1. “Ecco che era Lea”
Una notte un certo sposo andò gioiosamente a letto fiducioso che i suoi sette anni di lavoro venivano coronati con la vittoria e che quella che stava abbracciando nel buio della camera nuziale era la sua amata Rachele, ma “l’indomani mattina, ecco, era Lea” (Ge. 29:25). Il desolato sposo fu costretto a servire altri sette anni, ma il suo addizionale servizio non cancellò l’indesiderato legame con Lea. Era stato il peccato a porre Giacobbe in una posizione sfavorevole e alla mercé del suo astuto suocero Labano. Il matrimonio, contratto in buona fede, diede effettivamente a Giacobbe tre mogli indesiderate oltre a Rachele, una famiglia litigiosa, e un’eredità di guai. I figli delle mogli non amate rivelarono una cattiva disposizione e tra essi e il loro padre si sviluppò un profondo contrasto che nessuna delle suppliche del padre riuscì a risolvere. Essi erano suoi figli e allo stesso tempo non lo erano, perché disprezzavano la sua parola (Ge. 34:30, 31), odiavano il figlio della sua amata Rachele (Ge. 37:4-8), contaminarono il suo talamo coniugale (Ge. 35:22), e gli diedero più guai dei suoi stessi nemici. Furono così figli migliori a Labano che al credente Giacobbe, l’uomo che, essendo stato vinto e sottomesso da Dio, aveva con ciò prevalso su di Lui (Ge. 32:24-32) ed era divenuto un principe in Dio.
Questo frammento di storia ha particolare rilevanza per la filosofia e la teologia cristiane. Il pensatore cristiano, operando, come spesso deve fare, su terreno alieno, ha troppo spesso abbracciato come proprio un principio non-cristiano che ha creduto sarebbe stato fruttuoso nei termini del pensiero cristiano. Ha fatto ossa delle sue ossa e carne della sua carne un principio che ha creduto avrebbe portato frutto in una visione del mondo cristiana. Ha creduto che l’ibrida visione del mondo che ne risultava sarebbe diventata erede dei beni di questo mondo e avrebbe mostrato padronanza e dominio sulla mente dell’uomo. Con questa aspettativa, i primi pensatori cristiani abbracciarono il Platonismo; la Scolastica, l’Aristotelismo; gli uomini dell’epoca Illuminista il Cartesianismo e il Razionalismo, e gli uomini del XIX e del XX secolo, il Kantianismo, l’esistenzialismo, e altre spose straniere, sperando con ciò che nel buio abbracciavano Rachele. Ma, “l’indomani mattina, ecco era Lea”! La prole di tale unione è conseguentemente stata una progenie semi-aliena che è in ribellione contro la propria parentela e la contamina più completamente di quanto possano fare i suoi nemici stessi.
La potenzialità di un figlio non può eccedere la sua eredità. Genitori cinesi possono concepire solamente un figlio cinese, non possono produrre un nero o un danese, e tutto il loro desiderare non può farlo tale. In egual maniera, la potenzialità di una filosofia non può eccedere le proprie presupposizioni, ciò che una filosofia assume per cominciare, alla fine determina tutto ciò che può essere o può conoscere. La filosofia greca assunse, o ebbe come proprio “dato” ultimo il mondo fisico e la sua struttura. Di conseguenza non poté rendere conto per quelle cose che non erano incluse nel suo “dato” o presupposizione. A forma e materia sembrò essere capace di dare un’interpretazione, ma scopo e personalità le sfuggirono. Oltre a ciò, sentì che esisteva una tensione tra forma e materia; alla fin fine ogni cosa doveva essere ridotta all’una o all’altra, o essere eliminata dalla considerazione come irreale. Ecco come l’ha espresso Van Til: “Fondamentale a tutto il pensiero dei Greci fu l’assunto che ogni essere è in fondo uno … Non concessero per niente il mutamento, ma nella misura in cui lo fecero, quel mutamento era definitivo”[1]. Nel trattare con l’essere, con l’ultimativo, essi cominciarono, non con l’idea del Dio autosufficiente, ma “con l’idea del carattere autosufficiente della natura”[2]. In questo modo essi cercarono l’essere nella natura, non al di là della natura. Di conseguenza, ogni “fatto” della natura e ogni nuovo sviluppo rivelava le possibilità e le potenzialità della natura. “Essi credevano nel ‘l’universo misterioso’: erano perciò perfettamente disposti a lasciare aperto un posto per lo ‘sconosciuto’ ma questo ‘sconosciuto’ doveva essere pensato come il completamente inconoscibile e indeterminato”[3]. In altre parole, l’universo rivelava Dio nel suo essere; ma poiché l’universo era caratterizzato da mutamento, Dio stesso era caratterizzato da mutamento. I Greci erano pronti ad ascoltare Paolo parlare della resurrezione: essi erano pronti ad accettare quel fatto come una nuova indicazione della potenzialità dell’essere, e perciò dell’uomo, ma non potevano accettare la cornice in cui Paolo presentò quella resurrezione: l’Onnipotente Creatore Dio che è sostenitore e redentore. Nella loro cornice di pensiero, la resurrezione era un altro fatto curioso rivelatore della possibilità della natura, e al contempo rivelatore di nulla, perché domani la natura poteva rivelare qualcosa di ulteriore o di diverso. Poiché la natura era l’essere, e questo essere cambiava, alla fin fine non c’era verità ultima, eccetto il mutamento, e la sola autorità era l’uomo nella sua esperita esperienza di questo mutamento nel “reame dei noumeni”. Perciò la filosofia Greca non poteva comprendere o accettare il vangelo; era per loro “follia” (1 Co. 1: 23).
La tragedia che ne conseguì, comunque, fu che il pensiero cristiano degli inizi si sposò con la Lea della filosofia Greca nella speranza di produrre una visione del mondo cristiana. Ma una filosofia che comincia con materia, struttura o mutamento come proprio punto di partenza ultimo non può mai conseguire in una delineazione delle vie dell’autosufficiente Creatore della natura. Il pensiero cristiano è andato regolarmente fuori strada, lungo la maggior parte della sua storia, per cercare di spiegare il mondo nei termini delle categorie del mondo stesso. Ha assunto di dover sposare Lea per parlare o a Lea o a Labano ed è finito solamente in triste servitù ad entrambi.
Questo fu esattamente il corso che prese il Cattolicesimo Romano. Cercò di unire la dottrina cristiana della grazia al concetto Greco della natura, inteso come una unità di forma e materia. In Tommaso d’Aquino si trova l’enunciazione classica di questa unione, e “il risultato è che Dio è virtualmente identificato con la natura quale realtà fenomenica verso l’uomo”[4]. Il Dio della Scolastica è la natura analizzata in sostanza (Dio il Padre), struttura (Dio il Figlio) e azione (Dio lo Spirito Santo). La terminologia cristiana è incapace comunque di dare vita e carattere cristiani ad una visione del mondo essenzialmente Greca. Ogni sviluppo logico del pensiero Scolastico dissolve le affermazioni cristiane in un nudo immanentismo; Dio è inghiottito dalla natura. E il razionalismo, l’autorità della ragione umana, assume piena giurisdizione. La tragica posizione della chiesa romana è che deve tentare il ruolo di Canuto e dire ciò che quel monarca non poteva seriamente dire al mare: fin qui e non oltre. Roma vorrebbe arrestare per decreto le stesse forze che ha rilasciato, e il suo decreto ha regolarmente fallito il proprio scopo.
Negare Dio come ultimativo significa affermare come ultimativo l’uomo. Fare della natura il contenitore di Dio è in definitiva fare dell’uomo il contenitore di Dio. Ogni qual volta la filosofia cristiana ha avuto un qualsiasi punto di partenza altro dal Dio auto-sufficiente, ha portato, malgrado la sua solenne affermazione del contrario, ad un Dio contenuto dall’uomo. L’indomani mattina, scopre di essere a letto con Lea.
Questo era chiaramente visibile nel pensiero cartesiano. Cartesio, dopo tutto, era il figlio naturale della Scolastica. Egli rivelò onestamente e chiaramente la implicazioni della sua natura ibrida. Cartesio cominciò, non col Dio auto-sufficiente della Scrittura ma con l’uomo auto-sufficiente. Il punto di partenza della sua filosofia fu “Cogito, ergo sum”, penso, dunque sono. Da questo punto d’origine, Cartesio procedette a provare l’esistenza della natura e l’esistenza di Dio. Per la Scolastica, la natura era stata il punto di partenza, e Dio l’oggetto da provare. Ora la natura stessa è unita al rango degli oggetti e l’uomo solo è il presupposto. La tensione non è più tra natura e grazia ma tra uomo e natura, con Dio come un aggregato di ambedue. Berkeley e Hume successivamente misero in discussione la realtà oggettiva della natura e di Dio; dopo tutto, la sola vera conoscenza che l’uomo aveva era del proprio pensiero. Tutte le deduzioni al di là di questo non riuscirono a dare prova di un reame oggettivo di natura o di Dio. Il solo dato valido, razionale ed empirico era la consapevolezza umana. Kant tentò di salvare per l’uomo gli oggetti Dio e il mondo distruggendo per ogni intento pratico i concetti di soggetto-oggetto, e creando nell’uomo autonomo un macrocosmo contenente sia Dio sia il mondo. In questo modo l’uomo contiene ambedue, Dio e il mondo e distrugge la relazione soggetto-oggetto. Dio e la natura sono adesso contenute nell’uomo; questo è l’assunto basilare dell’esistenzialismo, poiché in tale pensiero, come esemplificato in Barth e Brunner, l’uomo in qualità de “l’Individuo prende il posto della Trinità ontologica … nel suo essere è esaurito nella relazione e la relazione è esclusivamente interna” [5]. Così entra in scena un altro dio, celebrato da teologi e poeti come il vero Dio. Questo Dio, come Babette Deutsch dice del Dio di Rilke nel The Book of Hours, “non è il Creatore dell’universo, ma sembra piuttosto la creazione dell’umanità, e sopra tutto, di quella parte dell’umanità più intensamente consapevole: l’artista”. Come Rilke stesso l’ha affermato:
What will you do, God, when I die?
When I, your pitcher, broken lie?
When I, your drink, go stale or dry?
I am your garb, the trade you ply,
You lose your meaning, losing me.
Cos farai, Dio, quando muoio?
Quand’io, tua brocca, rotto giaccio?
Quand’io, tua bevanda, vo’ stantio o secco?
Son il tuo aspetto esteriore, il tuo mestiere.
Tu perdi il tuo significato, perdendo me.
La questione basilare, perciò, non è cambiata sin dall’Eden. La tentazione dell’uomo è “essere come Dio” conoscendo, cioè determinando per sé stesso ciò che sarà bene e ciò che sarà male. L’uomo stabilisce la propria legge e i propri decreti nella propria giustizia e non è legato ad un punto di riferimento al di là di sé stesso. Questo è il peccato originale dell’uomo, la brama di essere come Dio, e questa è la costante spinta del suo essere dalla quale persino i redenti non sono liberi. L’uomo vede se stesso non come creatura ma come dio, non come dipendente ma come un essere autonomo e indipendente. In questa vita nemmeno i più devoti sono liberi dalle tracce di questa ribellione. Né credere nell’ispirazione della Scrittura è una garanzia d’immunità. Abbiamo, dopo tutto, gruppi come gli Avventisti del Settimo Giorno e la Chiesa di Roma, che affermano l’ispirazione plenaria mentre insistono sulle opere efficaci dell’uomo e sulla sua ragione autonoma. Neppure il calvinismo affermato è una salvaguardia sufficiente: proprio il credere nella predestinazione è stato usato come potente arma di giustizia- autonoma, come ne fa efficacemente una satira Burns nel suo “Holy Willie Prayer”. Il fatto triste è che molto del calvinismo dei nostri tempi è mero tradizionalismo, la fede dei padri affermata come fetta d’eredità e senza alcuna vitalità o perspicacia.
Non sorprende, perciò, che la più enfatica opposizione al calvinismo di Van Til (come di Dooyeweerd e di altri), sia venuta da uomini che sono pretesi leader calvinisti. L’integrità del calvinismo di Van Til mette a nudo l’incoerenza e il tradimento inerente al loro pensiero. Di qui la foga del loro attacco. Jesse De Boer e Olebeke, per esempio, sono profondamente disturbati che Van Til cominci col Dio autosufficiente della Scrittura piuttosto che con la ragione umana e gli auto-sufficienti fatti di questo universo fisico. Da questi fatti, essi proverebbero Dio, ma qualsiasi Dio che venga aggiunto ad un universo di fatti auto-sufficienti è irrilevante a tale universo. Poiché Van Til comincia con la Trinità ontologica auto-sufficiente, James Daane è turbato e chiede: “Perché seleziona egli stesso un aspetto di Dio e lo esalta a principio più alto per l’interpretazione di ogni problema? Perché non permette alle virtù di Dio di diventare parte integrante del suo principio interpretativo?”[6]. Ma se noi prescindiamo da Dio come l’auto-sufficiente, trinità ontologica in favore di Dio come valore, alle virtù di Dio nella loro relazione al mondo, a quel punto abbiamo perso Dio come Dio. Egli diviene solo un valore dell’universo, ultimativo e auto-sufficiente, e come tale non ha relazione col Dio della Scrittura.
Uomini come Daane non solo hanno abbracciato Lea, ma, al mattino, insistono che è Rachele e denunciano tutti quelli che dicono diversamente!
Nei capitoli che seguono, è fatta un’analisi della filosofia cristiano-teista di Cornelius Van Til. Nel suo calvinismo epistemologicamente auto- consapevole abbiamo una cristianità coerente che significativamente ed efficacemente sfida non solo le filosofie non-cristiane del nostro tempo, ma mette a nudo il fallimento del pensiero apparentemente cristiano che tenta di portare a casa frutto cristiano da radici aliene, il quale comincia con qualsiasi presupposizione altra dal Dio auto-sufficiente e trino della Scrittura, e il cui punto di partenza è il fatto piuttosto che la Trinità ontologica.
Note:
1 Van Til: Paul at Athens
2 Van Til: The Infallible Word, “Nature and Scripture” . p. 275
3 Van Til Paul at Athens.
4 C. Van Til: Infallibile Word, p. 282.
5 C. Van Til: The New Modernism, p. 275.
6 J. Daane: A Theology of Grace, p. 102s. Eerdmans, Grand Rapids, Mich.