Il concetto di identificazione illimitata è sempre più un principio dominante nella nostra cultura e il suo principale portavoce occidentale è stato Albert Schweitzer, durante la sua vita da molti considerato come “l’uomo vivente più grande al mondo”. Quest’adulazione non può essere il risultato dei suoi studi teologici, da molto superati e insoddisfacenti, né per come suonava l’organo, encomiabile nell’uomo ma non da paragonarsi ai migliori organisti di professione. I dottori giudicarono il suo lavoro medico: zelante, ma non dei migliori. Ancora, i filosofi professionisti danno poca attenzione alla sua filosofia, ma ciò nonostante è questo l’aspetto di Schweitzer che rivela il cuore dell’uomo, i suoi sforzi missionari, e il suo fascino popolare. Schweitzer, mentre nominalmente operava all’interno della struttura ecclesiale, in realtà trovò la propria ispirazione nell’Illuminismo.
Il presupposto basilare della sua filosofia è venerazione per la vita. La distinzione cristiana tra l’essere non creato e l’essere creato, e tra il bene ed il male, in Schweitzer cede il passo a un’indifferenziata venerazione per ogni tipo di vita. Nel cristianesimo il Dio sovrano e trino della Scrittura è il presupposto basilare della fede cristiana, l’etica è di conseguenza determinata dalla natura di Dio: la sua santità e la sua giustizia. Ma nel sistema di Schweitzer, essendo la venerazione per la vita il principio basilare, diventa difficile derivare un’adeguata differenziazione etica da un principio che automaticamente innalza ogni vita allo statuto di santità, la rende oggetto di venerazione e di adorazione, e chiama ad una radicale identificazione con ogni essere. Schweitzer credette che questo culto promiscuo della vita sarebbe diventato la scaturigine di un nuovo rinascimento della società e dell’umanità.
Schweitzer rese chiaro il carattere radicale della sua filosofia e del suo misticismo:
La vera filosofia deve avere come punto di partenza il più immediato e comprensivo fatto della consapevolezza, che dice: “Io sono vita che vuole vivere, nel mezzo di (altra) vita che vuole vivere.” Questa non è una formula dogmatica composta ingegnosamente. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, io vivo e mi muovo in essa. In ogni momento di riflessione si presenta fresca davanti a me. Ne sgorga di continuo come da radici che non possono mai seccare, un vivo concetto del mondo e della vita che può trattare con tutti i fatti dell’Essere. Da esso sboccia un misticismo di unione etica con l’Essere [1].
Così, la filosofia deve cominciare con l’uomo autonomo e la sua volontà di vivere. Questa volontà di vivere, per poter sopravvivere, deve riconoscere e venerare in altri ciò che venera in sé stessa, e l’identicità dell’essere in ogni luogo conduce ad un senso di unità e a “un misticismo di unione etica”. Schweitzer mette in chiaro quanto esteso debba essere questo culto di ogni vita:
L’etica consiste, perciò, nel mio sperimentare la compulsione di mostrare ad ogni volontà di vivere la stessa venerazione che do alla mia. Lì ci viene dato il principio basilare della morale che è una necessità di pensiero: È bene mantenere e promuovere la vita, è male distruggerla o esserle d’impedimento.
… La vita in quanto tale gli è sacra (all’uomo etico). Egli non stacca foglia da un albero, non svelle un fiore, e si assicura di non calpestare insetto. Se d’estate sta lavorando sotto la luce di una lampadina, preferisce tenere chiusa la finestra e respirare un’aria soffocante piuttosto che vedere un insetto dopo l’altro cadere bruciato sul suo tavolo.
Se esce per la strada dopo un acquazzone e vede un lombrico che si è perso sul lastricato, egli considera tra sé che verrà seccato dal sole, se non ritorna in tempo alla terra dove può scavarsi un buco, e così egli lo raccoglie dalla mortale superficie di pietra e lo depone sull’erba. Se incrocia un insetto che è caduto in una pozzanghera, si ferma un momento per allungare una foglia o un gambo su cui possa salvarsi [2].
Le affinità con l’Induismo, il Buddismo e il Giainismo di questo modo di pensare sono immediatamente evidenti. In più, anche l’egocentrismo basilare è chiaro, e la centralità dell’uomo autonomo, il quale, riverendo e adorando sé stesso, cerca di mantenere quella integrità estendendo ad altri “la stessa venerazione che do alla mia” volontà di vivere. Nella fede biblica, l’uomo usa la creazione sia come dono sia come amministrazione da Dio, responsabilmente e senza colpa. In questa prospettiva, l’uomo, secondo Schweitzer, è perpetuamente vincolato alla colpa perché deve distruggere almeno vita vegetale per vivere da vegetariano, e batteri per mantenersi in salute. In questo modo la colpa è ineludibile e inevitabile e senza liberazione o espiazione. Nella prospettiva biblica, il perdono non può essere esteso a chi non si pente o essere usato come pretesto per scusare il peccato. È condizionale al vero pentimento, e illimitato dove esista vera fede e in questo modo non può essere permesso nessun tentativo di sfruttare il perdono come licenza per peccare (Mt. 18:15-35; I Co. 5:1-5). Ma per Schweitzer, il perdono è incondizionato e deve essere esteso ad ogni uomo nel suo peccato, crimine e colpa. Poiché siamo tutti colpevoli, insiste Schweitzer, tutti dobbiamo perdonare, perché fare diversamente “sarebbe agire come se io stesso non fossi colpevole”[3]. In questo modo il riferimento basilare è ancora una volta l’uomo, l’uomo autonomo che cerca d’essere il proprio dio. Nella prospettiva biblica, io, benché un peccatore io stesso, posso trattenere il perdono perché non sono la fonte della legge con la quale sono attribuiti perdono e giudizio, ma lo è Dio, e io mi colloco sotto il suo giudizio e la sua grazia, e concedo o rifiuto il perdono in accordo con la sua parola. In questo modo, il perdono ha un riferimento etico e trascendentale, mentre nella prospettiva di Schweitzer la sua cornice di riferimento è puramente soggettiva e nei termini di convenienza.
In che modo, nel sistema di Schweitzer, vivrà l’uomo? Deve incorrere nella colpa, deve uccidere per vivere. In questo modo il destino dell’uomo è una mostruosa e ineludibile necessità di vivere peccando:
In modo da preservare la mia stessa esistenza, devo difendermi contro le esistenze che mi arrecano danno. Divento un cacciatore del topino che abita la mia casa, un assassino dell’insetto che voglia avere il proprio nido in essa, un assassino di massa dei batteri che possono mettere in pericolo la mia vita. Ottengo il mio cibo distruggendo piante ed animali. La mia felicità si basa sul danno apportato ai miei consimili [4].
Questo senso di colpa non può essere compromesso, o la necessità di uccidere essere relativizzate: sono malvagie. Ad ogni istante, l’uomo affronta una scelta etica riguardo alla vita. Poiché egli deve vivere uccidendo: “ogni qual volta ferisco vita di qualsiasi genere, devo avere ben chiaro se sia necessario” [5]. Questa è “una responsabilità così illimitata da essere terrificante”. Ma l’etica della venerazione per la vita “non offre regole riguardo all’estensione dell’auto-mantenimento che sia consentito” [6]. Non c’è una “corte d’appello più alta” della riverenza per la vita. Le implicazioni sono in questo modo devastanti. La necessità diventa il principio fondamentale dell’azione pratica, e la necessità è un principio pericoloso quando legato a nient’altro che l’uomo autonomo. Nel dedicato masochismo di Schweitzer, quest’azione pratica è stata uno zelante umanitarismo. Ma, in altri, questo principio della necessità, di sopprimere forme di vita inferiori per promuovere forme più alte, può condurre ad una filosofia crudele e assassina. Dopo tutto, la filosofia nazista sgorgò dalla stessa comune filosofia della volontà di vivere di Schweitzer, ma limitò la sua preservazione della vita alle supposte superiori forme Nordiche.
Così, il concetto di identificazione in Schweitzer è radicalmente anti-etico. Abbracciando ogni vita come tale e adorandola, non permette altro principio di distinzione che quello della necessità. Schweitzer ci dà in questo modo una religione della pietà (e tutta la pietà indiscriminata ha per retroterra quell’egocentrismo che rende centrale la pietà di sé stessi, insieme a una morbosa pre-occupazione per l’io), e una filosofia che è un’evasione dalla vita e dai problemi centrali del nostro tempo. Schweitzer non entrò in una baraccopoli europea, dove sarebbe stato uno qualunque, e perfino uno offensivo, ma nella “foresta primordiale” dell’Africa, dove, come uomo bianco, poteva avere una funzione ad un livello superiore e impartire grazia. Questo è il livello a cui l’identificazione generalmente sceglie di operare: è sovversiva degli standard etici e delle distinzioni, ma non dell’ego. Ma anche allora, costantemente appesantita da una colpa auto-imposta, non funziona con gioia, come testimonia la stessa ammissione di Schweitzer: “Solo in momenti assai rari mi sono sentito veramente felice di essere vivo” [7]. Sia col proprio ritiro dai problemi della cultura occidentale, sia con la propria infelicità, Schweitzer fu caratterizzato proprio da quelle stesse negazioni del pensiero orientale che cercò di evitare.
Una sintomatica illustrazione dell’estensione dell’identificazione nel pensiero orientale si può vedere in un quadroGiapponese del 7° secolo: un giovane buddista e futuro Buddha, vedendo una famiglia di tigli alla fame, si gettò da una rupe in modo che il proprio corpo potesse soddisfare la fame delle tigri [8]. Il concetto di identificazione dell’occidente opera ad un livello in qualche modo diverso, benché la politica estera degli Stati occidentali sembri suggerire una simile auto-distruzione per nutrire gli affamati cuccioli di tigre del mondo.
In Gandhi, entrambe le forme di identificazione, quella orientale e quella occidentale furono fuse assieme con un tremendo fascino popolare. Un noto detto di Gandhi illustra particolarmente bene il concetto: “Ai milioni che devono fare senza due pasti al giorno la sola accettabile forma con cui Dio osa apparire è il cibo”. Primo, si consideri quale requisito Gandhi trascura rispetto all’uomo. Nell’India ricca di risorse naturali, milioni rimangono con la fame perché, nella loro follia religiosa, rifiutano di uccidere e con ciò perpetuare quella vita animale, incluse tigri, scimmie e mucche che distruggono i campi, mangiano i raccolti e lasciano all’uomo solo un’esistenza marginale. Anche le risorse naturali sono state neglette. Ma Dio dovrebbe ignorare il peccato e la follia dell’uomo ed identificarsi così promiscuamente e radicalmente con l’uomo tanto da diventare per lui cibo, non avendo altra apparenza accettabile o permissibile. In questo modo la sovranità di Dio è messa da parte, e pure la sua legge. L’identificazione richiede che l’universo funzioni nei termini dei desideri dell’uomo. Secondo, l’uomo, com’è già evidente, soppianta Dio in primazia e sovranità, e a Dio è richiesto che serva ogni bisogno dell’uomo. Dio è in questo modo ridotto a servo dell’uomo “senza laccioli”, senza alcun diritto di reclamare alcunché in cambio.
Un uso interessante del detto di Gandhi comparve in una pubblicità a due pagine nel 1959 da parte della General Dynamics Corporation.
VISION: Gandhi ha detto: “Ai milioni che devono fare senza due pasti al giorno la sola accettabile forma con cui Dio osa apparire è il cibo”. L’utilizzo creativo delle radiazioni atomiche in agricoltura può aiutare a dare maggiore e migliore cibo a tutti i popoli, ovunque. Il contributo dell’atomo allo sviluppo agricolo delle nazioni sotto-nutrite, “senza laccioli” darà al mondo nuova prova che noi pratichiamo la fratellanza che predichiamo.
REALTÁ: le ricerche intrinsecamente sicure, l’addestramento e il reattore che genera isotopi concepito, disegnato e prodotto dalla General Dynamic Corporation Atomic Division, è ora in funzione e sarà presto operativo in cinque dei sei continenti.
India: cooperazione nella ricerca ed esperimenti alla Esposizione Mondiale dell’Agricoltura di Nuova Delhi;
Congo Belga: ricerche nella crescita ossea e nelle malattie ossee;
Repubblica della Corea: Studi nelle mutazioni genetiche nelle piante;
Brasile: addestramento di ingegneri;
Repubblica del Vietnam: investigazioni sulla malattie tropicali;
Giappone. Addestramento tecnico e ricerche biologiche;
Austria. Programmi di fisica nucleare, chimica isotopica;
Italia: ricerca sulla fisica dei Neutroni,
Stati Uniti. Addestramento, ricerche nella crescita delle piante, irradiazioni di sementi, diagnostica tumorale e ricerche nel metabolismo umano [9].
Questa dichiarazione è sintomatica in due sensi. Prima di tutto è un’affermazione di fede, e la fede affermata non è in alcun modo il cristianesimo storico della cultura occidentale. È il concetto di identificazione. Si dice che questo è il significato della vera fratellanza. E questa è la fede che la scienza moderna afferma sempre più. L’ostilità di molti scienziati per materie di sicurezza nazionale si fonda, non su simpatie marxiste, come in alcuni, ma in questa dottrina dell’identificazione, e nei suoi termini molti sono diventati ardenti evangelisti. Secondo, questa dichiarazione non solo afferma l’identificazione ma dà inoltre, come abbiamo visto, una dottrina di Dio, e la scienza è divenuta questo nuovo dio. È la “Realtà” della sua comparsa dagli Stati Uniti al Congo. La Scienza Moderna è sempre più messianica nel suo carattere.
Ad ogni modo, è quando giungiamo agli scrittori contemporanei che compaiono alcune delle più vivide asserzioni di identificazione. Walt Whitman, il cui ruolo fu auto-consapevolmente più quello del veggente che del poeta, e il cui successo è proprio in qualità di portavoce di questa moderna inclinazione, fu persistente nel suo odio per l’etica, veemente nella sua identificazione con ogni vita, inclusi e specialmente con gli animali, perché essi sono privi di qualsiasi senso di separatismo etico. Un seguace del Whitman, Edward Carpenter, scrisse Toward Democracy, (it. Verso La Democrazia), un verboso appello all’identificazione come liberazione dalla religione etica con tutte le sue ossessioni di coscienza. L’identificazione è stata praticata dagli scrittori contemporanei più completamente anche se in modo meno estatico. Carson McCullers ha parlato molto chiaramente del suo approccio allo scrivere:
Non riesco a spiegarmi le accuse di morbosità. Uno scrittore può dire solamente che scrive dal seme che fiorisce nel subconscio successivamente. La natura non è anormale, solo la mancanza di vita è anormale. Qualsiasi cosa pulsi e si muova e cammini nella stanza, non importa cosa stia facendo, è naturale e umano per uno scrittore. Il fatto che John Singer, nel libro The Heart Is a Lonely Hunter, sia un uomo Sordomuto è un simbolo, e il fatto che il Capitano Penderton, in Reflexions in a Golden Eye, pure è simbolo di handicap e d’impotenza. Il sordomuto Singer è un simbolo d’infermità, ed egli ama una persona che è incapace di ricevere il suo amore. I simboli suggeriscono storia, tema, e incidente, e sono cosi intrecciati che non si può comprendere consapevolmente dove cominci la suggestione. Divento i caratteri di cui sto scrivendo. Sono così immersa in essi che le loro motivazioni sono le mie. Quando scrivo di un ladro divento uno di loro, quando scrivo di Capitano Penderton divento un uomo omosessuale; quando scrivo di un sordomuto divento sordomuta, divento muta durante il tempo della storia. Divento i caratteri di cui scrivo e benedico il poeta latino Terenzio che disse: “Nulla che sia umano mi è alieno” [10].
Questa identificazione, comune agli scrittori moderni, è pretesa anche dai lettori i quali devono identificarsi con qualsiasi e tutti i personaggi, che sono tutti “normali” perché “la natura non è anormale” ma lo sono solo la morte e la mancanza di vita. Perché la morte, un fatto naturale, sia anormale, non ci viene detto a meno che non sia per il fatto che costituisce una minaccia per questa estatica identificazione. Vladimir Nabokov, nello scrivere della genesi della sua Lolita dal suo “primo piccolo palpito”, nega specificamente d’aver qualsiasi “morale a rimorchio”.
La sua unica giustificazione per qualsiasi opera di fiction è che essa produce nel lettore “la beatitudine estetica” [11]. Questa “beatitudine estetica” è possibile solo con un’anestesia morale, perché altrimenti l’identificazione con pervertiti offre repulsione anziché beatitudine. Ma questa identificazione è precisamente la molla principale della moderna inclinazione e della sua fondamentale immoralità. Precisamente perché il suo concetto di identificazione è stato il trionfo dell’anormalità e della malattia, la letteratura moderna ha, nel complesso, perso la capacità di essere erotica perché la sua immagine dell’uomo è troppo erosa per permettere tale attività. Più di questo, il suo concetto di sesso è così patologico che, come ha detto il Giudice Distrettuale John M. Woolsey, il 6 Dicembre, 1933, riguardo all’ “Ulisse” di James Joyce: l’effetto totale “sul lettore è indubbiamente qualcosa di vomitevole, in nessuna parte tende ad essere un afrodisiaco.”
Nella sfera del sesso, il concetto di identificazione ha avuto convinta evangelizzazione scientifica da Kinsley, il quale metteva sullo stesso piano normali relazioni matrimoniali, l’omosessualità, e i contatti con animali come tutti egualmente naturali e quindi da equiparare.
Tutto questo, comunque, è un riflesso della cultura e parte della ribellione contro il datore-della-legge, il Dio della Scrittura. L’identificazione è utilizzata come mezzo per negare il particolarismo della legge, e per ridurla a non senso facendo convergere tutte le realtà dentro ad una inseparabile unità. Unità, identificazione, sono perciò un sostituto di legge e verità con la loro cancellazione di tutti i confini tra giusto e sbagliato, tra verità ed errore. Le sue manifestazioni letterarie sono a volte disgustose per il pubblico, ma la fede fondamentale è definitivamente accettabile. Inoltre, nel neo-Protestantesimo liberale, la religione dell’identificazione ha largamente soppiantato la cristianità biblica.
L’identificazione, nel welfare, ha portato al rifiuto, in alcuni quartieri, di richiedere ai fannulloni di lavorare, per non produrre in loro un “trauma psichico”, non c’è alcuna preoccupazione per il trauma psichico che soffre chi paga le tasse, o per il danno all’insieme della società, precisamente perché identificazione significa che l’insieme, non l’individuo, deve diventare il portatore-del-peccato e soffrire la pena per la trasgressione. Poiché la redenzione è nell’identificazione, l’espiazione è responsabilità del gruppo, e in modo particolare dei favoriti nel gruppo, i quali devono pagare la pena per la loro differenza per mezzo di un’espiazione livellante. A quel punto la giustizia cessa di diventare la funzione del governo, e l’identificazione per mezzo dell’equalizzazione forzata diventa l’obbiettivo. Nel trattare il problema coi Neri nel Sud degli Stati Uniti, la preoccupazione dell’azione federale è sempre meno la giustizia civile e sempre più l’identificazione. Che i Neri debbano avere giustizia è certo, ma l’identificazione obbligatoria non è giustizia ed è effettivamente ingiustizia, e può radicalmente oscurare i giusti diritti dei Neri davanti alla legge. Nelle menti di molti crociati odierni, identificazione e giustizia sono confuse. Ed entrambe sono ricercate nel problema coi Neri. Come ha osservato E. Earls Ellis, assistente alla cattedra di Nuovo Testamento al Southern Baptist Theological Seminary, Louisville, Kentucky, riguardo a Martin Luther King Jr.: “La ‘libertà’ che il Dr. King immagina non è meramente una libertà dalla dominazione o dalla discriminazione, ma una libertà dalla differenza” [12]. Questo è il nocciolo della faccenda, e, in ogni strato della società, c’è oggi una concupiscenza per “una libertà dalla differenza” e un risentimento contro chiunque rivendichi questo diritto. In religione, c’è anche lì questa stessa insistenza nel cancellare differenze teologiche in favore dell’identificazione, e i liberali neo-Protestanti sono particolarmente categorici a questo riguardo. Nella vita sociale, il “differente” deve essere soppresso; la persona superiore deve agire come la massa, e i deficienti mentali e i deformi devono essere nascosti alla vista. Le differenze sono repellenti e spiacevoli da guardare [13].
Ma, senza le richieste morali, che l’identificazione lavora per minare, il livello di identificazione è stabilmente abbassato e, in vari media dell’intrattenimento quanto in sforzi letterari, criminali, pervertiti e psicotici sono stati già da tempo il punto focale dell’identificazione. Poiché tale modo di pensare funziona sulla premessa che i forti si devono identificare coi deboli per “salvarli”, vale a dire per perequare la società, richiede poco dai deboli e tutto dai forti. Politicamente, sostiene che aiuti illimitati da parte degli Stati occidentali sono la sola speranza per il mondo, rifiuta, sia a livello internazionale sia a livello personale, di propugnare la responsabilità morale come fattore fondamentale o a limitare l’assistenza nei termini di presupposti morali pii.
Come risultato, l’inevitabile effetto della pratica dell’identificazione è la crescita del distacco morale. Poiché il concetto è basilarmente anti-etico, culmina in un disinteresse per le questioni morali. Fino ad oggi, nell’occidente, l’eredità cristiana è responsabile per un esteso strascico di moralismo, al presente usato come facciata e giustificazione per l’identificazione. Ma, nel pensiero orientale, la logica di questa posizione ha trionfato. L’identificazione ha, per citare un esempio drammatico, proibito l’uccisione di scimmie e di mucche in India, ma ha portato ad un radicale distacco morale tra uomo e uomo davanti a terribili tragedie e sofferenze. È inevitabilmente così. L’orientamento basilare dell’identificazione è, come abbiamo visto in Schweitzer, egocentrico. Distrugge il significato sia del particolare che dell’universale, e lascia solamente il desiderio dell’io di essere liberato dalla miseria dell’esistenza. Il particolare perde significato, nel fatto che solo l’insieme è reale, e l’insieme, non avendo una reale differenziazione, diventa un universale vuoto, e le categorie morali scompaiono di fronte ad un radicale relativismo. Il risultato finale perciò, dell’identificazione nella società occidentale, se la sua logica inerente trionferà, sarà l’ascesa di una radicale disumanità e il collasso del vero progresso mentre il relativismo totale prende il comando.
In contrasto a ciò, è importante che sia compreso, che sia perfettamente a fuoco e senza che sia rimosso nulla di ciò che offende, sta la dottrina biblica della santità e della separazione. L’enfasi etica dalla Scrittura non è antropocentrica, come nel moralismo, ma centrata su Dio, nel fatto che la sua natura fondamentale e struttura basilare è che la santità e la giustizia di Dio siano manifeste nell’uomo, creato ad immagine di Dio, e questa rettitudine deve diventare il terreno di comunione con Dio in e per mezzo di Cristo, di comunione tra uomo e uomo. Anziché identificazione c’è un’antitesi tra Dio e l’uomo, prima metafisica, perché uno è Creatore e l’altro creatura, l’uno Essere non creato e l’altro essere creato, e, secondo, l’antitesi è etica a motivo del peccato. La differenza metafisica è assoluta ed eterna; quella etica è vinta da Dio in Cristo. Dio è completamente santo e perfetto, e l’uomo è un peccatore che non può mai accattivarsi Dio con le sue opere e può approssimarsi a Lui solamente nella persona del portatore dei peccati e ri-creatore, Gesù Cristo. L’unione con Dio in Cristo non è mai una comunanza nell’essere, ma una comunanza di vita per mezzo di un atto di grazia. Ancora, piuttosto che identificazione tra uomo e uomo, c’è una chiamata alla separazione nei termini dell’antitesi morale, e alla comunione nei termini d’appartenenza a Cristo. Santità significa, nell’Ebraico, “separazione” oltre all’aspetto primario della separazione, anche dicesi ‘santo’ “uno che vive sotto la legge di Dio”, “che obbedisce ai suoi comandamenti”, anche questo un aspetto fondamentale della santità. La chiamata biblica alla santità è una chiamata alla separazione e alla salute: “Perciò ‘uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore, e non toccate nulla d’immondo e io vi accoglierò’” (II Co. 6: 17). Questa è la condizione per l’adozione nella casa di Dio (v. 18). Questa separazione deve essere nei termini della vita della chiesa e nei termini della società in generale, benché le attività commerciali, politiche e altre relazioni siano necessarie e inevitabili, i cristiani non si devono identificare col male e devono vivere una pia responsabilità. Ricercare la separazione totale è assurdo “perché allora dovreste uscire dal mondo” (I Co. 5:10). Ma la chiamata del cristiano avviene nel mondo e nei suoi termini; egli non può moralmente sfuggire dal mondo o dai suoi cittadini; ciò di cui deve stare attento è l’identificazione col mondo. Chi si lasciava prendere dall’idolatria, anche se nella propria stessa casa, non poteva essere risparmiato: ci doveva essere una totale separazione, che nel Vecchio Testamento si concludeva con la morte (De. 13) per tradimento nei confronti della santa comunione di vita.
La santità includeva trattamenti d’umanità, e le leggi d’umanità abbondavano, come testimoniano le seguenti leggi Mosaiche concernenti questi doveri verso le persone, una lista per nulla esaustiva):
Era richiesto anche un trattamento umano per gli animali:
Un animale che ferisse o uccidesse un uomo doveva essere eliminato, però (Es. 21: 28-32).
Ma bisognerebbe notare che è precisamente nel contesto di una serie di leggi d’umanità, e come conclusione di esse, che interviene una delle dichiarazioni più offensive per la mente moderna, il comando di Dio che la nazione di Amalek fosse distrutta completamente. Benché Amalek non abbia ancora avuto la resurrezione archeologica che altri stati ed imperi una volta dimenticati hanno goduto, la sua importanza era tale che Balaam poteva dichiarare: “Amalek era la prima delle nazioni, ma la sua fine culminerà in rovina” (Nu. 24:20). Sempre un aspro nemico d’Israele, Amalek espresse il suo disprezzo per il Dio d’Israele, in un tempo in cui tutte le nazioni temevano e tremavano, attaccandoli a Refidim. Laddove Mosè comandò ad Israele: “Non aborrirai l’egiziano, perché fosti straniero nel suo paese” (De. 23:7), eppure “Cancellerai il ricordo di Amalek di sotto il cielo” (De. 25:19), perché Amalek, in violazione di ogni umanità, aveva brutalmente trucidato i malati, gli anziani, i deboli e gli stanchi che si erano attardati per rivitalizzarsi ad Horeb. Amalek “ti ha attaccato alle spalle” (De. 25:18) “quando eri stanco e sfinito”. L’Egitto aveva cercato di sterminare Israele, ma essi dovevano anche ricordare che avevano avuto in Egitto i loro anni di privilegio, e che erano, dopo tutto, stati stranieri e forestieri lì. Ma Amalek aveva mostrato una radicale, basilare disumanità che, mentre minore in estensione del male dell’Egitto, era ben più seria nelle sue implicazioni. L’Egitto aveva temuto la loro forza e aveva mosso guerra brutalmente nei termini di questo timore, ma Amalek aveva ucciso senza essere provocato, senza ragione e in puro diletto nell’azione disumana. L’inclinazione sarebbe quella di ricordare le azioni più cospicue dell’Egitto e di dimenticare l’episodio con Amalek, ma questo avrebbe significato trascurare il principio fondamentale. La storia successiva vide spesso l’Egitto in termini pacifici con Israele e, a volte, senza alcun compromesso, una valida coesistenza. Non fu così con Amalek.
Un principio importante è qui coinvolto, e sollevato in modo risolutivo dal testo per via della sua congiunzione con le leggi di umanità e il suo riferimento alla disumanità di Amalek. L’alternativa all’identificazione è un concetto di separazione, e la separazione è basata su premesse etiche e religiose che richiedono una valutazione di ogni persona, popolo o situazione nei termini di queste premesse. L’attitudine di Dio è di benedire o maledire (De. 27, 28), e l’uomo deve echeggiare questi pronunciamenti e dire Amen a Dio. Con la maggior parte dei popoli ci può e deve essere una separata ma pacifica coesistenza, ma non ci può essere pacifica coesistenza con gli Amalek della storia sia perché essi stessi non la permetteranno, sia perché neppure lo farà Dio. Né nel caso di Amalek, né in quello delle nazioni Canaanite, Dio ordinò un’immediata “guerra santa”, come alcuni avrebbero voluto, ma, mano a mano che l’occasione si presentò, un poco alla volta, avrebbero dovuto riconoscere la natura inconciliabile della loro posizione ed agire nella consapevolezza che il risultato sarebbe potuto essere solamente la morte o una resa spregevole da un lato, o la vittoria dall’altro, senza possibilità di una separata ma amichevole coesistenza. Non era volontà di Dio che fosse fatto un immediato tentativo di forzare la situazione, sarebbe accaduto, per la sua provvidenza, “a poco a poco” (De. 7:22). Inoltre, in quei processo e storia, esso divenne la verifica del popolo e della loro fedeltà alle premesse della loro cultura.
Le implicazioni sono molto importanti. Una nazione tesa a stabilire nel mondo il concetto di identificazione opererà sul presupposto che l’obbiettivo debba essere l’unità o l’unione e lavorerà per questo scopo, sacrificandosi costantemente nei termini di quella sperata consumazione. Ma una nazione consapevole che alcune questioni sono irreconciliabili, mentre eviterà ogni empio avventarsi nel conflitto, riconoscerà che non ci può essere compromesso, e che la coesistenza pacifica in tali situazioni è un’illusione. Cercherà perciò di rafforzare la propria vita nei termini dei propri presupposti e anche di essere preparata per il malaccetto conflitto. Laddove l’identificazione, per la sua pietà totale, in definitiva distrugge la pietà e diventa disumanità, la separazione, per la fermezza nei confronti del male e il suo rifiuto di identificarsi col male flagrante o con perversioni, in definitiva è la sola fonte di vera pietà, del cui fatto la storia biblica dà abbondante testimonianza.
La ribellione contro la responsabilità ha, come uno degli aspetti del suo impulso, una paura e un risentimento nei confronti del dover rendere conto. Santità, rettitudine, responsabilità, e rendere conto: tutti questi termini parlano anche della temuta possibilità di fallire, e un programma che fa del fallimento e della colpa le ombre di ogni passo di un uomo non gode al presente di molta popolarità. Meglio un sistema di identificazione che elimini questa possibilità. Con Francesco d’Assisi fu fatto molto presto un tentativo di usare il cristianesimo come veicolo dell’identificazione. Francesco identificò se stesso con Cristo al punto di riprodurre le stigmate, identificando in questo modo se stesso anche con l’espiazione. Ma si identificò anche con gli animali, uccelli, pesci, e tutta la natura in un senso radicale, incluso “fratello verme”. Nel suo “cantico del Sole” egli chiamò il sole suo fratello, la luna sua sorella, parlò di “nostro fratello il vento” “nostra sorella acqua”, “nostro fratello fuoco”, “nostra madre la terra” e così via. Rifiutò di permettere qualsiasi organizzazione formale al suo ordine, o qualsiasi disciplina. “Non diventerò un esecutore per colpire o punire come i governanti politici devono fare”. I sospetti di Innocenzo III riguardo alle eresie di Francesco e del movimento furono più tardi verificate nel pensiero della minoranza dei Francescani che erano fedeli al suo pensare. Dall’altro lato, Domenico, che cercò, in modo giusto o sbagliato, di sviluppare le implicazioni della fede, condusse il proprio movimento direttamente dentro a due corsi d’azione. Primo, i Domenicani divennero esponenti di punta in educazione, in teologia e in filosofia. Secondo, sviluppando le implicazioni della fede, svilupparono anche le implicazioni dell’errore. Domenico divenne noto come il “Martello degli Eretici” e i suoi frati come i “Segugi di Dio”. Essi furono strumentali nella Crociata contro gli Albigensi. Possiamo non essere d’accordo con questa istanza specifica, e possiamo pure essere in radicale disaccordo con la filosofia Domenicana (e questo scrittore lo è), ma il fatto rimane che, fatta eccezione per quando si trova in legame sentimentale col concetto di identificazione, l’intelligenza si dà al discernimento, discriminazione e giudizio e il risultato è qualche forma di conflitto, che sia intellettuale, internazionale o militare. Per questa ragione gli intellettuali sono sempre stati distinti, sia giustamente che erroneamente, nel ruolo di “guerrafondai”, dando loro il senso peggiore, o come difensori pubblici, dando loro il senso corretto.
Quanto più acuto, allora, è il senso del discernimento della discriminazione e di giudizio quando sono stabiliti direttamente, anziché culturalmente, su una rivelazione soprannaturale le cui implicazioni devono essere sviluppate da capo con ogni generazione. Inevitabilmente c’è conflitto. Gesù ha reso molto chiaro a tutti coloro che hanno cercato di evadere quella dura realtà che Egli è venuto, non per portare questa falsa pace della cancellazione delle distinzioni morali e spirituali e la melassa dell’identificazione, ma anzi per portare una spada, cioè divisione perfino tra le famiglie stesse, tra padre e figlio, e nei termini di questa fede gli uomini devono essere pronti a perdere la loro vita per amore di Lui (Mt. 10:34-39).
L’obbiettivo del pensiero dell’identificazione, per quanto mascherato, è libertà dalla responsabilità morale. Persino in Schweitzer questo è evidente. Poiché tutti sono colpevoli ineluttabilmente e senza alcuna azione da parte loro, poiché tutti devono vivere a spese di altre vite e sono nati e fatti crescere in questo modo, allora, a prescindere dalla natura di un’azione, il perdono deve essere sempre concesso, perché chi oserebbe insistere sulla perfezione morale? L’implicazione inevitabile di questo è chiara: che importanza ha il peccato tra uomini? Per Schweitzer, rifiutare di perdonare “sarebbe agire come se io stesso non fossi colpevole” [14]. Il riferimento basilare è dunque l’ “io” e il suo tentativo di evadere la responsabilità. Per il cristiano ortodosso, il perdono è dato solo in accordo con la parola di Dio senza alcun senso di difficoltà personale perché il credente colloca non solo il peccatore ma anche sé stesso sotto l’autorità della parola di Dio. Egli non è preoccupato di evitare l’imbarazzo di giudicare uomini per mezzo di tribunali, consessi di Anziani e concistori ecclesiali, e con i mezzi indicati da Dio, perché la sua cornice di riferimento non è se stesso ma Dio. La sua preoccupazione, perciò, è di rafforzare la società nei termini di vera giustizia e di vera misericordia, ed egli colloca sé stesso e tutti gli uomini sotto la parola di Dio quale solo mezzo per portare gli uomini al vero perdono e alla vera libertà.
Qui giungiamo al cuore della faccenda. Per la fede biblica la libertà non è una fuga dalla legge e dalla responsabilità, ma un aspetto e il risultato dell’obbedienza e di un agire responsabile. Una celebrità minore contemporanea è stata esaltata dai recensori della sua autobiografia come una persona straordinariamente libera, apparentemente perché è stato sposato diverse volte, ha trascorso del tempo in prigione, è stato un tossicomane, una celebrità televisiva e teatrale, un uomo coinvolto in attività sbagliate e irresponsabili senza fine e, in vari modi, ha dimostrato di essere incapace di un maturo e coerente uso delle sue abilità. Questo, apparentemente, sarebbe vivere, e questo, dovremmo crederlo da autori e recensori, è libertà. La libertà è perciò associata con quella imprevedibilità ed eccentricità che è la caratteristica di problemi della personalità, di neurosi e di psicosi. E, infatti, questi “spiriti liberi” tradiscono una grande familiarità con la poltrona del psicanalista e una singolare mancanza di libertà nel governare sé stessi. Ma nei termini della fede biblica, l’uomo trova la propria libertà solamente sotto Dio e nei termini di azioni responsabili. Al posto della fuga dai problemi e dalle prove, gli è assicurata la loro inevitabilità. La Nuova Gerusalemme viene, non come un prodotto dell’attività storica ma escatologicamente, nondimeno in diretta e vitale connessione con la lotta della vera chiesa e del trionfo nella storia, come dichiara il libro di Rivelazione. La libertà è sviluppata dal fuoco e dalle prove, e si sviluppa con la pia responsabilità e in concomitanza della santificazione ed ha la sua genesi nella giustificazione.
La libertà quindi si sviluppa con responsabilità creaturale. Non può esistere dove l’uomo cerca di essere dio e di rivendicare poteri e responsabilità che non possiede. L’uomo non può essere il guardiano di suo fratello, ma solo il fratello di suo fratello. Rivendicare poteri e responsabilità arbitrari è in sé una pericolosa forma di irresponsabilità. L’uomo non può identificare se stesso come un dio senza danneggiare la propria umanità, né può caricasi di pesi arbitrari, irreali, e impossibili senza trascurare la sue reali responsabilità.
Schweitzer, in una tardiva riaffermazione della sua posizione, affermò il suo scetticismo basilare per quanto concerni un qualsiasi “concetto del mondo”. La sua “Etica dell’auto-sacrificio” non ha una giustificazione oggettiva ma è “completamente soggettiva”. È “il principio dell’auto-sacrificio attraverso la compassione” ed egli era certo che “l’etica è primariamente una questione di compassione”, vale a dire di identificazione, ed è un concetto che “costantemente ci costringe di tentare l’impossibile”, nel fatto che richiede riverenza, adorazione e identificazione con ogni vita. Schweitzer fece questo commento: “La filosofia teme, e giustamente, che questo enorme allargamento del cerchio delle nostre responsabilità toglierà all’etica la piccola speranza che ancora ha di formulare comandamenti ragionevoli e soddisfacenti”. Noi diventiamo “colpevoli, per necessità” Dovremmo cercare il perdono col mai perdere un’occasione di salvare creature viventi” [15]. In questo modo, Schweitzer stesso disse che i critici temono le implicazioni della sua dottrina, “e giustamente”, perché distrugge l’etica riducendola all’impossibilità! Un etica impossibile, che fa l’uomo “colpevole per necessità”, cerca espiazione via incondizionato e illimitato perdono e la salvezza di ogni creatura vivente non è niente di più che rampante masochismo e la morte dell’etica. È un mezzo di auto-punizione e suicidio, chiamato più raffinatamente “auto-sacrificio”. È una politica di volontaria distruzione che opera sotto l’illusione di possedere capacità illimitate. Applicata alla politica, richiede l’auto-distruzione del forte in un modo designato ad indebolire ulteriormente il debole con una pianificata irresponsabilità.
In un punto, comunque, il tartassato dal fisco può ringraziare: mentre i continenti e le nazioni sono state ascoltate e generosamente aiutate, nessuna richiesta è ancora giunta al Ministero degli Aiuti Esteri da “nostro fratello verme”. Ma magari il Presidente e la Camera, con la loro usuale lungimiranza, rimedieranno di grazia a questa svista.
Note:
[1] Albert Schweitzer: Civilization and Ethics, p. 246. London: Black, 1929, II Ed.
[2] Ibid., p. 246s.
[3] Ibid., p. 252.
[4] Ibid., p. 254s.
[5] Ibid., p. 256.
[6] Ibid., p. 258.
[7] Citato da una recensione di George Leaver: Albert Schweitzer, The Man and His Mind, di Osborne l. Schumpeter ne Monday Morning, 26 Gennaio, 1948, p. 15.
[8] Questo dipinto, riprodotto sul Time, 25 maggio, 1959, p. 79, fu preso da Japan: ancient Buddhist Paintings, the New York Graphic Society.
[9] Su Time, 21 Dicembre, 1959, pp.54,55; in Saturday Evening Post, 19 Dicembre, 1959, pp. 54,55.
[10] Carson McCullers: The Flowering Dream, Notes on Writing”, su Esquire Dicembre 1959, . p. 163.
[11] Vladimir Nobokov: On a Book Entitled Lolita, in The Anchor Reviev, n° 2, p, 105-112.
[12] E. Earl Ellis, in una recensione di Martin Luther King, Jr.: Stride Toward Freedom, in Christianity Today, 19 Gennaio 1959, III, 8, p. 34s.
[13] Per l’accettazione di tali fatti da parte di una cultura cristiana, si veda Joseph W. Eaton e Robert J. Weil: Culture and Mental Disorders; Glenco, Ill.: The Free Press, 1955, uno studio sugli Utteriti che fa importanti osservazioni sulla capacità di una setta rigida di tollerare divergenze senza relativismo.
¨ L’autore fa notare come in Inglese la parola ‘holy’, dall’anglosassone ‘halig’ significhi ‘whole’ (integro) o “sound” (sano). Anche in italiano ‘santo’ è una parola molto vicina a ‘sano’.
[14] Schweitzer, op. cit., p. 252
[15] Albert Schweitzer: The Evolution of Ethics in The Atlantic Monthly. Novembre 1958, vol. 202. n° 5, p. 69-73.