VII

Il cuore dell’uomo controllato

dal potere della cupidigia 5:8–6:9

 

Nella sezione precedente il Predicatore ha concentrato la nostra attenzione sulle cause principali dell’incapacità umana di realizzare il sogno di un ordine sociale e morale perfetto. Mentre le cause possono sembrare disparate, di fatto ogni causa è riconducibile in ultima analisi ad una singola fonte: la persistente stortura del cuore dell’uomo. Il laico professante in particolare non può architettare un progetto sociale che si coniughi coi suoi ideali di giustizia e di equità perché nella sua coscienza da sola è privo di un genuino principio d’autorità trascendentale che sia sufficiente per compensare la forza centrifuga inerente ad ogni uomo la quale obbedisce la voce dell’ambizione (o dell’avarizia, cupidigia, indolenza, intemperanza, ecc.). Questo dilemma rimane irrisolvibile per l’uomo fintantoché rifiuta di dare ascolto alla voce di Dio. “Quando gli uomini sognano di essere dio, la loro unica attitudine verso tutte le altre persone e cose è d’usarle a proprio vantaggio e profitto”[1]. Questa causa, originata in paradiso, ostacola i loro sforzi di costruire la società dell’uomo ed è la ragione principale per l’oppressione che è l’inevitabile risultato. Le ingiustizie che gli uomini sono destinati a sperimentare non possono essere eluse o attenuate con la mera applicazione esterna di programmi politici. A meno che l’uomo non sia disposto a venire a termini col proprio peccato e con la maledizione di Dio rimarrà incapace di produrre altro che una gravosa tirannia. È solo volgendosi al Dio del patto e alla sua parola che esiste qualche speranza di sfuggire a questa inevitabilità. Ma il riconoscimento di questa verità deve cominciare col popolo di Dio, e deve cominciare proprio al centro della loro comunione con Dio: il tempio. Lì i credenti vengono per “ascoltare” e per essere edificati nella parola di Dio. Solo in questo modo possono diventare il “sale della terra”.

Questa successiva porzione del suo libro trova il Predicatore a sondare ancora il cuore dell’uomo e ciò che inevitabilmente ne scaturisce. In questi versetti l’accento viene leggermente alterato per attirare l’attenzione su un problema peculiare nella natura dell’esperienza dell’uomo caduto, problema che indica una fatale contraddizione al cuore di quell’esperienza. Siamo costretti a vedere che il cuore dell’uomo giace in soggezione ad un potere dal quale è impossibile liberarsi. Tirannico e pertinace, è l’insaziabile potere della “cupidigia”. La contraddizione risiede in una trasposizione che è conseguita dal peccato dell’uomo. Dio originariamente creò l’uomo perché fosse in controllo di se stesso e obbediente a Dio. Più di questo, l’uomo oltre ad avere il controllo della sua vita; era destinato a possedere il potere di attuare il Regno di Dio sulla terra mediante sapienza e conoscenza. La sua soddisfazione maggiore sarebbe dovuta derivare dal compimento di quel fine. A causa della sua ribellione l’uomo ha perso tutti i poteri di compiere quel fine ed è caduto preda di un potere che lo tiranneggia. Il suo cuore è diventato schiavo d’inestinguibile “cupidigia”, una “voglia” impossibile da gratificare, Poiché l’uomo non ha voluto servire Dio ed edificare il suo regno, Dio lo ha abbandonato ad una falsa bramosia che l’uomo non può mai soddisfare. Dio aveva voluto che l’uomo trovasse perfetta soddisfazione servendolo, ma il peccato lascia l’uomo con l’illusione di una soddisfazione che invece elude la sua presa. Ma il potere della cupidigia spinge l’uomo a cercare lo stesso le buone cose della vita nella sua illusione nel supporre che il veramente buono risieda nel mondo e non in Dio. Ma se l’uomo non trova in Dio la sua soddisfazione ultima, come Dio intese facesse, resta condannato a servire un padrone che non può mai appagare. Il famoso epigramma di sant’Agostino: “Il nostro cuore è senza riposo finché non riposa in te [Dio]”, ha catturato la quintessenza del problema ed ha offerto la sola soluzione. In questa serie di versetti il Predicatore attesta proprio questo. Dovremo avere l’attenzione d’indicare che il motivo della “cupidigia” non è per sé un prodotto della caduta, né il Predicatore lo suggerisce. Al principio l’uomo fu dotato con una voglia “originale”, il suo desiderio principale era di modellare la propria vita su Dio. Il problema sta nella ri-direzione della sua voglia dal voler compiacere e glorificare Dio al voler compiacere e glorificare se stesso. Il predicatore afferma che la prima porta al dominio e alla produttiva soddisfazione sia per il corpo che per l’anima, mentre la seconda può solamente portare ad un’abietta servitù, ad un famelico cercare ma mai arrivare ad avere. Ad ogni modo, il Predicatore non è un moralista. Non tratta il problema solamente mediante una serie di prescrizioni etiche. Il problema è radicale e situato in profondità; richiede un fondamentale ri-orientamento nel cuore dell’uomo per quanto concerne ciò che sia la sua vera voglia e ciò che può soddisfarla perfettamente. L’uomo deve giungere a vedere che può sperare di risolvere questa sua difficoltà solamente facendo i conti col Dio del patto.

Il potere maligno della cupidigia può mostrare la sua velenosa contaminazione ovunque, ma forse mai con l’immenso danno e miseria con cui lo fa nell’ambito in cui l’uomo umanista ha posto la sua più elevata confidenza: nel governo e nell’amministrazione dello stato. Con notevole perspicacia, il Predicatore smaschera la falsa fiducia accordata da tempo immemore all’ordine politico dell’uomo. La sua diagnosi dell’influenza corruttiva della cupidigia è diretta per prima al burocrate governativo che gli uomini si sono illusi essere al di sopra della corruzione e il solo garante contro la cupidigia di tutti gli altri. Possiamo chiederci perché in 5:8 affermi distintamente che una cospirazione tra funzionari pubblici, sia amministratori che collettori di tasse, per frodare il popolo e riempirsi le tasche, non dovrebbe meravigliare più di tanto. Non dovremmo sorprenderci che funzionari del governo siano capaci di tali pratiche. La gente non si aspetta forse istintivamente che i funzionari di governo siano una qualità di persone non egoista e altruista, meri disinteressati servi del bene pubblico? Non hanno forse gli uomini invariabilmente cullato la nozione che quelli che esercitano i poteri di governo siano virtuosi semplicemente perché il governo in sé è visto come l’unico strumento di rettitudine morale? Il Predicatore intende denunciare questa fiducia per l’illusione che invece è.

I servitori pubblici, poiché sono anch’essi uomini nei quali risiede una profonda stortura, non sono meno corruttibili e corrotti dal potere della cupidigia di chiunque altro. Che siano delle mere creature dedite altruisticamente al dovere è un concetto da negarsi. Ciò ch’è ancor peggio è che quando questi uomini soccombono, com’è inevitabile, al potere insidioso della cupidigia, gli inevitabili effetti dannosi delle loro azioni si dimostrano molto più estesi che se essi fossero invece stati privi del potere di governo per sfruttare, per guadagno personale, coloro i quali sono impotenti contro di essi. Sperare ingenuamente che il governo possa essere l’ultima roccaforte contro l’empietà e l’ingiustizia è semplicemente assurdo, e la corruzione della funzione pubblica non dovrebbe causare stupore.

Nessun aspetto dell’esperienza dell’uomo è impermeabile al feroce potere della cupidigia, non esiste istituzione in cui non penetri, e quando gli uomini si sottomettono alla sua richiesta insistente non si fermeranno davanti a nulla, né saranno ostacolati nelle loro coscienze, al fine di gratificare il suo appetito irresistibile. A parte il Dio del patto e la sottomissione alla sua parola, cosa può impedire agli organi di governo di diventare strumenti di saccheggio da parte di uomini che sono spinti, come tutti gli uomini, dalla forte voglia di accumulare i tesori della vita? Il Predicatore non cita altra difesa.

Mediante una serie di riflessioni proverbiali, il Predicatore, in 5:10-17, analizza in modo succinto il problema dell’uomo sotto dipendenza da cupidigia. In modo piuttosto naturale “la serie comincia” dichiara Whybray, “con ciò che sta alla radice del problema: l’amore per il denaro …” [2]. Il denaro, ovviamente, è abitualmente visto come la misura della propria ricchezza. La vera preoccupazione riguarda ciò che il denaro può acquistare e la percezione dei suoi benefici positivi per l’uomo. Tuttavia, sarebbe un errore immaginare che il Predicatore denigri il valore della ricchezza. Non è il denaro in quanto tale ad essere la radice del problema, l’amore per il denaro lo è. Il predicatore si concentra sul cuore dell’uomo nella sua corruzione. Il denaro è visto come un mezzo – in questo caso, il mezzo principale – per soddisfare il cuore dell’uomo. Il denaro, insieme alla ricchezza che controlla, è elevato a uno stato “divino”. È ricercato per benefici “divini”. Non è per niente che Gesù ha affermato che “non potete servire a Dio e a mammona”. (Lu. 16:13) L’ “amore” per la ricchezza significa la dedizione della propria vita a un dio rivale, un dio, inoltre, che esige più di quanto un uomo possa dare, e che non rende all’uomo nulla in cambio. “Chi ama il denaro non ha mai abbastanza denaro; chi ama la ricchezza non è mai soddisfatto del proprio reddito ”. Amare il denaro, dice Gesù, è odiare Dio. Un uomo infatuato dalla ricchezza è un uomo che ama una schiavitù dispotica. La libertà, tuttavia, non è la povertà, ma l’amore di Dio. Essere consumati dalla voglia di ricchezze è invitare molte difficoltà. I ricchi, quelli i cui “beni crescono” (v.11), sono destinati ad attrarre indesiderati frequentatori che succhiano e salassano la loro ricchezza. Il predicatore non si preoccupa di specificare chi potrebbero essere; indica solo la loro inevitabilità. Potrebbero essere amici parassitici, la famiglia, o potrebbe avere in mente l’onnipresente collettore di tasse [3]. I ricchi riescono solo ad attirare l’attenzione su se stessi, un fatto di poco conforto per loro. Quando ciò accade, come sicuramente deve, il beneficio della ricchezza diventa inferiore al voluto, un semplice piacere da guardare. Se il ricco osa usarlo, si troverà oggetto di un’attenzione indesiderata. Lo stile di vita dei ricchi possiede una qualità inquietante che anche il Predicatore desidera farci notare. Poiché la ricchezza è tutto per l’uomo consumato dall’amore per essa, proteggersi dalla sua perdita o diminuzione crea una disposizione problematica. Un eccesso di possedimenti si rivela spesso un bene malsano quando non esiste alcuno scopo per la vita se non quello di indulgere con se stessi.

La sontuosità della dieta del ricco è seguita dalla perdita del sonno profondo (v.12). Nonostante gli sforzi fisici implicati nel suo svolgimento il lavoro dell’uomo ordinario è meno faticoso della sazietà oziosa dell’uomo ricco la cui vita è un consumo illimitato senza alcun lavoro. Il punto, ancora una volta, non è lodare la vita della “povertà operosa” [4] confrontando le sue presunte virtù con quelle del tempo libero frivolo. Piuttosto, lo scopo è quello di concentrarsi sul tipo di problemi che si manifestano quando gli uomini si danno all’amore esorbitante per la ricchezza. Invece di gioire in una vita di realizzazioni produttive, si consumano in un’angoscia insalubre di lusso incontrollato. Quando intere società sono prese dalla morsa di questo falso ideale della vita, come sembra sempre più per la nostra società occidentale contemporanea, si stanno dirigendo verso il declino. Coloro che adorano la ricchezza come un dio scopriranno spesso che tale divinità è precaria e instabile. Questo problema diventa più acuto ogni volta che la ricchezza, invece di essere ricevuta con gratitudine e messa in uso responsabile e produttivo, viene semplicemente accumulata (v.13). Ricordiamo ancora che il Predicatore non è di per sé censore della ricchezza; desidera semplicemente che vediamo cosa succede agli uomini che, sotto la schiavitù di una voglia inappagabile, considerano la ricchezza come un vantaggio permanente per il suo proprietario. Nega espressamente l’ottusa credulità che immagina che la ricchezza non possa mai essere influenzata o che possa salvaguardarsi da bruschi cambiamenti delle circostanze. Come dichiara, la ricchezza, lungi dall’essere il bene indiscusso che coloro le cui vite sono esclusivamente dedicate al suo conseguimento pensano indubbiamente che sia, può in effetti diventare un danno effettivo per il suo possessore, specialmente quando, “per un cattivo affare” (v. 14 “avvenimento funesto” NR), improvvisamente e inaspettatamente svanisce. Riporre una fiducia inappropriata nella durabilità della ricchezza significa ignorare con arroganza e follia la sua fragile dipendenza da eventi imprevedibili e incontrollabili. Non importa quanto ricco possa diventare un uomo, non è mai in suo potere garantire la sua ricchezza. I vantaggi della ricchezza possono essere rimossi. È il modo del Predicatore di dire che solo nel Dio del patto c’è una sicurezza permanente per la vita dell’uomo. Gli uomini possono contare solo su di lui perché non è controllato dalle circostanze anzi le determina.

Come ha osservato spesso, per quanto riguarda questa vita, l’uomo (umanista) può veramente essere certo di una sola cosa: la morte. La ricchezza può essere utile agli uomini qui e ora – questo non lo contesta – ma non possono trarne alcun beneficio nella tomba. “Non prende nulla dalla sua fatica che possa portare via con sé” (v.15). È il suo modo di dire che la morte è più certa della ricchezza. È anche il suo modo di dire che se un uomo non è ricco verso Dio, non è veramente ricco. Il carattere della vita di un uomo che venga vissuta in una ricerca incondizionata della ricchezza è nella migliore delle ipotesi debilitante. “Tutti i suoi giorni della sua vita mangia nelle tenebre …” (v.17) – vale a dire, nell’incertezza. La sua unica risposta a tale insicurezza è di “afflizioni, infermità e crucci”. La sua ossessione non gli consente un momento di pace. Ecco il profondo auto-assorbimento dell’uomo consumato da una cupidigia spietata. Essa è un capomastro duro e inesorabile.

Come ormai ci aspettiamo, nel suo discorso il Predicatore, in 5: 18–20, fa ancora una volta il caratteristico riferimento al patto e, in particolare, al Dio del patto con il quale l’uomo deve imparare a fare i conti. Perché solo qui si può trovare la soluzione al problema della cupidigia nel cuore dell’uomo. Ciò che il Predicatore raccomanda è una forte indicazione del fatto che non vede il problema come attaccato alle ricchezze di per sé, come se la ricchezza in quanto tale fosse la causa del problema. Ne consegue che neppure loda una vita di felice povertà come l’unica alternativa immaginabile a quella che, almeno nella mente di alcuni commentatori, è stata ritenuta la sua denuncia della ricchezza stessa. In altre parole, ciò che l’uomo ha bisogno non è una rinuncia alla ricchezza, insieme alle energie che sono impiegate nella sua ricerca, ma un cuore ri-diretto da un amore idolatrico per la ricchezza a un amore esclusivo per Dio. È solo in Dio che l’uomo può trovare soddisfazione e appagamento. A meno che le ricchezze non siano accompagnate da un godimento in esse che solo Dio può dare, non possono veramente arrecare beneficio all’uomo che le possiede. “Ecco ciò che ho compreso: è bene e opportuno per l’uomo mangiare, bere e godere del bene di tutta la fatica che compie sotto il sole, tutti i giorni di vita che DIO gli dà, perché questa è la sua parte. Ogni uomo a cui DIO concede ricchezze e beni e a cui dà pure di poterne godere di prendere la propria parte e di gioire della sua fatica, questo è dono di DIO” (vv.18, 19).

L’uomo ha bisogno di sfuggire alla morsa della cupidigia. La ricchezza da sola non può assicurare tale risultato. Inoltre, l’uomo non ha né il potere né la propensione di realizzare tale obiettivo per proprio conto. Si affida interamente alla grazia di Dio (“è un dono di Dio”). Tuttavia, è abilitato a ricevere questo bene quando accetta totalmente il patto, come aveva indicato il Predicatore nella sezione precedente quando parlava di ascoltare la parola di Dio nel tempio. Un uomo non può provare la soddisfazione che Dio fornisce senza allo stesso tempo sottomettersi all’autorità di Dio sulla sua vita. In questo modo sottolinea che la vita nella sua interezza è un dono di Dio che non si può ottenere separatamente da lui e dall’obbedienza alla sua volontà. È questo pensiero su cui Mosè aveva seriamente riflettuto. In Esodo 33 leggiamo che l’ira di Dio s’infiammò contro il suo popolo a causa della sua persistente ribellione e costante rifiuto di fidarsi pienamente che lui si sarebbe preso cura di loro e li avrebbe condotti nella terra che aveva promesso di dare loro. Di conseguenza, mentre li avrebbe effettivamente portati nella terra che abbondava di latte e miele, non vi avrebbe viaggiato in mezzo a loro. Non sarebbe stato vicino a loro, ma si sarebbe tenuto a distanza. Ma a Mosè il forte orrore per il solo pensiero che Dio non avrebbe abitato in mezzo al suo popolo per essere loro vicino era sufficiente per suscitare da lui questo appello straziante: “Se la tua Presenza non viene con me, non farci partire da qui ” (33:15). Mosè sapeva che i tesori terreni non hanno alcun valore per nessuno se Dio non si trovasse in essi per dare all’uomo felicità e soddisfazione. Per quanto generosi possano apparire, se in essi non godiamo Dio, non potremo mai trovarli di beneficio perché solo Dio ha il potere di rendere felice la vita nel tempo che concede all’uomo. Niente nell’uomo o nella sua esperienza può raggiungere questo scopo. Se non saremo ricchi in Dio, non saremo mai veramente ricchi in nulla, indipendentemente dai nostri beni materiali. Le cose buone della vita sono veramente buone solo a causa della bontà della presenza di Dio che deve accompagnarle. Quando gli uomini apprendono questa verità nel patto, perdono l’auto-assorbimento che è la caratteristica distintiva di coloro che sono ridotti in schiavitù alla cupidigia. Un uomo del genere, afferma il Predicatore, “non penserà infatti molto ai giorni della sua vita, poiché Dio lo tiene occupato con la gioia del suo cuore” (v. 20 CEI).

Può sembrare strano che il Predicatore non abbia concluso il suo discorso sull’amaro problema della cupidigia quando aveva indirizzato i nostri pensieri alle parole consolanti del patto. Perché, dopo aver spostato la narrazione dalla precedente parte negativa alla riconciliazione positiva con Dio e alla soddisfazione che deriva da Lui solo, ritorna a ulteriori riferimenti sulle difficoltà associate all’uomo nella sua disonestà e servilismo verso la cupidigia sfrenata? Il predicatore ha aggiunto osservazioni rivolte in particolare agli uomini che rifiutano qualsiasi riconoscimento del Dio del patto. In particolare, le sue parole sono rivolte a persone che credono erroneamente che i veri problemi della vita riguardino la questione della ricchezza e della povertà, uomini che credono fatuamente che essere ricchi sia il più alto scopo della vita e che la povertà rappresenti il più grande dei mali. Questi sono uomini che pensano che la vita sia buona o cattiva a seconda che si possiedano o meno mezzi materiali e le ricompense che li accompagnano, che immaginano che le circostanze esterne della vita siano davvero così importanti. Il Predicatore rivela questa percezione sbagliata per la follia che è. Allo stesso tempo, le sue parole non potevano parlare con maggiore rilevanza per oggi quando intere società – le nostre in particolare – sono state catturate dal desiderio unico di aumentare il loro benessere materiale. Quando le energie di un popolo sono dedicate esclusivamente alla ricerca del guadagno materiale, non possono immaginare, quando le cose vanno male, che è Dio a frustrare le loro aspettative utopiche. È un’esperienza amara quando Dio accumula ricchezze sugli uomini e poi li priva di qualsiasi vero godimento da parte loro. Quando rifiutiamo di fare i conti con lui, potrebbe farci soffocare nell’abbondanza.

Continua (6: 2), e dicendo che ha visto “uno a cui DIO ha dato ricchezze, beni e gloria, e non gli manca nulla di tutto ciò che può desiderare, ma DIO non gli concede di poterne godere; ma ne gode un estraneo”, osserva che è Dio che rende ricchi gli uomini, ed è Dio che consente agli uomini di trovare soddisfazione nella propria ricchezza. È possibile che Dio possa dare l’una e trattenere l’altra. Tutto dipende da Dio! È il modo in cui il Predicatore afferma che i benefici materiali per l’uomo hanno la loro radice trascendente nel regno spirituale. Se decidessimo di non riconoscere questo fatto, consideriamo però che è possibile che il godimento della propria ricchezza possa essere trasferito a qualcun altro. L’economia non è una dimensione autonoma nell’esperienza dell’uomo. La ricchezza e i suoi benefici non sono inseparabili dalla disposizione morale e religiosa delle persone che cercano di trarne vantaggio.

Senza Dio, la ricchezza può diventare una rovina piuttosto che un vantaggio. Per enfatizzare questo punto, il Predicatore fa un paragone tra la vita lunga e prospera di chi ha conosciuto solo un’insaziabile cupidigia e la breve esistenza del bambino che è morto alla nascita, la cui vita quindi non ha mai provato l’ambizione di accumulare guadagno materiale. Per coloro che suppongono che la ricchezza sia il bene supremo, il Predicatore ribatte con l’affermazione che “un aborto è più felice di lui” (v.3). Il Predicatore intende che il vero problema risiede nel cuore dell’uomo, mentre l’uomo che visse a lungo e si arricchì potentemente sembrerebbe essere migliore di uno che non possedette mai neppure un’oncia dell’opulenza di questo mondo, eppure ci fu meno nell’esperienza di quest’ultimo a porre una separazione tra lui e Dio. E se non siamo ricchi verso Dio, siamo più poveri di quanto immaginiamo. Alla fine la morte prende tutti. A che serve una vita lunga e prospera, specialmente quando una vita simile è privata della soddisfazione della ricchezza che possiede? Non può garantire contro la morte, e ricordiamo che in precedenza il Predicatore ha affermato che con la morte arriva il giudizio.

Il Predicatore conclude la sua discussione sull’uomo sotto il potere della cupidigia, ma non senza assestare, nei versetti 7–9, un forte colpo alla fiducia mal riposta dell’uomo umanista nei suoi valori e obiettivi di civiltà. L’uomo non è in grado di vedere l’ironia del suo problema. Spende una grande energia per soddisfare le esigenze dei suoi appetiti corporei, che sono gli unici che riconosce legittimi, eppure non è mai soddisfatto. Le sue fatiche non cessano mai. Non sono mai abbastanza. Perché quando il Predicatore dice che “il suo appetito non si sazia mai” (v.7) lo capiamo nel senso che l’anima non è mai soddisfatta. Questo è un grande dilemma per gli uomini che si ribellano a Dio. L’uomo che rifiuta di ammettere che le dimensioni materiali della sua vita erano destinate in definitiva a servire fini spirituali non può non essere insoddisfatto, e alla fine disilluso, con la sua abbondanza materiale, per quanto grande possa essere. L’uomo troverà che gratificare solo il suo corpo non fornirà mai la stabilità interiore e la sicurezza di sé davanti a Dio di cui ha veramente bisogno in un mondo che è maledetto e soggetto alla morte. Che un uomo possieda molto o poco, solo Dio può soddisfare l’anima. L’uomo deve riconoscere la povertà della sua anima prima di poter sperare di diventare ricco in qualsiasi cosa. Coloro che lavorano solo per la bocca non troveranno soddisfazione, ma coloro che hanno fame e sete di giustizia saranno saziati (Mt 5: 6).

Infine, con il suo caratteristico rifiuto degli ideali della saggezza tradizionale, il Predicatore termina dicendo che coloro che sono orgogliosi della loro saggezza non riescono a sfuggire a questo dilemma più di quelli che disprezzano come sciocchi (v.8). L’uomo, come semplice uomo, qualunque altra cosa significhino versetti 8, 9, non possiede in sé le risorse per liberarsi dal potere della cupidigia. Presumere altrimenti è “vanità e cercare di afferrare il vento” (v.9).

Note:

1 Rushdoony, Revolt Against Maturity, p. 55.
2 Whybray, Ecclesiastes: The New Century Bible Commentary, p. 99. 3 Whybray, Ibid.
4 Whybray, p. 100.


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