12. Il Dio autonomo (self-contained)
In California una donna invitò la sua nuova vicina ad attendere la chiesa presbiteriana del rione ma incontrò una reazione esplosiva e irosa. “ Odio le chiese e odio la religione!” è il nocciolo della risposta della donna invitata; ella non sapeva che farsene di qualsiasi chiesa né di qualsiasi cosa connessa con le chiese; non voleva partecipare e non partecipò. “E per di più”, aggiunse: “Io sono episcopale”. Se non altro, questa donna dimostrò un senso di tradizione fin troppo comune nella scena religiosa corrente. La gente va in chiesa, non in termini di fede e vita, ma in termini di gusto e tradizione. Come risultato, le vecchie forme sono largamente svuotate di significato. Nei termini di una composizione teologica, la Chiesa Unitariana comanderebbe un seguito talmente ampio da guadagnarsi la posizione di chiesa nazionale degli Stati Uniti. In termini di effettivo collegio elettorale è insignificante e sufficientemente in cattivo odore da far si che un recente candidato alla presidenza ha pensato fosse più saggio aggregarsi, come il suo concorrente, a una chiesa presbiteriana per un odore di santità più commendabile. Essere un unitariano implica una rottura con la tradizione in termini di credenze e le credenze, che siano vestite di unitarismo o di fondamentalismo, sono considerate di cattivo gusto.
Il tradizionalismo è prevalente anche in circoli apparentemente fondamentalisti e ortodossi. Molti aderenti a gruppi luterani o riformati di militante ortodossia rimangono in quei circoli più per ragioni di razza che di teologia, e per alcuni, legami scandinavi, tedeschi od olandesi legano più stretto dei credi. Perciò la trattazione di Van Til della fede riformata è stata per qualcuno doppiamente offensiva per il fatto di aver sfidato non solo la validità teologica della loro professione ma ha anche per messo a nudo il loro tradizionalismo. Spesso questo tradizionalismo avviene in quartieri che sono intensamente e apparentemente fedeli, non completamente consapevoli delle implicazioni della loro propria posizione. Le conseguenze sono spesso più dolorose in queste situazioni.
Un caso angoscioso di questa cecità si può vedere in G. C. Berkouwer, professore di Teologia Sistematica all’Università Libera di Amsterdam. È allucinante scoprire che un così distinto sostenitore della fede riformata tratti così alla leggera la dottrina del Dio autonomo. Secondo Berkouwer:
È effettivamente vero che Van Til spesso parafrasa Barth. Ma la difficoltà sorge dal fatto che in questa parafrasi è presentata un’immagine di “ortodossia” che come io la vedo non quadra per niente con la realtà dell’ortodossia. Nella parafrasi della critica dell’ortodossia di Barth viene rimarcato, tra le altre cose, che Barth oppone l’idea di ortodossia che si attiene a Dio come “Dio in se stesso” e come “Dio autonomo” (una frase che ricorre parecchio in Van Til). Dopo la perifrasi che che non corrisponde alla rappresentazione propria di Barth su quasi tutti i punti, segue questa frase: “al posto di questo schema ortodosso, Barth sostituisce la propria idea …” (The New Modernism, p. 161). In questo modo, per esempio, Van Til fa dire a Barth che le Persone della deità non sono “tre centri di auto-consapevolezza” (p. 162) e da questo poi deduce il modalismo di Barth. Allo stesso modo dice anche che Barth “chiaramente rigetta il credo di Calcedonia con la sua nozione della seconda persona della Trinità ontologica che assume per sé in permanente unione senza confusione una natura umana già esistente” (p. 162). La critica di Barth, come risulta evidente dalla perifrasi in cui spesso non riusciamo a riconoscere Barth, in fondo poggia su una concezione particolare di ortodossia, una concezione caratterizzata dalla nozione del Dio autonomo [1].
È difficile comprendere come sia possibile qualsiasi tipo di ortodossia cristiana senza il concetto del Dio autonomo: le alternative ultime sono panteismo o politeismo. Secondo la Scrittura, Mosè chiese a Dio di rivelargli il suo nome (Es. 3:1-15), il nome equivalendo a identificazione, rivelazione della sua natura, l’essenza del suo essere. Mentre la Scrittura dà a Dio molti titoli, registra un solo nome; i titoli costituiscono il riconoscimento dell’uomo, usualmente in termini di una teofania, di un aspetto particolare del suo essere; il nome Yahweh o Jehovah è l’auto-identificazione di Dio e costituisce la sua rivelazione della sua natura e del suo essere. Dio dichiarò che è: IO SONO COLUI CHE SONO, o COLUI CHE È, il Dio autosufficiente, autonomo, assoluto, sovrano e indipendente. Nel dichiararsi Yahweh, Dio dichiarò espressamente: io non mi spiego, né posso spiegarmi se non in termini del mio proprio essere e della mia auto-sufficienza, IO SONO COLUI CHE SONO, COLUI CHE È. In questo modo il nome di Dio rende chiaro che egli non può essere spiegato facendo riferimento a qualsiasi altra cosa che a se stesso e alla sua assoluta auto-sufficienza, e tutte le altre cose si possono definire solo nei termini della loro relazione a Yahweh, il Dio autonomo. Non solo dobbiamo affermare che l’ortodossia cristiana è impossibile senza “la nozione del Dio autonomo” ma che tutte le cose sono impossibili e inspiegabili senza di lui. Egli non solo è il fondamento dell’ortodossia, ma il Creatore di tutte le cose e il loro solo valido principio d’interpretazione.
Quando Berkouwer accetta perciò la terminologia di Barth in un senso cristiano e accantona “la nozione del Dio autonomo” virtualmente accantona il cristianesimo. Se io dico che il nero è nero e il bianco è bianco e un altro insiste che il nero è bianco e il bianco è nero, non si può dire che siamo d’accordo meramente perché ambedue parliamo la stessa lingua e discutiamo di colori. Il Dio di Barth non è il Dio della Scrittura, e neppure il suo concetto di peccato e di grazia sono quelli della fede cristiana. Contrariamente a Berkouwer, una casa costruita senza fondamenta non diventa una struttura solida incorporandole buona mobilia [2].
Cosa dice Barth di Dio? “Dio da se stesso non è Dio. Potrebbe essere qualcos’altro. Solo il Dio che si rivela è Dio. Il Dio che diventa uomo è Dio” [3].
Il vero della religione è la sua non-storicità [4]. “L’uomo stesso è la vera domanda, e se la risposta debba essere trovata nella domanda, egli deve trovare una risposta in se stesso: deve essere egli la risposta. Egli non implora soluzioni ma la salvezza; non per qualcosa d’umano, ma per Dio, per Dio come suo salvatore dall’umanità” [5]. Il peccato dell’uomo è dunque la sua umanità; e tuttavia è un’impossibilità. Come Berkouwer riconosce, per Barth il peccato è un’impossibilità ontologica. Pertanto, la lotta contro il peccato non è etica ma metafisica; ha proporzioni cosmiche ed è una lotta tra essere creato e essere non-creato” [6]. Per Barth, l’Onnipotente non è Dio ma il Diavolo, Caos e Male, potenza in sé, il caos informe che non si è ancora alzato nella scala dell’essere. Barth dichiara: “Dio e il ‘potere in sé’ si escludono reciprocamente. Dio è l’essenza del possibile; ma ‘il potere in sé’ è l’essenza dell’impossibile”. Dio è definito in termini di Gesù Cristo e la sua trascendenza e immanenza devono essere definiti in termini di Cristo, ovvero, in termini della sua relazione con l’umanità quale essenza della loro potenzialità [7].
Barth non è neppure solo in questo modo di pensare. Per Paul Tillich, Dio è essere-in-sé e il fondamento dell’essere, non una persona ma non meno che personale, al di la di potenzialità e realtà. In questo modo “Dio e l’uomo sono basilarmente reciprocamente correlativi. Non sono altro che aspetti di una Realtà che è, da un lato, puramente contingente ed è, dall’altro lato, forma astratta senza tempo” [8]. Per Joseph Haroutunian: “Dio letteralmente non è né vivente né non-vivente. ‘Il Dio vivente’ è pertanto un’espressione poetica”. La teologia sistematica è un’impossibilità perché limita la libertà di Dio ed è un’illusione. Piuttosto è necessaria la teologia riflessiva. “La teologia riflessiva è essenzialmente tentativa, visto che è costantemente consapevole di complessità e contingenza nel mondo dell’essere e del divenire. È dedita all’osservazione, riflessione, correlazione, definizione, correzione, e ridefinizione, tutte cose che non possono essere fatte senza immaginazione” [9].
La Neo-ortodossia è pertanto ovviamente figlia di Kant e Kierkegaard e di natura dialettica, e il pensiero dialettico governa la sua teologia dall’inizio alla fine e ne fa in effetti un’antropologia. A questo proposito è interessante studiare la lettera di Hans P. Ehrenberg, scritta a Barth durante la seconda guerra mondiale, e rintracciare la loro causa comune. Ehrenberg, l’analogo filosofico di Barth, amico stretto non solo di Barth e Thurneysen ma anche di altri della scuola, esprime il suo pensiero con un linguaggio più accessibile e aperto.
Ma Kant ha prodotto un capolavoro che era in sé uno stupendo conseguimento. Ha obliterato la divisione tra Soggetto e Oggetto, i due concetti fondamentali che fin dai tempi della scuola Eleatica erano considerati essere alla radice di tutto il pensiero, privando ciascuno di assoluta realtà autonoma. Tu sai come lo ha fatto: degradando la Cosa e l’Ego al livello di noumeni, oggetti solo del pensiero. Ha chiamato la Cosa la Cosa-in-sé, ma ne ha contestato l’esistenza ontologica; l’Ego l’ha chiamato l’unità trascendentale di appercezione, ma negò che possedesse qualsiasi realtà metafisica. Lo ha sostituito con un concetto metodologico, la questione della “possibilità dell’esperienza”. In questo modo Kant produsse un modo di pensare “dialettico”. Pensare in modo dialettico significa combinare in uno stesso momento due aspetti della stessa cosa. Farlo fu il conseguimento di Kant. Combinò gli aspetti soggettivo e oggettivo nella possibilità di sperimentare il vero; in questo modo fu salvaguardata la scopribilità della vera esperienza. Kant, però, non andò più in la di così …
… I tipo di pensiero che non doveva più portare il peso della tensione tra soggetto e oggetto, ovvero il pensiero post-kantiano, perse tutto l’auto-controllo; diede sostanza alla richiesta di filosofica dominazione mondiale; fece dell’autonomia di pensiero un dittatore … e l’autorità risiede nell’assoluta auto-consapevolezza che giunge all’apice nel pensatore, nella frase di Fichte: “il Messia del pensiero speculativo”. …
… La sola eccezione è uno che era troppo banale per essere annoverato tra gli anti-idealisti e tra i precursori dell’anti-idealismo di oggi: il materialista Feuerbach, al quale dobbiamo l’immortale frase “l’unione di Io e Tu è Dio”.
Ricordi la mia piccola edizione del suo Futuro della filosofia, da cui è tratta questa frase, alla quale ho scritto una breve introduzione? Di tutte le mie pubblicazioni questa fu l’unica a guadagnare la tua approvazione.
Un mondo di pensiero interamente nuovo è implicito nella frase di Feuerbach. Soggetto e Oggetto come termini filosofici non erano più tenuti in rispetto. Il posto dell’antitesi tra di loro era stato preso da una correlazione dialettica che non era più che ipotetica … E se questa correlazione dialettica fosse più che un fantasma, ovvero una cosa veramente reale? E se l’Oggetto fosse allo stesso tempo un Soggetto, un “Tu” e la sola identità del Soggetto perché è stata creata come oggetto dal Primo-di-tutti-i-Soggetti, perché la sua soggettività dipende dalla sua oggettività? E se non possiamo parlare dell’Oggetto o Cosa nel suo duplice aspetto oggettivo-soggettivo prima che possiamo parlare del “noi” che include insieme ambedue Io e Tu, Soggetto e Oggetto, allora cosa?
Non potremmo estendere questo tipo di pensiero al rame della teologia? … Sì, se Cristo è il principio del “Tu” il fondamento oggettivo di Verità e Vita, cos’è a quel punto la divinità stessa, l’Unità-in-Trinità, se non la declinazione grammaticale del pronome personale — Io, Tu. Noi?” [10].
Ehremberg continua a dire che va più avanti di Barth enfatizzando l’aspetto sociologico, il Noi che soppianta l’Io nella relazione Tu, e nel desiderare di “spezzare il circolo vizioso e stabilire l’autorità della convinzione (belief) dentro la convinzione (belief) stessa. Questa è più che una certezza di tipo papale”. Il suo orologio è veloce, e quello di Barth, lento, “ma il tempo viene che Egli ci farà uno in spirito”.
Nonostante le differenze esistenti tra le varie scuole di Neo-ortodossia, esse sono basilarmente simili nella loro origine esistenzialista e dialettica. L’analisi di Van Til della Neo-ortodossia nel suo studio: The New Modernism, An Appraisal of the Theology of Barth and Brunner, è l’opera definitiva nel suo campo, spesso abusata e calunniata, ma ancora senza risposta [11]. La neo-ortodossia, nel rigettare il Dio autonomo della Scrittura insieme con le Scritture, tende inevitabilmente a far soppiantare la Trinità ontologica dall’uomo autonomo. La salvezza diventa una inevitabile liberazione dall’umanità. Il peccato è metafisico, non etico, e significa che l’uomo è basso nella scala dell’essere, e salvezza significa venire innalzato sulla scala dell’essere, essere salvato dal caos. L’espiazione perciò è attività moralistica che risulta in un metafisico innalzamento sulla scala dell’essere. La salvezza è pertanto eguale a corrispondenza a o partecipazione nell’essere. L’elezione non riguarda persone ma è inclusiva e impersonale. Tutti gli uomini sono avvolti nell’amore o essenza di Cristo. Il Dio “assolutamente altro” di Barth è essenzialmente essere in quanto tale, nel senso greco, e la salvezza è alla fin fine il riassorbimento. La rivelazione stessa è espiazione ed è rivelata in Cristo, nel quale è manifestata per l’uomo la direzione dell’essere. Per esempio, Nels F. S. Ferre ha detto: “L’unicità di Gesù fu nel suo essere l’irreversibile eccezione che tuttavia esemplifica ciò che è più potenziale in noi tutti e nel proposito totale di Dio”. Il commento di Van Til delle implicazioni di quest’affermazione è: “In questo modo la storia è auto- espiante. Dio per mezzo di Cristo è nella storia e fa in modo che quell’amore universale alla fine prevarrà tra tutti gli uomini” [12]. Ciò che abbiamo qui è paganesimo storico in sembianze cristiane.
La situazione è cambiata nel pensiero teologico. Storicamente il Dio autonomo come parla nella Scrittura è stato il punto di partenza in teologia, e i fallimenti dell’uomo sono stati la mancanza di coerenza nello sviluppare le implicazioni della loro fede. La Confessione di Westminster non ha un capitolo sull’uomo, ma dà molto spazio a Dio, al suo decreto e ad altri aspetti del suo proposito e volontà sovrani. Non è dato nessun capitolo all’uomo perché l’uomo, considerato biblicamente, può essere trattato solamente in relazione a Dio e al suo decreto. L’uomo in sé non è mai considerato, ma Dio in sé è il punto di partenza. Nella teologia contemporanea Dio è considerato solo in relazione all’uomo; il pensiero è fatto diventare Cristologico, cioè orientato all’uomo, e perfino uno studioso riformato considera un’aberrazione cominciare con il Dio autonomo.
La Neo-ortodossia, cercando disperatamente di sfuggire al soggettivismo della sua origine, cade nondimeno in una posizione che cerca di evitare e ha solo un Dio sotto il controllo della consapevolezza umana. Questo fallimento non è dovuto a mancanza di sforzi e certamente Barth ha lottato eroicamente per superare questo difetto, ma senza successo. Il fallimento si trova nella sua incapacità di accettare come fondamentale la distinzione Creatore-creatura e, con ciò, distinguere tra essere creato e non creato. L’essere di Dio è non-creato e di valore ultimo mentre l’essere creato è derivato. Il pensiero coerentemente biblico, accettando completamente la dottrina della creazione, ha un principio di discontinuità e può asserire un Dio autonomo. Ma il pensiero barthiano, incapace di prendere seriamente la creazione, ha solo una scala dell’essere e un principio di continuità che neanche il tentativo più disperato di alterarlo può intaccare. Barth, da dentro la tradizione dialettica, cerca di superare il difetto della sua eredità e di raggiungere un Dio totalmente altro e fallisce completamente, come dimostra Van Til. Van Til presenta quella teologia del Dio autonomo chiaramente e coerentemente. Ma Berkouwer non vuole considerare nemmeno che il punto sia importante! Tuttavia il problema rimane basilare lo stesso. La fede nel Dio autonomo può essere mantenuta solamente su un principio di discontinuità: la dottrina della creazione. Il principio di continuità di Barth può postulare differenze in essere, ma non può introdurre discontinuità tra Dio e l’uomo perché non crede veramente nella creazione; di qui il suo concetto di peccato è un’impossibilità ontologica anziché una ribellione etica contro Dio [13].
È facile per gli uomini credere in un Dio di continuità; i moderni scienziati, quasi senza eccezioni, credono non nel Dio della Scrittura ma in “un Dio che non è altro che un’estensione dell’universo o un principio all’interno dell’universo” [14]. Tale Dio è comodo (o utile) da credere, se uno sia interessato in un dio che non ingombra mai la strada all’uomo, ma non può valere più di tanto perché, come l’uomo, egli affronta un universo di cruda fattualità nel quale il caso è signore e la mente dell’uomo l’arbitro ultimo dei fatti. E il dio del barthianesimo è egualmente inadeguato; la teologia di Barth non ci dà Dio in sé o l’uomo in sé ma Cristo quale processo di interazione tra Dio e l’uomo.
Chi e cosa dunque è Dio? Cosa intende l’ortodossia cristiana quando parla di Dio autonomo e sovrano? Gli attributi o proprietà di Dio sono quelli che appartengono al suo essere, alla sua conoscenza e alla sua volontà e sono i suoi attributi incomunicabili. Riguardo all’essere di Dio, possiamo parlare, come evidenzia Van Til, seguendo Bavink e Berkhof, dell’indipendenza o aseità di Dio, della sua immutabilità, e della sua unità. Primo, l’indipendenza o aseità di Dio significa “che Dio non è in alcun senso correlativo a, o dipendente da nessuna cosa oltre al proprio essere. … Dio è assoluto (Gv. 5:26; At. 17:25). Egli è sufficiente a se stesso”. Il nome Yahweh esibisce molto chiaramente questo attributo di Dio. Secondo, l’immutabilità di Dio significa che “naturalmente Dio non cambia e non può cambiare perché non c’è nulla oltre al proprio essere da cui dipenda (Ml. 3:6; Gm. 1:7)” [15]. Terzo, l’infinità di Dio è un attributo incomunicabile che, in relazione al tempo è definito come l’eternità di Dio e, rispetto allo spazio, la sua onnipresenza.
Col termine eternità intendiamo che non c’è inizio né fine, né successione di momenti nella consapevolezza di Dio (Sl. 90:2; 2Pi. 3:8). Questo concetto di eternità è particolarmente importante in Apologetica perché implica l’intera questione del significato dell’universo temporale: implica una definita filosofia della storia. Col termine onnipresenza intendiamo che Dio non è né incluso nello spazio né assente da esso. Dio è al di sopra di tutto lo spazio e tuttavia presente in ogni sua parte (1Re 8:27; At. 17:27) [16].
Il quarto attributo è l’unità di Dio al suo interno, una unità sia di singolarità (singularitatis) si di semplicità (simplicitatis). L’unità della singolarità significa unità numerica, ovvero che c’è e ci può essere un solo Dio, mentre l’unità di semplicità significa “che Dio non è in nessun senso composto di parti o aspetti che esistevano precedentemente a se stesso (Gr. 10:10; Gv. 1:5).
Gli attributi di Dio non si devono pensare altro che come aspetti dell’unico semplice essere; l’intero è identico con le parti. D’altra parte gli attributi di Dio non sono caratteristiche che Dio ha sviluppato gradualmente; sono fondamentali al suo essere; le parti insieme formano il tutto. Dell’intera faccenda possiamo dire che l’unità e la diversità in Dio sono egualmente basilari e mutuamente dipendenti l’una dall’altra. L’importanza di questa dottrina per l’Apologetica si può vedere dal fatto che l’intero problema della filosofia si può sommare nella questione della relazione dell’unità con la diversità; il cosiddetto problema dell’uno e dei molti riceve una risposta definitiva dalla dottrina della semplicità di Dio.
L’uomo non può partecipare a questi incomunicabili attributi di Dio. L’uomo non può in nessun senso essere la fonte del proprio essere; l’uomo non può in nessun senso essere immutabile o eterno o onnipresente o semplice. Questi attributi perciò enfatizzano la trascendenza di Dio [17].
Quando passiamo agli attributi della conoscenza di Dio troviamo di nuovo che si tratta di una questione che è basilare. Prima di tutto in Dio non c’è sub-conscio o aspetti o potenzialità non realizzati. Dio conosce se stesso totalmente e completamente ed ha conosciuto se stesso completamente in tutta l’eternità “in un unico atto di eterna conoscenza”.
Non ci sono profondità nascoste nell’essere di Dio che egli non abbia esplorato. Nell’essere di Dio, pertanto, la possibilità è identica con la realtà e la potenzialità è identica con la realtà. In questo rispetto la conoscenza di Dio è completamente diversa dalla nostra. Noi non possiamo mai conoscere la completa profondità del nostro essere. Con noi la potenzialità deve sempre essere più profonda della realtà. La conoscenza di Dio è incomunicabile quanto il suo essere. La conoscenza di Dio è quello che è perché il suo essere è quello che è [18].
Secondo, quando trattiamo con la conoscenza che Dio ha delle cose che esistono oltre a se stesso vediamo “che la conoscenza che Dio ha dei fatti precede quei fatti”. Non si tratta di una precedenza temporale ma del fatto che “Dio conosce o interpreta i fatti prima che siano fatti. È il piano di Dio, la comprensiva interpretazione divina dei fatti che fa di essi ciò che sono” [19].
Passando alla volontà di Dio vediamo di nuovo la stessa basilare rilevanza per la fede cristiana. L’essere di Dio è il solo oggetto ultimo sia della sua conoscenza sia della sua volontà. “Dio vuole in tutto ciò che vuole” ed “è l’obbiettivo più alto o finale di tutto ciò che fa”. Qui la formulazione di Van Til è particolarmente incisiva:
Qui si possono distinguere due aspetti della volontà di Dio. Questi aspetti corrispondono a due aspetti della conoscenza di Dio. Dio conosce se stesso e conosce l’universo creato. Perciò pure Dio vuole se stesso e anche vuole l’universo creato. Quando l’universo creato non sia affatto in prospettiva si dice che Dio conosce e vuole se stesso direttamente con tutti i suoi attributi. Ma quando l’universo creato sia in prospettiva si deve dire comunque che nel conoscerlo e volerlo Dio conosce e vuole se stesso. Dio vuole, ovvero crea l’universo. Dio vuole, ovvero con la sua provvidenza controlla il corso di sviluppo dell’universo creato e lo porta al suo apice. Attraverso tutto questo egli vuole, vale a dire, egli cerca la sua gloria. Egli cerca la sua gloria. La cerca e cercandola fa in modo che il suo proposito nel cercarla sia compiuto. Nessuna creatura può detrarre dalla sua gloria; tutte le creature, volenti o non-volenti aggiungono alla sua gloria. In questo modo Dio vuole se stesso nella sua volontà e mediante essa per quanto riguarda la realtà creata. Qualunque cosa Dio voglia riguardo all’universo creato è un mezzo verso ciò che vuole riguardo a se stesso.
Riassumendo ciò ch’è stato detto circa l’essere di Dio, conoscenza e volontà, si può dire che l’essere di Dio è auto-sufficiente, la sua conoscenza è analitica e la sua volontà è auto-referenziale. Nel suo essere, conoscenza e volontà, Dio è autonomo. Non c’è nulla che gli sia correlativo. Egli non dipende nel suo essere, conoscenza, o volontà dall’essere, conoscenza o volontà delle sue creature. Dio è assoluto. Egli è autonomo [20].
Per i nostri scopi presenti non esamineremo i gratificanti commenti di Van Til sugli attributi comunicabili, la trinità e le sue osservazioni sulla cristologia. Sarà sufficiente notare che nessun pensiero biblico è possibile in area alcuna se non si comincia col Dio autonomo.
Questo Dio autonomo non ha bisogno di nessun non-essere cui paragonarsi, né alcun essere cui essere correlativo. Egli, inoltre, è incomprensibile (che non può essere abbracciato, contenuto completamente). Il concetto di incomprensibilità di Dio è implicita nell’idea di un Dio autonomo. Significa che Dio è comprensibile esaustivamente solo a se stesso ed è conosciuto dall’uomo solo nella misura in cui egli sceglie di rivelarsi. Sembrerebbe che questa dottrina limiti la conoscibilità di Dio; in realtà rende la conoscenza di Dio possibile, valida e certa. Se Dio non fosse esaustivamente comprensibile a se stesso, allora non conoscerebbe se stesso pienamente. Ci sarebbero possibilità inaspettate in Dio, e la conoscenza che l’uomo ha di Dio non sarebbe certamente vera conoscenza perché il futuro vedrebbe nuova auto-conoscenza venire alla luce in Dio ed essere poi rivelata all’uomo. Inoltre, a quel punto Dio non sarebbe in pieno controllo del proprio essere, e di conseguenza non in pieno controllo dell’essere creato. Egli starebbe lottando per trovare se stesso nei termini della cruda fattualità, cercando di dare significato ed interpretazione a ciò che fosse ancora sconosciuto e non-interpretato. Noi possiamo conoscere Dio precisamente perché Dio conosce se stesso. La rivelazione di sé di Dio è affidabile perché la sua auto-conoscenza è totale. Tutta la conoscenza diventa possibile perché Dio è assoluto, autonomo e indipendente. Poiché egli è la fonte della conoscenza di se stesso, e il principio basilare d’interpretazione per tutta la creazione, non abbiamo bisogno d’avere una esaustiva conoscenza di Dio per avere conoscenza affidabile, e nemmeno abbiamo bisogno di conoscere tutti i fatti creati per avere una valida conoscenza dell’universo. L’uomo non può comprendere tutti i fatti con la sua conoscenza e perciò non può conoscere esaustivamente Dio o la creazione. Se ciò con cui sta trattando è cruda fattualità allora non ha conoscenza affidabile, perché rimangono ancora possibilità non rivelate. Ma siccome Dio non ha potenzialità non realizzate, e siccome Dio ha creato tutte le cose nei termini del proprio piano e decreto, la nostra conoscenza può essere affidabile a valida. L’incomprensibilità di Dio è dunque la base della conoscenza dell’uomo.
Questo concetto della incomprensibilità di Dio deve essere distinto dalla nozione barthiana. Il concetto cristiano ortodosso si attiene alla razionalità interna di Dio mentre l’idea barthiana di libertà di Dio attiene ad una interna irrazionalità e potenzialità inesplorate in Dio.
Poiché Dio è incomprensibile, egli è apprendibile o conoscibile dall’uomo. Ogni fatto nella creazione è rivelativo di lui perché ogni fatto creato è il decreto divino dell’autonoma trinità ontologica. In questo modo, benché Dio non sia mai e non possa mai essere conosciuto dall’uomo esaustivamente, tuttavia la conoscenza dell’uomo è possibile perché l’incomprensibile e autonoma natura di Dio è la garanzia di valida e affidabile conoscenza. Altresì, benché l’uomo non possa conoscere se stesso esaustivamente, pure può conoscere se stesso veramente nella misura in cui considera se stesso in termini della parola e vocazione di Dio. Non può conoscere nulla esaustivamente a meno che possa conoscere Dio esaustivamente.
La conoscenza dell’uomo e la conoscenza di Dio coincidono su ogni punto per il fatto che l’uomo è dovunque confrontato con ciò che è già pienamente conosciuto e pienamente interpretato da Dio e non ha che un punto di riferimento: Dio. “Il punto di riferimento non può che essere lo stesso tanto per l’uomo che per Dio. Non c’è fatto che l’uomo incontri i qualunque delle sue investigazioni dove la faccia di Dio non lo confronti” [21]. Ma l’incomprensibilità di Dio non è mai ridotta dalla crescente conoscenza dell’uomo, né l’uomo raggiunge mai un’identità di contenuto con Dio nella sua conoscenza perché la mente dell’uomo non è e non può essere identica alla mente di Dio. La sua è la mente di una creatura e Dio è il creatore. Perché la mente dell’uomo potesse comprendere Dio dovrebbe essere uguale alla mente di Dio e perché la mente dell’uomo potesse avere un’identità di contenuto con Dio richiederebbe un’identità di mente,
L’idea cristiana di conoscenza umana come analogica della conoscenza di Dio è perciò l’unica posizione in cui l’uomo, che non può controllare o conoscere cosa alcuna nel senso ultimo, comprensivo del termine, può nondimeno essere sicuro che la sua conoscenza è vera.
Pertanto, dire che la mente umana possa conoscere anche una sola proposizione nel suo significato minimo con la stessa profondità di significato con cui Dio conosce quella proposizione è un attacco alla relazione Creatore/creatura e con ciò un attacco al cuore del cristianesimo. E a meno che si mantenga l’incomprensibilità di Dio implicata e correlativa all’idea dell’onni- controllante potere e conoscenza di Dio cadremo nell’eresia romanista e arminiana di fare la mente umana a qualche punto di valore altrettanto ultimo di quella di Dio [22].
In questo modo vediamo che “la realtà dell’ortodossia”, malgrado Berkouwer, è che non c’è ortodossia senza il Dio autonomo. Berkouwer insiste che spesso “è impossibile dedurre la teologia logicamente e consequenzialmente dai particolari presupposti filosofici” [23]. Ma teologia e filosofia non si possono facilmente astrarre l’una dall’altra. E i presupposti di Barth riguardo a Dio sono elaborati “logicamente e consequenzialmente” in tutta la sua teologia ma non sono presupposti meramente filosofici ma sono anche teologici. È possibile, quando si parli solo inglese, parlarlo sia incorrettamente che illogicamente, come di fatto fanno molte persone in gradi diversi. Ma non è possibile improvvisamente conversare in ebraico. È possibile, quando si comincia con il Dio autonomo nella propria teologia, sviluppare quella teologia illogicamente e incoerentemente nei termini dei presupposti. Ma non è possibile, quando il presupposto di una teologia è un Dio altro dal Dio autonomo, che quella teologia riveli Dio se non negativamente mediante il suo fallimento. Le teologie non sono accidentali: si sforzano di essere logiche e consequenziali. Non solo l’ortodossia cristiana è impossibile senza il Dio autonomo, ma è anche impossibile definire qualsiasi dottrina cristiana senza questo presupposto. Siccome tutte le cose sono impossibili e inspiegabili senza il Dio autonomo, ciò vale anche per la teologia cristiana e le sue formulazioni. Il trionfo non è possibile in una struttura costruita senza un fondamento.
Note:
1 G. C. Berkouwer: The Triumph of Grace in the Theology of Karl Barth, (Eerdman’s) p. 390. 2 Ibid., p. 385.
3 Karl Barth: The Word of God and the Word of Man; (Scribner’s), p. 202 s.
4 Ibid., p. 66 s.
5 Ibid., p. 190.
6 Berkouwer, op.cit. pp. 223, 243.
7 Karl Barth: Dogmatics in Outline, (Philosophical Library, New York) p. 48 s.
8 C. Van Til: review of Paul Tillich: Systematic Theology, (Westminster Theological Journal, Nov. 1957, Vol. XX, n° 1.) Vol. II, pp. 93-99.
9 Joseph Haroutunian: First Essay in Reflective Theology; Mc-Cormick Theological Seminary, pp. 12, 19.
10 H. P. Ehrenberg: Autobiography of a German Pastor, (Student Christina Movement Press, London) pp. 118-139.
11 Vedi anche Van Til: Has Karl Barth Become Orthodox? Ristampato da Westminster Theological Journal, maggio, 1954.
12 Nels Ferre: The Christian Understanding of God, p. 203, citato in C. Van Til: Comments on Ferre’s “Where Do We Go From Here in Theology?”, in Religion in Life, Winter, 1955-56. Vedi anche Van Til: Paul in Athens.
13 Il commento di Van Til, nello scrivere sulla natura “basilarmente sovversiva” della teologia di Barth dovrebbe essere notato: “Nessun giudizio circa la fede propria di Barth è implicito in questo”. Ma, per gli uomini, dipendere dal Gesù Cristo di Barth è dipendere da se stessi come intrinsecamente giusti … Mai nella storia della chiesa il Dio Trino è stato così completamente e inestricabilmente intrecciato con la sua propria creatura come lo è stato nel moderno pensiero dialettico”. Has Karl Barth Become Orthodox? p. 181.
14 C. Van Til: Christian-Theistic Evidences, 1947, p. 73.
15 C. Van Til: Christian Apologetics, 1953, p. 5.
16 C. Van Til: Defense of the Faith, p. 25 s. Vedi anche An Introduction to Theology, ed. 1952, Cap. XVI: “The Names and Incommunicable Attributes of God” pp. 205-224
17 C. Van Til: Defense of the Faith, p. 26.
18 C. Van Til: Apologetics, p. 6.
19 Ibid., p. 6 s.
20 Ibid., p. 7.
21 C. Van Til: An Introduction to Systematic Theology, ed. 1952, p. 170.
22 Ibid., p. 190, Van Til tratta in modo esteso con l’importanza della dottrina dell’incomprensibilità di Dio, pp.164-204. Vedi anche An Introduction to Theology, Vol. ii, pp. 157-167.
23 Berkouwer, op. cit., p 386.