Capitolo XVI 

Il Giudizio Finale

 

Il Credo degli Apostoli, dopo aver dichiarato la divina sessione, recita riguardo a Cristo che “Di là verrà a giudicare i vivi ed i morti”. Il Credo di Nicea afferma: “E verrà di nuovo con gloria per giudicare i vivi e i morti; e il suo regno non avrà mai fine”. Il verdetto sulla storia proverrà da fuori la storia, proprio perché la determinazione della storia viene dall’eternità, dal Dio trino, infatti, con la parole di Stauffer: “Nulla può avvenire senza che lo voglia Dio, che vuole che accada e che lo vuole in anticipo” [1]. Come ha scritto Stauffer, che non è affatto ortodosso:

Questo non è fatalismo. Il fatalista vede tutto ciò che accade nel mondo e la sua storia soggetto all’oppressiva coercizione di un fato impersonale, mentre gli scrittori biblici sanno della volontà di guida del Dio personale che ascolta e risponde alle nostre preghiere. Questo non è determinismo. Il determinista concepisce la decisione umana come affetta da fattori sub-personali e casuali che sono esterni alla volontà. Questo riduce la volontà ad un’apparenza (come fra gli Esseni, secondo Giuseppe Flavio, Ant. 13. 172). Invece le scritture hanno concepito la nostra volontà condizionata da una volontà di tipo supra- personale, dalla volontà di Dio, che decide la volontà dell’uomo e per mezzo della sua volontà per primo muove l’uomo verso la sua specifica realtà [2].

Inoltre, come ha notato Stauffer, “Cristo venne una volta sulla terra come il rex triunphaus, il deus salvator revelatus” [3]. La storia è una successione di giudizi, nei quali Dio viene in nuvole di giudizio e tutte queste crisi e giudizi sono per lo scuotimento delle nazioni, per distruggere i regni reprobi dell’uomo e per stabilire dopo vagliatura i credenti di Cristo nel suo regno. Come Dio ha dichiarato per mezzo di Ezechiele: “Devastazione, devastazione, io la compirò. Ed essa non sarà più restaurata, finché non verrà colui a cui appartiene il giudizio e al quale io la darò” (Ez. 21:27). L’obiettivo di questa devastazione secondo san Paolo è “la rimozione delle cose scosse, come di cose fatte, perché sussistano quelle che non sono scosse” (Eb.12:27). I giudizi successivi hanno come obiettivo la rimozione per distruzione “delle cose che sono fatte” cioè degli ordini umanisti ed apostati della storia, così che nel regno di Cristo, “sussistano quelle che non sono scosse”. Questi sono tutti giudizi parziali, antesignani del giudizio finale.

L’umanesimo tuttavia non ha lasciato intatta questa dottrina del giudizio. La parabola di Matteo 25:31 e seguenti è stata usata dagli umanisti per convertire il giudizio finale in un trionfo dell’umanesimo! Joachim Jeremias ne porta un notevole esempio. Per Jeremias, la parabola della separazione delle pecore dai capri dà il criterio con il quale i pagani verranno giudicati. La parabola in realtà riguarda il giudizio della chiesa professante. Jeremias invece lo vede come un giudizio, non del gregge del Pastore, ma di un altro gregge! Ma Jeremias si contraddice quando afferma che “separare” è “un termine tecnico del pastore” per dividere i capri dalle pecore in Palestina alla fine del giorno. In altre parole, è il gregge del pastore, la Chiesa di Cristo, ad essere giudicata. Ma Jeremias lo vede ancora come un giudizio dei pagani:

Forse, a fronte di quanto detto in Matteo 10:32 e seguenti, dove Cristo dice che intercederà nel giudizio finale per quelli dei suoi discepoli che lo avranno confessato di fronte agli uomini, si potrebbe chiedere: Ma allora, con quale criterio saranno giudicati i pagani che non ti hanno mai conosciuto? Sono essi perduti? (perché questa è l’opinione corrente). Gesù replica, in effetti: I pagani mi hanno incontrato nei miei fratelli, perché i bisognosi sono miei fratelli; colui che ha mostrato loro amore, lo ha mostrato a me, il salvatore dei poveri. Quindi, nel giudizio finale, ai pagani si chiederanno gli atti d’amore che mi avranno mostrato nella forma dell’afflitto, e verrà garantito loro la grazia di un posto nel regno, se hanno compiuto la legge del Messia (Gm. 2:8), il comandamento dell’amore. Perciò la giustificazione è loro disponibile sulla base dell’amore, visto che pure per loro il riscatto è stato pagato (Mr. 10:45) [4].

Prima di tutto, l’idea che i non credenti abbiano qualche diritto alla salvezza non è mai venuta a nessuno nell’era del Nuovo Testamento, e non è mai una preoccupazione né di Cristo, né degli Apostoli. Secondo, Jeremias fa di un fatto totalmente umanistico la base della salvezza. È l’uomo il criterio, non Cristo. La fede è verso l’uomo, non verso Dio. Terzo, alla giustificazione viene data una base non cristiana, un amore umanistico, piuttosto che la grazia di Dio. Perciò non solo è l’uomo ad essere oggetto di fede e interesse religioso, ma egli è anche l’origine di grazia e salvezza. Quarto, come è stato notato, Jeremias sceglie di trascurare il fatto che il pastore sta giudicando e dividendo il proprio gregge, la chiesa, non i pagani all’esterno. Si tratta della separazione dei non credenti nella chiesa dalla chiesa e il fondamento di questo è il pastore stesso.

Quinto, la parabola è parte di un discorso sul giudizio della chiesa, di veri cristiani contrapposti a quelli di nome. Matteo 24:42-51 conclude la dichiarazione sulla caduta di Gerusalemme e quindi della fine dei tempi, ambedue istanze di giudizio, avvertendo la chiesa di prepararsi per il giudizio in termini di autentica fede ed obbedienza. Tre parabole quindi illustrano la distinzione tra veri credenti e membri nominali di chiesa, per prima, la parabola delle vergini avvedute e stolte; seconda la parabola dei talenti cioè servi proficui e non proficui; terza, la separazione delle pecore e dei capri (Mt. 25).

In questa ultima parabola (Mt. 25:31 s.) si da per presupposta una confessione di fede sia da pecore che da capri; ambedue sono seguaci del Pastore, ambedue professano di essere suo gregge. La questione è di divisione in termini di realtà della loro fede professata. La vera fede è fede che salva: anche un bicchiere d’acqua fredda nel suo nome ha la sua ricompensa (Mr. 9:41). La testimonianza della fede richiesta dal Pastore è confessionale, confessionale nel fatto che manifesta fede e la confessa sotto tensione. Questa confessione ha un duplice aspetto: primo, i frutti manifestano l’albero e le opere confessano la fede; secondo la chiesa è stata avvertita che la persecuzione sarà la sua parte (Mt. 5:10-12; Lu. 6:22-23; 1Pi. 4:13, 14; 2 Co. 4:17; 2 Ti. 2:12, ecc.), ma che il Signore sarà con lei nelle sue prove (Mt. 10:19, 20). La visita a cristiani imprigionati spesso richiedeva coraggio, perché significava identificazione come credente e, nelle persecuzioni della chiesa primitiva, l’attenzione delle istituzioni era seria. San Paolo parla con affetto di Onesiforo che “non si è vergognato delle mie catene” (2 Ti. 1:16) e questa parola viene da un’epoca precedente la persecuzione dei cristiani.

San Paolo parla di “discernere il corpo del Signore” in due modi: primo, nel conoscere il significato dei simboli della comunione, comprendendo e credendo nella sua espiazione e sua resurrezione e secondo, nell’evitare “divisioni” con cui i fratelli cristiani non venivano riconosciuti e accettati a prendere parte alla “Cena del Signore” (1 Co. 11:17-34). Non erano perciò riconosciuti come membri in Gesù Cristo e il corpo del Signore non si discerneva.

In questa parabola di giudizio, i “capri” non hanno compreso il corpo del Signore perché non sono veri membri in Gesù Cristo; essi si sono rifiutati di conoscerlo nelle persone dei suoi santi oppressi e sofferenti, perché sono i “maledetti” che non lo conoscono. Non conoscendo Cristo, come possono avere comunione con i suoi membri? Rifiutando di conoscere Cristo nella sua gloriosa persona, come possono riconoscerlo nei suoi santi oppressi e sofferenti? (Mt. 25:41-46) L’audacia di questi peccatori è notevole: essi osano contraddire Cristo nel giorno del giudizio; i santi in umiltà non riconoscono il pieno scopo della loro fede; i peccatori rifiutano il significato del loro peccato.

L’interpretazione di Jeremias non è solo un’interpretazione umanistica e aliena, forzata sulla scrittura, ma è lo stesso commento di Jeremias a smentirla.

Si deve aggiungere che tali interpreti non credono nella realtà del giudizio biblico. Per essi i Credi e le Scritture sono semplicemente miti e simboli. Perciò George Hedley “difende” i credi come “tradizione venerabile” che hanno a che fare “Non con fatti, ma con valori” e questi valori “costituiscono l’essenza dei credi”. È condannato Il “letteralismo puerile” perché crede i credi letteralmente e il “letteralismo adolescente” perché nega i credi, perché “è solo nel mito e nel simbolo che l’uomo si avvicina ad esprimere l’inesprimibile. È nella poesia degli antichi credi che la fede eterna della chiesa risuona ancora nel mondo” [5].

Ma sarebbe un grave errore dire che questi umanisti non credono nel giudizio, né in un paradiso o in un inferno; essi di fatto credono e in modo veramente letterale, al giudizio e al paradiso e all’inferno, ma non a quelli biblici. Siccome sono stati stabiliti da Dio come aspetti inevitabili della storia umana, giudizio, paradiso e inferno sono categorie inevitabili del pensiero. Se un uomo nega la versione biblica, è solo per crearne una umanistica.

In un passaggio veramente importante Karl Marx ha detto:

Perché una rivoluzione popolare e l’emancipazione di una classe particolare della società civile coincidano, perché una classe rappresenti l’intera società un’altra deve concentrare in se stessa tutti i mali della società, incarnare e rappresentare una limitazione ed un ostacolo generale. Una sfera sociale particolare deve essere considerata come il crimine notorio dell’intera società, in modo che l’emancipazione da questa sfera appaia come un’emancipazione generale. Perché una classe possa essere la classe liberatrice per eccellenza è necessario che un’altra sia manifestamente la classe degli oppressori [6].

Per Marx, era necessario, primo, che una classe si identifichi come la “classe liberatrice” come salvatrice dell’uomo. Secondo, per fare questo, “è necessario” identificare un’altra classe come “la classe degli oppressori” come il diavolo. Terzo, Marx sentiva necessario, come rivelano molti scritti, che la rivoluzione, culminante nel giudizio, fosse lanciata contro la demoniaca classe degli oppressori. La rivoluzione mondiale sarebbe culminata nel giudizio finale. Quarto, ci sarebbe un inferno per gli oppressori e l’Unione Sovietica ha [avuto] i suoi schiavistici campi di lavoro e un paradiso, l’utopia comunista o paradiso sulla terra, per i credenti.

Ma trasferire il giudizio finale, il paradiso e l’inferno dall’ordine eterno al tempo, significa assolutizzare la storia e innalzare l’uomo a dio. Ciò significa la distruzione della libertà, perché la storia cessa di essere il regno della libertà e prova, ma diventa il luogo del verdetto finale. Avendo fatto calare nel tempo il giudizio finale, l’umanista non può permettere la libertà, perché la libertà è ostile al definitivo; la libertà presuppone la prova, l’errore e la possibilità di seria ostinazione quando e dove l’uomo è peccatore e imperfetto. La storia non può tollerare la prova e l’errore e insistere sulla definitività e sulla fine delle prove e degli errori. Le utopie umanistiche sono tutte prigioni, perché insistono su una finalità che l’uomo non possiede. Coerentemente le utopie socialiste richiedono la “rieducazione” dell’uomo nel mondo post rivoluzionario, nell’era successiva al giudizio. La “nuova era” è il nuovo paradiso sulla terra: come può l’uomo perverso dimorarci senza essere passato attraverso la “giustizia rivoluzionaria” cioè una continuazione o estensione del giudizio finale? La conseguenza è una tirannia perpetua, visto che l’uomo immorale dissidente da Dio viene costretto dentro la giacca stretta del paradiso socialista.

Lo sviluppo viene quindi negato sia all’uomo che alla storia. L’auto consapevolezza epistemologica porta ad uno sviluppo parallelo di frumento e zizzania, di santi e peccatori e Dio non permette al definitivo di invadere la storia fino alla fine della stessa (Mt. 13:30).

L’umanista, tuttavia crede così appassionatamente nel giudizio finale che insiste nel portarlo nella storia prima che la storia possa sviluppare le sue implicazioni. Dewey invocò la “Grande Comunità”, i Fabiani la loro “Grande Società” e qualsiasi altra versione e setta di umanisti ha la sua apocalisse e giudizio finale. Gli umanisti falliscono nell’introdurre il paradiso, ma fondano con successo l’inferno sulla terra.

Ma la storia si rifiuta di terminare nell’ordine umano, perché scorre sul tempo di Dio e non secondo i miti umani. Di risulta, gli ordini finali che l’uomo ha costruito hanno inevitabilmente il carattere della decadenza e l’ordine che afferma essere quello definitivo garantisce la propria distruzione quando il movimento della storia lo pesta sotto i piedi nella sua inesorabile marcia verso l’auto consapevolezza

epistemologica. Gli ordini “finali” si presentano in pompa e se ne vanno con ignominia e distruzione, ma Gesù Cristo “verrà di nuovo, con gloria, per giudicare i vivi e i morti; il suo regno non avrà fine”.

Note:

1 Ethelbert Stauffer: The Testament Theology (New York: Macmillan, 1965), 52.
2 Ibid., 266, n.100, n.101.
3 Ibid., 216.
4 Joachim Jeremias, rediscovering the Parables (New York: Charles Scribner’s Sons, 1966), 163.
5 George Hedley, “Reflections: on Criticizing the Creeds”. Oakland, California, Tribune, Sabato 22 aprile 1967, 24-B.
6 Karl Marx, “Contribution to the Critique of Hegel’s Philosophy of Right,” in Early Writings, traduzione d T.B. Bottomore, (New York: McGraw-Hill, 1963), 56.


Altri Libri che potrebbero interessarti