XI
La soluzione della questione 11:9–12:14
Nelle sue ultime parole (11: 9–12:14) il Predicatore presenta la soluzione al grande problema della stortura umana e della maledizione di Dio, per quanto debba essere compresa nel quadro della sapienza salomonica pattizia. La sapienza salomonica – la sapienza biblica – fornisce l’unica prospettiva su cui il popolo di Dio può e deve fare affidamento. Lo scopo del predicatore era far loro vedere che non potevano dipendere da nient’altro. Sotto la pressione del peso di Dio, le parole di uomini secolari e umanisti sono inutili, ma quando i figli pattizi d’Israele ascoltano con fedele obbedienza la rivelazione delle parole di Dio nel tempio, possono sperare di trovare la risposta al suo potere inesorabile. Lì imparano a fare i conti con ciò che Dio fa e a prendere sul serio tutto ciò che comanda. È anche lì che scoprono che Dio ha promesso un futuro a coloro che rimangono fedeli al suo patto. Quel futuro appartiene al suo Messia. Quando verrà, il grande macigno del peso di Dio sarà sollevato dal mondo dell’uomo, poiché attraverso di lui saranno rimosse la stortura e il peccato dell’uomo. Nel frattempo, il popolo di Dio non deve permettere che l’attuale miseria e lo sconvolgimento della loro esperienza nel mondo li facciano sconsolare. Sapendo che il futuro è loro, devono lavorare con allegria e risoluto proposito.
Il Predicatore istruisce i suoi ascoltatori ad “accettare la vita!” (11:9). Sebbene la vita e le fatiche degli uomini, in particolare le loro opere di giustizia, sembrano essere spesso derubate dei loro frutti, il popolo di Dio non deve lasciarsi dissuadere: “Rallegrati pure, o giovane, nella tua giovinezza e gioisca il tuo cuore nei giorni della tua giovinezza; segui pure le vie del tuo cuore e la visione dei tuoi occhi… ” (v.9). Il Predicatore si rivolge in particolare a coloro che sono giovani e nella forza dei loro anni, quelli per i quali la vita e tutto ciò che ha da offrire si trova ancora davanti a loro da afferrare per il raggiungimento di obiettivi produttivi. È quello il momento in cui fissiamo i nostri propositi e scegliamo quale strada percorreremo. È nella giovinezza che selezioniamo gli scopi delle nostre fatiche e scegliamo con viva anticipazione il percorso per la loro realizzazione. Va’ e fa’, dice il Predicatore! Datti completamente! Non preoccuparti per “il ciclo!” Il mondo appartiene a Dio ed egli ti ha dato l’opportunità di costruire la vita. Concediti la vita in tutta la sua ricchezza e pienezza. Se le cose sembrano perverse e distorte, non lasciarti turbare. Piuttosto, mentre hai forza nelle braccia e ambizione nell’anima, metti all’opera i tuoi talenti e i tuoi doni. La vita potrebbe non andare come ti aspetti, ma non devi permettere alle sue incertezze e alle sue turbative di compromettere le tue energie.
Il lavoro che il Predicatore incoraggia non è semplicemente attività in sé e per sé; incita i giovani a lavorare per conto del Regno di Dio, a spendere i loro sforzi per la sua crescita nel mondo. I loro sforzi devono essere definiti da ciò che Dio vuole, non semplicemente in termini di ciò che piace loro. Immediatamente dopo averli spinti ad accettare la vita con diligenza ed entusiasmo, ricorda loro severamente che tutto ciò che fanno avrà la sua conseguenza ultima alla luce del giudizio di Dio: “… ma sappi che per tutte queste cose Dio ti chiamerà in giudizio” (v.9). Qui il Predicatore raggiunge l’apice del suo pensiero. All’inizio, ha proclamato il pesante fardello di Dio come il tema che intendeva esporre. Ora scopre il suo significato più pieno. Con la sua enfasi sul giudizio di Dio, il Predicatore mette in luce ciò che, come discepolo della sapienza salomonica, è sempre stato determinato a chiarire – che in tutta l’esperienza dell’uomo sotto il sole, Dio deve avere una priorità assoluta. Il suo popolo deve essere pienamente convinto di questa verità e disposto a vivere assecondando i suoi requisiti senza esitazioni. Essi, fra tutte le persone, dovrebbero agire e lavorare con la certezza del giudizio di Dio come fonte principale della loro motivazione. Devono riconoscere che ciò che Dio farà sarà fatto fino al completamento. Quindi faranno i conti soprattutto con ciò che Dio fa, seriamente ora, mentre possiedono il vigore della giovinezza, non più tardi quando le possibilità per costruire la vita sono state notevolmente ridotte dalla vecchiaia. Il patto deve predisporre il modo in cui le persone di Dio pensano, agiscono e intendono la vita fin dall’inizio. La loro vita non è loro per farne ciò che vogliono, ma deve essere usata per opere d’obbedienza in tutto ciò che fanno e ovunque le vie del loro cuore possano portarli.
Poiché il Predicatore ha messo a confronto la gioia dei giorni della giovinezza con i “giorni cattivi” (12:1) della vecchiaia e dell’inevitabile morte, alcuni commentatori hanno concluso che la morte è la sua preoccupazione più urgente. Ad esempio, Loader sostiene che nei versi di questo testo e in tutto il libro la morte è “l’unica certezza che ci sia per il Predicatore”[1]. Questo è fraintendere il suo pensiero. La cosa più certa secondo il Predicatore non è la morte, ma il giudizio di Dio. In effetti, l’accento sulla morte ha lo scopo di dare grande evidenza all’ancor più grande certezza del giudizio di Dio, poiché la morte stessa non ha alcun significato per il Predicatore al di fuori del contesto del peso di Dio. Poiché l’intento del Predicatore è stato quello di chiarire la priorità di Dio sull’uomo, tutto ciò che accade nell’esperienza dell’uomo, compresa la morte, deve essere visto come ancillare a tale scopo. Come fedele discepolo della sapienza biblica salomonica, non poteva pensare alla questione in modo diverso. Non è la morte stessa che conta, lo è ciò che la morte comporta: il giudizio di Dio sulla vita dell’uomo. Quest’ultimo più della prima dovrebbe occupare la nostra attenzione con una riflessione sobria; tuttavia, solo all’interno del patto gli uomini impareranno davvero che è realmente così.
La gioventù, gli anni della forza fisica e della prontezza mentale, è il momento di lavorare non solo per le ricompense temporali ma per il frutto eterno. Non è il momento di sprecare la vita in una vana ricerca di divertimenti del corpo e in allegria vana e dissipante. D’altra parte, l’inquietudine per ciò che riserva il futuro è una malattia snervante. La gioventù è un grande momento della vita, ma può anche essere un momento pericoloso, poiché gli appetiti del corpo sono acuti e possono promuovere un assorbimento eccessivo delle soddisfazioni temporali che questa vita presente offre. Tali preoccupazioni inducono a seguire interessi strettamente mondani con un vano disprezzo per il giudizio di Dio. Quindi, il Predicatore avverte le persone del patto che “la giovinezza e i capelli neri sono un soffio” (v.10 CEI), queste qualità della vita non possiedono in sé nulla di permanente. Sono destinate a perire. Se durante il loro tempo non le usiamo per scopi divini, avremo veramente sprecato la nostra opportunità di produrre risultati duraturi. Quindi: “Elimina dal tuo cuore la tristezza e allontana dal tuo corpo il dolore” (v.10). L’auto-assorbimento non è in sintonia con la responsabilità pattizia.
Invece: “Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni cattivi e giungano gli anni dei quali dirai: ‘Non ho in essi alcun piacere’” (12: 1). Al centro della tua vita sostituisci l’interesse per te stesso con l’interesse per Dio. Non aspettare più tardi per farlo, ma fallo ora, nei giorni della tua giovinezza. Tuttavia, non credere stupidamente che la giovinezza possa liberare dal peso della maledizione di Dio. Il predicatore sta parlando esclusivamente delle opportunità disponibili in quel periodo nella vita di una persona. L’uomo secolare guarda alla giovinezza come un momento per nutrirsi irresponsabilmente dei piaceri della vita. Per i giovani del patto è il momento di ricordare il loro creatore e di vivere la vita nel suo patto, l’unica garanzia contro l’aggressione della maledizione.
Enfatizzando Dio come creatore, il Predicatore attira l’attenzione sull’intero regno della creazione come campo delle attività dell’uomo. Questo è particolarmente vero per quelli che fanno parte del patto. L’intera creazione fornisce il terreno in cui lavorare per conto del regno di Dio. Ma, citando la parola Creatore, il Predicatore ha anche chiarito che l’uomo vive nel mondo di Dio e che Dio terrà conto di ciò che l’uomo vi fa. Come commenta Van Den Born, “Tutto ciò che il mondo come creazione di Dio ha da offrire può essere accettato, ma non per consumarlo semplicemente su te stesso, piuttosto per dare un contributo secondo la legge di Dio”[2]. Inoltre, “Dio il Creatore investigherà su tutto ciò che è accaduto, perché l’uomo ha vissuto nel suo mondo e ha mangiato e bevuto della sua ricchezza, e ha goduto dei suoi doni”[3]. Di conseguenza, “Beato l’uomo che in questi splendidi giorni luminosi in cui vive nel mondo di Dio, considera che mangia e beve delle ricchezze di Dio. Ricorderà il suo Creatore e lavorerà per onorarlo … prima che arrivino i giorni bui e l’uomo debba abbandonare il suo lavoro”[4]. L’uomo che fornisce opere di obbedienza avrà sicuramente una parte nella futura età messianica. La gioventù è il momento di essere obbediente al patto di Dio.
In 11: 2–7 il Predicatore, per mezzo di una serie di metafore, dipinge un ritratto della vita quando inizia la vecchiaia e quando alla fine la morte prende il sopravvento. Alla fine “la polvere ritorni alla terra com’era prima e lo spirito torni a DIO che lo ha dato” (v.7). Questo ritorno è, come sottolineato in precedenza, un’allusione al giudizio a seguire. È quando “l’uomo va alla sua dimora eterna …” (v.5), quando l’uomo va alla sua destinata ricompensa. Il popolo del patto deve capire che nel giudizio Dio premia il suo popolo e condanna eternamente i malvagi. La giovinezza è il momento di considerare questo e di lavorare per quel designato destino. Quando il Predicatore dice: “Ricordati” (v.6), intende: Non lasciar scivolare via i giorni delle opportunità.
Da 12: 8 il Predicatore conclude i suoi pensieri sul problema dell’uomo e sul peso di Dio. Viene spesso chiamato “epilogo”, proprio come 1: 1–12 è stato chiamato il “prologo”. È anche quella parte del suo libro che ha dato agli interpreti moderni la loro difficoltà più grande, poiché, con poche eccezioni, i commentatori fortemente influenzati dai moderni metodi di studio della bibbia chiamati critica testuale, hanno concluso con sicurezza che i versetti 12: 8 a 12:14 non possono costituire il finale originale del libro di Ecclesiaste. Queste non possono essere le parole del Predicatore, ma devono essere quelle di uno scrittore o di redattori successivi. Whybray afferma: “È universalmente concordato che questa sezione finale del libro è opera non di Qoheleth ma di una o più persone che avevano familiarità con il libro nella sua forma attuale o almeno con il suo contenuto … l’epilogo è opera di un redattore o redattori che hanno dato all’opera la sua forma attuale ”[5]. Loader sostiene che “l’epilogo ovviamente non è opera del Predicatore”[6]. Questo punto di vista è sostenuto, tra gli altri, anche da Delitzsch.
Siamo costretti a chiedere, quali sono le prove a sostegno di tale ipotesi? Per quanto riguarda le prove “esterne”, non ce ne sono. L’argomento è strettamente sulla base di prove “interne”, la supposizione che un distinto cambiamento di umore, una retorica più positiva, sia improvvisamente emersa dopo che un messaggio lungo e implacabilmente negativo e pessimista non è riuscito a mostrare una via d’uscita dallo schiacciante dilemma dell’uomo. Nella nostra prospettiva, questa nozione è intrattenuta non a causa dell’incapacità del Predicatore di far risuonare una nota positiva in tutto il suo libro, perché abbiamo ripetutamente dimostrato il contrario, ma a causa dell’incapacità degli interpreti di afferrare teologicamente e pattiziamente il pensiero contenuto nel libro. Poiché gli interpreti considerano il libro non dissimile dalla sapienza umanistica in generale, speculando affermano che alcuni “discepoli redattori” in seguito si sentirono in qualche modo obbligati a salvare il libro per la comunità ebraica che avrebbe avuto difficoltà ad accettare il libro privo come sembra di qualsiasi menzione della “torah” o legge come modo per raccogliere certune benedizioni e prosperità. Nessun ebreo avrebbe creduto che i comandamenti di Dio non fossero la ricetta giusta per la vita. Pertanto, conclude l’argomentazione, il totale negativismo doveva essere attenuato in modo da dimostrare che il Predicatore non intendeva né denunciare né dichiarare inutile l’osservanza della legge in Israele.
Non è necessario sprecare molto spazio per rispondere a questa ipotesi. Per quanto riguarda il libro, se non s’inizia col patto, neppure si finisce con esso. Abbiamo offerto un’interpretazione che tiene conto di questo punto di vista lungo tutto il libro. Può essere inaccettabile per la mente moderna e critica, ma suggeriamo che non c’è altro modo per spiegare il libro come appartenente al canone della Scrittura. Crediamo che quello sia il suo posto e che l’epilogo sia perfettamente adatto per essere le osservazioni conclusive del Predicatore stesso.
Quando al verso 8 il Predicatore dichiara: “Vanità delle vanità! Tutto è vanità!” ripete alla fine quello che aveva detto in 1:2. All’inizio ha annunciato la maledizione come problema centrale dell’uomo. Lo fa di nuovo alla conclusione per ricordare ai suoi ascoltatori ciò che è in serbo per l’uomo al di fuori del patto. È un avvertimento per loro di non abbandonare il patto che è la loro unica speranza in un mondo schiacciato dal peso di Dio sul peccato dell’uomo. La maledizione è ciò che possono sicuramente aspettarsi di ereditare se si allontanano dalla soluzione di Dio per il problema dell’uomo.
12:9–12 contrasta nettamente, e intende contrastare nettamente, con ciò che il Predicatore aveva ripetuto nel verso 8. Qui ritorna ancora una volta al patto. Poiché parla in terza persona, i commentatori si sono sentiti giustificati nel sostenere che questi versetti siano stati aggiunti da un altro. Ma quando il Predicatore parla in questo modo lo fa per indirizzare l’attenzione sulle basi della vita pattizia nel mondo di Dio. Nei versi 9 e 10 la parola “Predicatore” o “Insegnante” si riferisce a Salomone e alla saggezza biblica salomonica in generale. È la pretesa del Predicatore di parlare da quel punto di vista, di insistere sul fatto che le sue parole sono parole di Dio e non derivano semplicemente dalla sua propria intuizione. Salomone era supremamente il saggio dei santi dell’Antico Testamento. Ma quando il Predicatore aggiunge che “le parole dei saggi sono … date da un solo Pastore” (v.11), si riferisce a Dio come la vera fonte di quelle parole. È la sua affermazione che la parola del patto di Dio è l’unica base su cui il popolo del patto deve basare la propria vita in un mondo profondamente disturbato dalla corruzione dell’uomo e dalla maledizione di Dio. Aggiunge enfasi avvertendoli immediatamente che non si può aggiungere altro a quella parola (v.12). Si è rammentati di Apocalisse 22:18 in cui lo stesso avvertimento fu dato alla fine del canone del Nuovo Testamento. È una buona ragione per credere che il libro di Ecclesiaste possa essere la conclusione del canone dell’Antico Testamento. Le parole di sapienza con cui le persone di Dio devono vivere non devono essere né più né meno di ciò che Dio dice. Qualsiasi aggiunta non è solo di nessun valore ma effettivamente dannosa. Ecco perché aggiunge: “Si scrivono tanti libri, ma non si finisce mai, e il molto studiare affatica il corpo” (v.12). Non che il Predicatore sia un anti-intellettuale e quindi consideri i libri e l’apprendimento come una perdita di tempo, né insiste sul fatto che abbiamo bisogno delle nostre Bibbie e niente di più. L’apprendimento e lo studio dell’uomo non hanno nulla da offrire se non sono fondati sulla parola del patto di Dio. L’uomo umanista si esaurisce in una ricerca infinita di verità e conoscenza che ha come unico risultato contraddire e scalzare la parola di Dio. Ma solo la parola di Dio rimarrà (Isa. 40: 8). La Parola infallibile è l’unico punto di certezza in un mondo preso nella morsa del “ciclo”. Quant’è importante che, in particolare, lo capisca il popolo di Dio! “Ascoltiamo dunque la conclusione” (v.13) esclama il Predicatore. Ciò che si intendeva far conoscere è stato chiaramente affermato e nulla di essenziale resta da dire. Il patto, con al centro la Parola sovrana di Dio, è la sola cosa su cui il popolo di Dio può aspettarsi di essere saldamente piantato nella speranza per il futuro. Non hanno bisogno di altro. Dio ha per grazia rivelato loro tutto ciò di cui hanno bisogno per avere direzione e autorità.
E così, il Predicatore, nonostante la “vanità” che pervade tutta la vita e i suoi sforzi, non consiglia né la disperazione né l’escapismo come risposta al suo peso devastante. Non pronuncia la vita inutile e indegna di ideali di governo e vada come vada! Al contrario! Le persone del patto devono assumersi le responsabilità del patto e lavorare per sua propagazione e allargamento nel mondo. Hanno uno scopo nella vita; è: “Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto della vita” (v.13). Questo comando non dovrebbe essere preso come una semplice concessione di fronte alla totale disperazione, ma come una convinzione sicura che, sebbene l’uomo non possa fare nulla per raddrizzare la sua situazione, Dio può. Inoltre, queste parole contengono ordini in marcia non solo per gli individui, ma per un totale sforzo di civilizzazione, poiché non riguardano una parte dell’opera dell’uomo ma “il tutto”. Dio chiamerà in giudizio tutta l’opera dell’uomo. Il lavoro dell’uomo non è per nulla, ma, sia esso buono o cattivo, riceverà la ricompensa che giustamente merita. Con le sue osservazioni conclusive, ci viene ancora una volta ricordato il commento conclusivo di Giovanni in Apocalisse che descrive opportunamente la divisione finale tra coloro che rimangono fedeli al patto e coloro che rifiutano il suo vangelo: “Beati coloro che adempiono i suoi comandamenti per avere diritto all’albero della vita, e per entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i maghi, i fornicatori, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna” (Apocalisse 22: 14-15).
Conclusione
Ecclesiaste, se correttamente compreso alla luce delle Scritture, ha un messaggio inequivocabile e puntuale. Se l’interpretazione che viene presentata in questo studio non rappresenta accuratamente il pensiero del libro, è difficile comprendere come potrebbe essere considerato appartenere al canone della Scrittura. In che senso alternativo il libro potrebbe essere visto come conforme al messaggio della Scrittura nel suo insieme, un messaggio che trasmette innegabilmente il patto di redenzione di Dio come unica speranza per l’uomo caduto? Questo non significa affermare di aver esaurito il significato del libro. Senza dubbio ci sono intuizioni che abbiamo trascurato. Ma, sicuramente, il libro deve riflettere lo stesso punto di vista di base dell’intera Scrittura se deve giustificare l’accettazione come parte del suo corpus.
Pensiamo che il punto di vista di Ecclesiaste sia evidente: l’uomo deve rinunciare alla sua auto-dichiarata indipendenza da Dio suo creatore e redentore se non vuole aver vissuto la sua vita veramente invano. Dio e la sua parola devono aver avuto un’indiscussa influenza su tutto ciò che l’uomo fa “sotto il sole” e i veri sapienza, conoscenza e intendimento, che sono così inevitabilmente necessari per l’attività di costruzione della vita dell’uomo, dipendono da una fedele aderenza alla sua autorità e alla sua promessa. Ecclesiaste perviene a questa prospettiva principalmente per via negativa; cioè fa capire quella che deve essere la conseguenza inevitabile per l’uomo fuori dal patto. Quando il Predicatore annuncia: “Vanità delle vanità. Tutto è vanità!” dichiara ciò che è costretta ad essere la vita di chi rifiuta di fare i conti con Dio e di prendere sul serio ciò che la sua parola comanda. La pretesa sapienza autonoma dell’uomo non vale a nulla. Se l’uomo vuole essere veramente saggio, deve comprendere che la vera saggezza inizia col volgersi a Dio e al suo patto come l’unica base su cui in questo mondo si può costruire la vita.
Le parole di Ecclesiaste affrontano il problema dell’uomo a livello di civilizzazione. Parlano agli uomini come costruttori di regni di un tipo o di un altro, come operai per conto del regno di Dio o del regno dell’uomo. La prospettiva di ogni regno è fondata su una filosofia di vita, su una parola di sapienza che chiarisce sia il punto di partenza che l’obiettivo da raggiungere. L’uomo nella sua ribellione ha puntato con orgoglio a ideali di sapienza auto- generati per erigere il paradiso sulla terra. Crede fermamente di essere da sé in possesso dell’agenda corretta per la vita e la cultura. Nega fermamente che i suoi sforzi di civiltà debbano conformarsi a ciò che Dio dice. Lo scopo di Ecclesiaste è di rivelare falsa l’autosufficienza degli ideali dell’uomo umanista. In particolare, significa disabituare il popolo di Dio alle pretenziose affermazioni dell’uomo secolare e incoraggiarli a rimanere fedeli all’unico punto di vista della sapienza in cui possono sperare di avere successo.
È tragico che molti cristiani ai nostri giorni abbiano scoperto che vivere obbedendo esclusivamente alla parola di Dio, sebbene utile forse per interessi personali e soggettivi, è del tutto inaccettabile per il programma complessivo della cultura. In tutto lo spettro della comunità cristiana si può osservare in modo preoccupante una crescente accettazione della sapienza umanistica. In nessun luogo ciò è più evidente che in quelle istituzioni in cui la conoscenza e l’intelligenza sono particolarmente ricercate e trasmesse. In quante scuole e licei le lusinghe degli ideali di saggezza umanistica hanno incontrato un successo quasi decisivo? L’agenda dell’uomo secolare, la visione della vita che scaturisce dalla sua filosofia dell’uomo e della cultura, dopo aver usurpato la sostanza del processo educativo, hanno lasciato alla verità e all’intelligenza cristiana solo l’apparenza della sua presenza, e anch’esse stanno svanendo rapidamente. Nel mondo accademico la comunità cristiana sta forse abbandonando la prospettiva del patto? In ogni area d’apprendimento, che si tratti di politica, economia, sociologia, psicologia o letteratura, gl’ideali dell’uomo caduto hanno acquisito grande consapevolezza e rispettabilità.
Il tempo del predicatore era più o meno simile. Le persone di Dio venivano fuorviate dal canto delle sirene degli ideali culturali greci ed ellenistici e la loro fede nel patto veniva erosa. Chiamato da Dio per ministrare a questa crescente apostasia, il Predicatore si fece avanti con la sapienza della parola pattizia di Dio. Ma quella parola è stata pronunciata con un potente promemoria che il popolo di Dio non può allontanarsi dal patto senza pagare un prezzo pesante. Fuori c’è la maledizione di Dio. Adottare la sapienza umanistica è ereditare le sue conseguenze negative. Se il messaggio di Ecclesiaste sembra riecheggiare una nota così pessimistica, è per far sì che il popolo di Dio possa sapere cosa c’è in gioco.
Note:
1 Loader, p. 131.
2 Van Den Borne, Ibid.
3 Van Den Borne, Ibid.
4 Van Den Borne, Ibid.
5 Whybry, Ecclesiastes, p. 169.
6 Whybry, Ecclesiastes, p. 133.