(La Sapienza di Cristo)
b. I Greci
Da sempre ci viene detto che la nostra civilizzazione occidentale ed europea è stata il prodotto del genio greco. La nostra cultura è stata edificata, così si afferma, sulla loro capacità di produrre modi di pensare riflessivi e civili [1]. Questo riconoscimento non è limitato, comunque, alle mere forme di pensiero superficiali, ma è esteso al cuore stesso degli ideali morali e dei valori della nostra cultura. Il loro contributo, in altre parole, lungi dall’essere periferico, fu determinante per ogni singolare lineamento della civiltà che i nostri antenati immaginarono e a cui diedero forma, e che a sua volta ha completamente modellato la nostra visione della vita. In breve, dai greci avremmo ereditato tutti i nostri ideali di giusto, sbagliato, bene, male, giustizia e verità. Bruno Snell non ha esitato ad affermare: “Il pensiero europeo inizia con i Greci. Essi lo fecero ciò che è, il nostro solo modo di pensare; la sua autorità nel mondo occidentale è indiscutibile … noi usiamo questo pensiero … per convergere sulla … verità … col suo aiuto speriamo di afferrare i principi immutabili di questa vita”[2].
Questa è un’affermazione radicale, una che è il prodotto dell’opposizione a Cristo e al suo regno da parte dell’umanesimo e che esprime la pressante smania di vedere realizzato il regno dell’uomo. Ciò che è vero per certo è questo: sono i greci ad aver fornito i fondamenti per tutto ciò che nella nostra cultura occidentale è umanistico. Essi hanno articolato il diritto, che l’incredulo Esaù richiedeva accanitamente, di possedere l’eredità che in verità appartiene al credente Giacobbe. La progenie dei greci ha passionalmente cercato di spossessare la progenie di Cristo. Nella misura in cui hanno avuto successo il risultato è stato un piatto di lenticchie al posto di vero e durevole nutrimento. Che affermazioni sono fatte da e per i greci? Poiché la sapienza è civilizzante per natura, dobbiamo avere qualche idea di ciò che l’uomo umanistico in opposizione a Cristo si è sforzato di costruire per se e per il suo mondo, E poiché fu dai Greci che la nostra civiltà ha preso il proprio punto di partenza umanistico, faremo bene a comprendere qualcosa di ciò che credevano.
Gli stessi Greci derivarono molte delle loro assunzioni dalle antiche civiltà pagane che li precedettero. Nell’ultimo capitolo abbiamo visto che due delle civiltà più rappresentative del mondo antico pagano furono quelle d’Egitto e Mesopotamia. Quelle società erano rigorosamente il prodotto del tentativo peccaminoso e ribelle dell’uomo di erigere culture nei termini di ideali che negano il Dio vero e vivente e che glorificano l’uomo. Erano culture Babeliche. Alla base della loro visione della vita c’era lo sforzo di cancellare ogni distinzione tra il Creatore e la creatura. Il sogno di una cultura e civiltà su queste basi ebbe la sua origine nella disobbedienza dell’uomo nel Giardino dell’Eden dove l’uomo scelse di dare ascolto all’affermazione di Satana che, anziché ricevere maledizione e morte dal mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’uomo sarebbe diventato “come Dio, conoscendo (cioè determinando da se) bene e male” (Ge. 3:5). La speranza era di ottenere, non la signoria sotto Dio su tutta la terra, ma una condizione di autonomia e di divinità sia per se stesso che sul mondo. Avrebbe abbassato Dio al proprio livello o alzato se stesso a quello di Dio, ma in entrambi i casi avrebbe sottratto se stesso dalla responsabilità ultima nei confronti di ciò che Dio comanda. Avrebbe potuto accettare pareri da Dio, ma non si sarebbe sottomesso in acritica obbedienza alla parola-legge di Dio. Rifiutò di vedere che da sottomissione o ribellione dipendevano le questioni di vita e di morte.
È stato un futile tentativo. Anziché ridurre Dio, Dio ha ridotto l’uomo a miseria e morte. Eppure, il peccato ha fatto solida presa nel cuore dell’uomo ed egli rimane ostinato nella sua ribellione. Malgrado tutto ciò che frustra i suoi sforzi, egli persiste nel suo adorato desiderio per un mondo in cui egli solo è dio su se stesso e su tutto ciò che fa. È questa l’ambizione che continua ad ispirare gli obbiettivi di civilizzazione dell’uomo dell’antichità lungo tutta la sua storia. La forza di questo desiderio è cresciuta col passare del tempo. Se Egitto e Mesopotamia la possedettero, i Greci rappresentano uno sviluppo ancor più grande del suo concetto essenziale.
Per cominciare, dobbiamo ricordare che proprio al centro di qualsiasi differenza tra la civilizzazione che distingueva Israele — come Dio aveva inteso che fosse — dalle civilizzazioni attorno ad essa era l’irreconciliabile antagonismo tra Dio e gli dèi. Israele avrebbe dovuto comprendere che ogni questione che nasceva tra essa e i suoi vicini si riduceva a questa basilare opposizione. Dio li avvertì che avrebbero dovuto sempre sostenere questa opposizione e mai cercare di annichilirla. Per l’uomo pagano dell’antichità, il proprio sistema di dèi rappresentava il cuore della propria ribellione pattizia contro Dio. Lungo tutti i secoli questa cultura politeistica fu la forma assunta dai suoi ideali concernenti il regno dell’uomo — poiché quest’ultimo era la vera ambizione nascosta dietro alla facciata religiosa politeista. Con questo non si vuole suggerire che i suoi dèi non fossero reali per lui, che fossero mere proiezioni della sua immaginazione. Anzi, è proprio l’opposto. Certamente, parte della ragione per questo fatto è che, nonostante la sua ribellione, l’uomo peccatore era incapace di cancellare completamente il senso della divinità con la quale era stato dotato alla creazione. Rimase vera per lungo tempo malgrado la perversione in cui quel senso della divinità era degenerato. L’uomo era stato creato per dipendere da Dio, e dissolvere quel sentimento di dipendenza non era facile. Inoltre, questa esperienza assumeva spesso i contorni della grave incertezza di fronte ai frequenti disastri nell’ambiente naturale. L’uomo aveva bisogno di spiegazioni persuasive per mettere a riposo le sue paure. Mentre l’uomo voleva essere il proprio dio, c’era troppo nel suo mondo d’esperienze che eludeva il suo controllo. Originariamente l’uomo era stato inteso per vivere un’esistenza ordinata sotto Dio, ma sotto condizioni di maledizione il disordine prevalse, e la causa di ogni reale ordine gli sembrò un mistero. È questo profondo bisogno religioso di spiegare il principio dell’ordine nel suo mondo e nelle sue esperienze che spiega l’esistenza e la venerazione dei suoi dèi. Senza ordine, tutto sarebbe caos e distruzione e un terrore per l’uomo.
Pure, per quanto possibile, l’uomo voleva i suoi dèi nei propri termini. Di conseguenza, i suoi dèi non erano più grandi dell’ordine che erano responsabili d’organizzare. Potevano essere più forti dell’uomo, ma non erano assoluti. L’uomo poteva chinare la testa davanti a loro in superstiziosa sottomissione, ma i suoi dèi non potevano aspettarsi di avere totale autorità sulla sua vita. Potevano stabilire l’ordine delle cose, ma non potevano esimersi dall’ordine che avevano creato. I suoi dèi erano limitati. La vera brama dell’uomo era di trovare qualche modo in cui il proprio ruolo nella trama delle cose potesse giungere alla stessa indispensabilità di quelli degli dèi.
Questa svolta fu realizzata dai Greci. Snell indica il vero genio che fu la Grecia: “Gli uomini gradualmente riuscirono a privare i loro dèi dei loro poteri sul mondo naturale e ad attribuirlo a se stessi, perché avevano scoperto che la mente umana era essa stessa divina”[3]. Questo passo in avanti verso l’obbiettivo del regno dell’uomo è stato la ragione per l’enorme importanza dei Greci per l’uomo umanistico da allora in poi. Nel mondo antico la questione si dirimeva in una faccenda tra Dio e gli dèi, ma i Greci ebbero successo nel sollevare la questione alle sue più vere proporzioni — quella tra Dio e l’uomo. Sostituendo dio (gli dèi) con l’uomo i Greci avevano finalmente realizzato lo scopo centrale del regno dell’uomo. Non sorprende dunque che l’uomo secolare lodi per questo i Greci come i veri fondatori della civiltà occidentale.
La “mente dell’uomo” — la “ragione” nell’uomo — gradualmente acquisì, sicuramente lottò per acquisire, il rango di “arrangiatore dell’ordine” nella prospettiva culturale Greca, un privilegio precedentemente riservato agli dèi. Il corollario di questa rivelazione fu la supposta originale scoperta del reame della Natura e delle “cause naturali” per mezzo di “leggi definite e comprensibili”[4]. Non era necessario fare ricorso agli dèi per trovare la ragione per le cose; l’uomo doveva solo cercare al proprio interno, e lì si sarebbe reso conto che tutto ciò che gli era necessario per comprendere il suo mondo si trovava dentro se stesso. I Greci, è stato affermato, furono i primi a trovare la chiave per liberare l’uomo dalla sua irrazionale dipendenza da dèi sconosciuti e inconoscibili ai quali offriva devozione per pura ignoranza e paura determinata dalla superstizione. Ancora Snell: “ … siamo giunti ad una verità piuttosto generale: l’uomo primitivo sente di essere legato agli dèi, egli non si è ancora sollevato ad una consapevolezza della propria libertà. I Greci furono i primi a sfondare questa barriera, e in questo modo fondarono la nostra civiltà occidentale”[5].
Questa libertà, comunque, non era semplicemente dagli dèi dell’uomo antico in generale, ma da qualsiasi Divinità in assoluto. In ultima analisi, fu la dichiarazione dell’uomo di essere libero dal Dio vero e vivente. Significò la libertà di essere il proprio dio. Svuotando il mondo dagli dèi, lo riempirono con l’Uomo. Questa audace dichiarazione d’indipendenza li condusse alla convinzione che l’uomo sia responsabile di creare l’Uomo ideale — cioè, di modellare l’uomo e la società in accordo con una visione dell’Uomo quale standard perfetto e obbiettivo finale di tutto ciò che sia buono e giusto. Con questo pensiero in testa, Jaeger non si sta sbagliano quando osserva con approvazione che “l’uomo rivelato nell’opera dei grandi Greci è un uomo politico”[6]. L’ideale di civilizzazione dei Greci era statalista in natura e nello scopo. Lo stato costituiva il bene supremo per l’uomo e tutti i suoi sforzi culturali dovevano servire quello scopo. Sapienza per i Greci significava che tutti gli uomini dovrebbero far avanzare gl’interessi dello stato quale perfetto obbiettivo di una vita giustamente ordinata. Fuori e al di la di questo l’uomo non poteva sperare qualcosa di meglio. Sorprende che i Greci possano aver significato così tanto per l’uomo umanistico tanto allora che oggi?
La cultura e la civiltà greca formavano un insieme unificato che prese come proprio punto di partenza le idee espresse dal loro poeta più famoso, Omero. Esprimendo un luogo comune nel campo degli studi classici, H. I. Marrou osservò: “È con Omero che deve cominciare la nostra storia. Da lui la tradizione culturale greca si erge in una linea ininterrotta …”[7]. Ma più che essere semplicemente il punto di partenza, Omero rappresenta il fondamento morale su cui i Greci universalmente cercarono di costruire il loro ideale di civiltà. Pensatori successivi possono cercare di modificare il suo punto di vista centrale, ma nessuno mai lo contraddice. Egli è il padre fondatore della cultura greca. L’iniziale concetto della vita centrato sull’uomo di Omero può essere riconosciuto e seguito attraverso i poeti lirici e i drammaturghi, attraverso i primi filosofi naturali fino al loro esito finale con Platone e Aristotele, di fatto fino proprio alla conclusione delle idee culturali greche negli Stoici e negli Epicurei. Perciò, apprendere correttamente la cultura greca con i suoi obbiettivi umanistici richiede, come minimo, qualche comprensione del contributo fondante di Omero.
L’importanza di Omero risiede principalmente in due aree di pensiero: 1) la sua costituzione degli dèi dell’Olimpo come paradigma culturale per l’agire umano, e 2) la sua elevazione del ruolo dell’ “eroe” a status messianico.
Da una parte, Omero creò una concezione interamente nuova del posto e dell’importanza degli dèi nel totale sistema delle cose. Il loro scopo non era più di spiegare il mistero della causalità e dell’ordine nel reame del naturale, ma in modo più importante essi funzionano da base dell’ordine per la società umana e per le finalità umane. I suoi dèi sono dèi della cultura, non puramente dèi della natura. Le loro azioni e il loro comportamento erano intesi fornire all’uomo modelli per la creazione della polis — la città dell’uomo. Mentre Omero mantenne l’essenziale prospettiva politeistica dell’uomo antico in generale, ciò nonostante egli non credeva più che gli uomini esistessero per essere schiavi degli dèi. L’uomo ha grandissima autonomia davanti agli dèi, più di quanto si aspettassero gli antichi. Con Omero: “L’azione umana (nella narrativa epica) non serve una causa più alta, divina, ma anzi l’opposto: la storia degli dèi contiene solo quanto è necessario per rendere intelligibili gli avvenimenti sulla terra”[8]. Fino ad un certo punto, l’uomo si sente ancora di dipendere dagli dèi, ma nell’insieme la relazione è diventata più quella dell’ammirazione e dell’emulazione che di sottomissione e degradazione. Per mezzo di Omero l’uomo imparò a considerare l’ordine degli dèi con nobile imitazione anziché con ossequiosa servilità. I suoi dèi erano venerati non perché eticamente superiori all’uomo — infatti, in quell’ambito l’uomo era eguale a loro — ma perché essi erano I Più Forti che potevano assicurare favori e assistere l’uomo nei suoi desideri per se stesso e per la sua cultura. A loro volta, gli dèi non si aspettavano che l’uomo fosse buono, solo che rendesse loro ciò che loro spettava [9]. Gli dèi dell’Olimpo erano concepiti come a sollevare l’uomo al di sopra dell’irrazionalismo e del selvaggio barbarismo, abilitandolo a sentirsi a suo agio nel mondo. “Nei suoi poemi Omero fa comparire i suoi dèi in maniera tale da non costringere l’uomo giù nella polvere; al contrario, quando un dio si associa con l’uomo, lo eleva, lo rende libero, forte, coraggioso, sicuro di se stesso”[10]. In Omero si ha la sensazione che gli dèi siano quasi i migliori amici dell’uomo. Essi di sicuro ispirarono nell’uomo dignità e orgoglio; gli dèi conducevano un’esistenza robusta, e l’uomo bramava ardentemente conformarsi al loro modello.
Ma per quanto l’uomo omerico amasse la società aristocratica che godeva con i suoi dèi, non poteva mai dimenticare il grande divario che lo separava da essi. Gli dèi erano immortali, ma l’uomo deve sicuramente morire. Questo non era qualcosa deciso dagli dèi, ma era semplicemente come stavano le cose. Infatti, uomini e dèi erano pensati come scaturire dallo stesso ceppo d’esistenza, ma il destino fece gli uni immortali, gli altri mortali. Pure, l’uomo ha da sempre voluto cancellare questa distinzione tra se e gli dèi e pervenire egli stesso alla divinità. Che fosse possibile colmare l’abisso che li divideva? Il contributo di Omero su questo problema si trova nel secondo ambito della sua importanza — la concezione dell’eroe- salvatore.
Omero, ovviamente, non inventò il concetto dell’eroe, era un’idea che risaliva parecchio all’indietro nel passato dell’uomo. Ciò che fece fu l’offrire il culto dell’eroe come un principio morale attuabile la cui pratica offriva una misura d’immortalità ai mortali altrimenti sfortunati. Benché possa sembrare strano chiamare i suoi cavallereschi guerrieri salvatori-eroi, visto che molti di essi perirono nelle pianure di Troia — i due più grandi, Achille ed Ettore, in particolare ciò che conquistarono —fama e gloria — manifesta valore imperituro. Nonostante siano morti, il loro nobile esempio continua a vivere per essere emulato dalle generazioni successive. Essi offrirono la speranza di una realizzazione duratura, un tipo di salvezza per obbiettivi umani. Seguendo Omero, i Greci credettero che facendo cose eroiche un uomo poteva ottenere divinità ed immortalità.
Gli dèi omerici erano immortali ma limitati. Nelle loro attività erano vincolati dal fato (moira) quanto l’uomo. Dire che il fato governa le vicende degli dèi quanto quelle degli uomini è lo stesso che dire che il caso è il fattore ultimo che decide ogni questione. Nella società classica gli dèi dell’Olimpo rappresentano sempre meno la speranza di vittoria sul caso e la necessità, e sempre più i greci pongono la loro fiducia nell’ideale eroico — l’ideale della virtù umana (arete)[11]. Omero pose l’obbiettivo dell’eroismo al centro della visione morale di un’intera civiltà. Essa rappresenta il desiderio dell’uomo d’esaltare la propria eccellenza. È un ideale che gradualmente soppianta il ruolo degli dèi. Per Omero il modello dell’eroe fu il guerriero cavalleresco, ma col crescere della filosofia la vita eroica divenne quella del filosofo e del pensatore, il precursore dell’uomo “scientifico” che figurerà tanto bene nell’epoca moderna. L’apice di quest’idea fu raggiunto col concetto di Platone del “filosofo-re”, l’uomo più importante tra gli uomini, la suprema autorità morale per la vita dell’uomo in ogni aspetto. Egli rappresenta l’ “esperto” a cui dovrebbe essere dato ogni potere e responsabilità per la realizzazione delle aspirazioni sociali umane. Per mezzo di quest’idea dell’eroe nel pensiero greco il regno dell’uomo ha raggiunto un nuovo livello nella sua lotta contro il regno di Dio.
Gl’ideali greci di civilizzazione — quelli Omerici in particolare — si evolvettero nella loro forma finale nel periodo susseguente alla morte di Alessandro. Questo, il periodo Ellenistico, fu il tempo in cui i valori Greci erano ovunque predominanti. Era anche il tempo in cui gli Stoici e gli Epicurei, quei finali eredi di Omero, avevano il predominio tra gli eruditi e le élite culturali. In questa fase, gli dèi erano retrocessi ben sullo sfondo, e al loro posto emerse il “culto della sorte”. Gli antichi, e Omero avevano cercato di delimitare gli dèi per mezzo del fato. Ora, la sorte o fortuna (tyche, fortuna) erano diventate preminenti. Non era più sentito alcun bisogno per gli dèi a spiegare il principio dell’ordine nel mondo dell’uomo. Per gli Stoici specialmente. “Il fato era la potenza che manteneva l’ordine nel mondo”[12]. Qui incontriamo gl’inizi del concetto di “legge naturale” che ha un peso così notevole nelle decisioni morali dell’uomo umanista in occidente. Si dimostrerà d’essere l’arma principale nella guerra contro Dio e contro Cristo.
Dagli Stoici emerse una visione morale della vita fondata su un universo completamente impersonale. Ma, non tutto era perduto; rimaneva la virtù umana (virtus), la sola speranza che l’uomo possedesse per vivere sapientemente in faccia al destino capriccioso. Se il fato fosse l’arbitro finale del mondo, il traguardo della vita sarebbe scegliere di vivere venendo a termini con esso. Lo scopo più alto dell’uomo dovrebbe essere il raggiungimento dell’atarxia, “pace mentale” in modo da non essere continuamente avversati da ciò che il fato dispensa. Il mezzo per raggiungere tale obbiettivo era apathiea — la totale assenza di tutti i sentimenti e delle sconvolgenti passioni che scaturiscono dal corpo e dalle cose materiali. Era il dovere di un uomo privarsi di tutto ciò che agitava i suoi sensi e di darsi solamente alle cose della mente. Qui solamente poteva trovare salvezza e felicità. La dottrina Stoica formò la base della “religione della cultura”, così tanto caratteristica dell’uomo ellenistico. Essere “sapiente” significava immortalità e divinità.
Possiamo ben comprendere perché Paolo si riferisse ai Greci come quelli che “cercano sapienza”. La totalità degl’ideali greci, da Omero agli Stoici, rappresentò il tentativo dell’uomo di auto-salvarsi e la glorificazione dell’uomo. Senza dubbio avrebbero considerato la croce di Cristo come follia, perché nella loro vantata opinione non sosteneva l’esaltazione dell’uomo ma la sua umiliazione ad una volgare barbarica superstizione. L’avrebbero considerata denigrazione dell’uomo e l’indebolimento di qualsiasi tentativo di civilizzazione.
Il messaggio di Ecclesiaste è completamente lontano da qualsiasi nozione di fatalismo Stoico. Il suo interesse centrale è persistentemente d’enfatizzare che non è il fato ma il Dio del patto a regolare gli affari degli uomini. Gli uomini che si sono sforzati di spiegare il principio dell’ordine e lo scopo come prodotti del caso non hanno imparato a fare i conti col Dio nel quale solamente l’uomo può aspettarsi di trovare il fondamento della sua vita, sia ora che per l’eternità.
Note:
1 Così, W.C.K. Guthrie: The Greeks and Their Gods, Boston Beacon press, 1955, p. xii.
2 Bruno Snell: The Discovery of the Mind, New York; Dover Pubblication, Inc. 1982, p.vi.
3 Snell: The Discovery of the Mind, p. 128.
4 Werner Jaeger: Paideia: The Ideals of Greek Culture, Vol. I, NewYork; Oxford University Press, 1945, p. xx.
5 Snell: The Discovery of the Mind, p. 31-32. 6 Jaeger: Paideia, p.xxv.
7 H. I. Marrou: A History of Education in Antiquity, trad. di George Lamb; New York: A Mentor Book, 1964, p. 21.
8 Snell: The Discovery of the Mind, p. 37.
9 C.f., Walter Bunkert: Greek Religion, trad. John Raffan, Cambridge: Harvard University Press, 1985.
10 Snell: The Discovery of the Mind. p. 32.
11 Charles Norris Cochrane: Christianity and Classical Culture, New York: Oxford University Press; 1989, p. 48.
12 G.J. Withow: Time in History, New York: Oxford University Press, 1989, p. 48.