fonte della legge, il secondo, Mosè, ha collocato l’uomo sotto la legge di Dio”.

[22] Ellul, op. cit., p. 122, evidenzia che Kelsen, col suo relativismo, riduce la legge ad una irrilevanza per quanto concerne la giustizia. “La legge è nel potere dello stato, qualsiasi siano le sua basi per l’azione e i suoi obbiettivi”. Tale posizione non è essenzialmente diversa dall’interpretazione di Mussolini: “Lo stato quale universale volontà etica è il creatore della legge”.

[23] Max Lerner editore: The Mind and Faith of Justice Holmes, Fis Speeches, Essays, Letters, and Judicial Commentary, p. 372, 389s, 336-341. Boston: Little Brown, 1943. Si veda anche Charles P. Curtis, Jr.: Lions Under the Throne, A Study of the Supreme Court of the United States, p. 25, 281, Boston: Houghton Mifflin, 1947.

[24] Bertrand de Jouvenel: Sovereignty, An Inquiry into the Political Good, p. 164, Chicago: The University of Chicago Press, 1957.

[25] Gli alti magistrati di 36 stati votarono per questa risoluzione, 8 contrari, 2 astenuti e 4 assenti. U.S. News and World Report, 3 ottobre, 1958, pp. 92-102. Si veda anche Hand, op. cit. pp. 31-55. Anche Luther Curtis, op. cit. 234ss. 266.

[26] Per uno studio importante sulla spinta alla sconfitta e alla morte nella cultura moderna, si veda Samuel J. Warner: The Urge to Mass Distruction. New York: Grune and Stratton, 1957.

[27] Per uno sviluppo di questa filosofia, si veda R.J. Rushdoony: By What Standard?, 1959; Cornelius Van Til: The Defense of the Faith,  1955; e A Christian Theory of Knowledge, 1969, tutti pubblicati da Presbyterian and Reformed Publishing Co.

[28] Ellul, op. cit.. p. 69.

[29] Ibid., p. 55.

[30] Ibid., p. 42.

[31] Si veda Kelsen: op. cit., p. 12, ecc..

[32] Ibid., pp. 303-349.

[33] J. Poucher: “Crime and Punishment”, pp. 520-527, in James Hastings: A Dictionary of the Bible, I.

[34] Vari giuristi si deliziano nel prendere questa ed altre leggi fuori dal loro contesto e significato e le ridicolizzano come selvagge e primitive. Infelicemente, non è stato ancora scritto nessun libro che evidenzi il ritorno al primitivo e al selvaggio in tutti i concetti della legge moderna. Ancora una volta, quelli a cui piace Kelsen e credono che il relativismo morale porti alla tolleranza e alla libertà farebbero bene a leggere l’analisi di de Jouvenal “che il relativismo morale non può condurre alla tolleranza” nell’uomo d’azione ma piuttosto a “pressione e violenza” come danno ampia evidenza la moderna giurisprudenza e la storia politica.

[35] Ellul: op. cit., pp. 47,52.

[36] C.F. Keil and F. Delitzsch. The Pentateuch, III, p. 308s.

[37] Ellul: op. cit., p. 55.

[38] Vol. II, pp. 330., 1877; citato in Curtis, op. cit., p. 54.

[39] Curtis, op. cit., p. 61.

[40] U.S. Supreme Court, Law, ed Advance Opinions, vol. 96, n° 3; 17 dicembre, 1951, pp 67-71.

[41] Henry Weinhofen: The Urge tu Punish, pp. 130-146. New York; Farrar, Straus and Cudahy, 1956. Questo studio era in Isaac Ray Award Book della American Psichiatric Association.


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