2. Van Til e Amsterdam
Fu con tristezza che Paolo osservò. “Non tutti quelli che sono d’Israele sono Israele” (Ro. 9:6). Con tristezza simile bisogna osservare che non sono tutti Amsterdam quelli che sono di Amsterdam.
Cosa dunque rappresenta Amsterdam? Da alcuni anni il calvinismo era stato in costante declino; la sua sconfitta era ancor più significativa per il fatto che il calibro intellettuale di studiosi presbiteriani e riformati era chiaramente eccezionale. La chiesa in generale, però, rigettava sempre più il Calvinismo, e l’apologetica di questi studiosi aveva un impatto e un uditorio in declino. In America, per esempio, la preminenza intellettuale degli studiosi calvinisti di Princeton era ovvia e la sua grandezza fino al 1929 non può essere negata. Ma quella tradizione, così riccamente apprezzata da Van Til, aveva tuttavia come proprio assunto la convinzione che l’uomo naturale fosse capace di due cose:
Dietro a questo assunto risiedevano due presupposti mortali: primo, l’autonomia dell’uomo naturale che poteva agire da giudice sulla realtà e, secondo, l’imparzialità dell’uomo naturale dal quale ci si aspettava che valutasse con onestà un’interpretazione contro cui era in guerra. Calvino aveva enfatizzato la perversità del ragionamento dell’uomo naturale e la sua maligna parzialità; il calvinismo non poteva produrre un’adeguata apologetica con i presupposti dell’uomo naturale. Aspettarsi che l’uomo, il trasgressore del patto, sia imparziale nei confronti della fattualità è come aspettarsi che un ladro sieda imparziale come giudice e giuria su se stesso. E contro questo approccio Abraham Kuyper si ribellò perché esso assumeva la validità di due principi mutuamente esclusivi: l’autonomia dell’uomo naturale e la sovranità del Dio autonomo. Kuyper si propose dunque di ripulire l’apologetica e la filosofia cristiana di questi due valori ultimi mutuamente esclusivi e di stabilire il pensiero cristiano sul fermo fondamento della trinità ontologica. Lo fece ad un grado sorprendente e rivoluzionario richiamando il calvinismo ai suoi presupposti biblici e alle premesse di Calvino. Che su vari punti siano rimaste delle incoerenze in Kuyper non sorprende, ma l’indiscutibile direzione di Kuyper è chiaramente d’eliminare la contraddizione. A queste incoerenze, tuttavia, si sono appellati sostenitori della vecchia apologetica come Ridderbos e Masselink, a sostegno della propria posizione, mentre in Bavink abbiamo un ulteriore enfasi e sviluppo della posizione di Kuyper.
Malgrado un’aspra opposizione, la prospettiva di Amsterdam è fiorita ed ha oggi le sue figure europee principali in D. H. Th. Vollenhoven e H. Dooyeweerd, ambedue professori all’Università Libera di Amsterdam, e in America, Van Til. L’impatto di questa scuola è stato più esteso fuori che dentro i circoli di chiese e istituti, e Dooyeweerd può parlare del “sorgere di in circolo, benché ancora sia modesto, di aderenti scientifici, ciascuno dei quali si adopera nel proprio dipartimento per rendere fruttifera la filosofia appena sviluppata” [2].
Non è qui nostra preoccupazione delineare le varie sfaccettature di pensiero in questi uomini ma indicare il loro comune sforzo di condurre il pensiero umano ad auto-consapevolezza epistemologica e di mettere a nudo i presupposti religiosi di ogni pensiero. Sono calvinisti e considerano il calvinismo essere il cristianesimo che dà piena prova di sé come pienamente auto-coerente e verace verso la sua fede biblica. K. J. Popma sta sviluppando la posizione di Amsterdam nella storia della filosofia della storia, H. Van Rissen in sociologia e altri in altri campi. Van Til, in filosofia della religione e in apologetica ha sviluppato gli stessi principi. Il suo sillabo sulle Metafisiche dell’Apologetica (The Metaphysics of Apologetics) fu scritto prima della pubblicazione di Vollenhoven su La necessità di una Logica o Medodologia Cristiana (The Necessity of a Christian Logic or Methodology), ma nel complesso Van Til è stato più lento a pubblicare degli uomini di Amsterdam. Il suo relativo isolamento in America, e il pesante fardello dell’insegnamento e del tenere conferenze, insieme alla sua insistenza che siano fatte estese ricerche di studi contemporanei e passati su ciascun campo, hanno limitato la sua produzione scritta che bisogna sperare diventi adesso più frequente.
Non c’è stato tentativo di sfidare la premessa basilare di questa scuola di pensiero, ovvero che non possono esistere due valori ultimi mutuamente esclusivi. L’attacco comune a questa scuola, come nella critica che Hackett fa di Van Til e di ogni “presupposizionalismo metafisico”, è un’insistenza che esista un terreno comune tra i due valori ultimi. Hackett rimarca che i non-credenti, come i cristiani: “apprendono la loro esperienza come razionale: ciò che mancano di fare è sviluppare questo apprendimento alla sua spiegazione più alta nell’affermazione della realtà di Dio”. C’è “una struttura epistemologica basilare comune a tutte le menti in quanto razionale e con un comune mondo di fatti” [3]. Per Hackett questo è un migliore punto di partenza di quello del presupposizionalismo perché provvede un terreno neutrale. “La prima e più basilare asserzione del presupposizionalismo è che si debba partire con l’assunto che il Dio che ha parlato nella Scrittura è il vero Dio”. Un “tale approccio cala una persona decisamente in un’atmosfera estremamente calvinista” apparentemente un ambiente poco desiderabile se paragonato al terreno comune con l’uomo naturale [4]. Tutti gli uomini hanno in comune la ragione e gli stessi fatti con cui trattare; il loro problema è l’incoerenza piuttosto che la radicale ostilità. Si sostiene che, a meno che il mondo sia quello che l’uomo naturale dice che è, non si possa ragionare. Hackett vuole mantenere la libertà e la razionalità dell’uomo in un vuoto, come se potessero esistere da sé e dare testimonianza indipendente alla fattualità e alla natura delle cose. C’è un tenace rifiuto di affrontare il fatto che si presuppongono due valori ultimi mutuamente esclusivi.
Le nude e sterili riaffermazioni della posizione tradizionale arminiana sono tanto comuni quanto inefficaci. Si sostiene che i suoi assiomi di autonomia e comune razionalità siano universalmente vincolanti e al di sopra di ogni critica. Ma, come ha osservato Dooyeweerd:
… non è ammissibile anche trattare la cosiddetta autonomia del pensiero filosofico come un assioma teoretico che possa sfuggire dalla critica trascendentale. Quest’ultima non richiede infatti che qualcuno abbandoni questa “autonomia” come un “postulato”. Il suo unico requisito è che tale “postulato” sia esaminato nella sua vera natura e che non passi per un criterio di carattere scientifico [5].
Gli assiomi dell’uomo naturale sono pregiudizi basati su — e “governati da — un basilare-pregiudizio, che risulta non avere affatto alcun carattere filosofico e che dovrebbe essere smascherato da una reale critica trascendentale del pensiero filosofico [6]. La resistenza a questo esame e l’indisponibilità ad affrontare la questione dei presupposti non sorprende: l’uomo resiste le implicazioni della sua posizione e le conseguenze dell’auto-consapevolezza epistemologica. Ma non le può evadere.
Note:
1 C. Van Til: The Defense of the Faith, p. 358.
2 H. Dooyeweerd: A New Critique of Theoretical Thought, (Presbyterian and Reformed) vol. I, p.vii.
3 S. C. Hackett: The Resurrection of Theism; Moody Press, p. 167.
4 Ibid., pp. 158, 174.
5 H. Dooyeweerd: Trascendental Problems of Phylosophic Thought, pp. 22 s.
6 Ibid., p. 20 s.