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DANIELE 5

LA BILANCIA DELLA GIUSTIZIA

 

La fede di Nebukadnetsar fu efficace nella sua vita ma non nei termini della storia Babilonese. Dopo la morte di quel monarca, Babilonia passò attraverso una successione di deboli mani finché Nabonide, genero di Nebukadnetsar pervenne al trono. suo figlio, Belshatsar, nipote di Nebukadnetsar, fu fatto vice-reggente per rafforzare la sua posizione, e per dargli indipendenza nell’estendere l’impero. La campagna di Nabonide in Arabia portò alla costituzione di una nuova capitale a Tema, sulle strade del mondo antico, per controllare i percorsi del commercio che portavano al Mar Rosso, al Golfo Indiano, all’Egitto, all’India e a tutto il mondo di quei tempi. Tema, a metà strada tra Damasco e Mecca, è ancora un importante centro di scambi dell’interno dell’Arabia, ma sotto Nabonide la città raggiunse la propria gloria come “la capitale dell’impero Neo-Babilonese, perché il re viveva lì in un palazzo che eguagliava quello di Babilonia” [1]. L’importanza di Tema però, era comunque condizionale al continuato potere di Babilonia stessa, poiché Nabonide era in terra straniera e capace di far progredire il potere imperiale solo per quanto la casa madre poteva sostenerlo. Il regno di Nabonide segnò così un ulteriore sviluppo del potere imperiale come anche il suo termine.

L’ascesa dei Medi e dei Persiani, all’inizio una nuvola non più grande di una mano d’uomo, si sviluppò in una forte tempesta mano a mano che queste potenze raggiunsero Babilonia. La sicurezza dei Babilonesi, comunque, era fondata sulla loro capacità di sostenere, come essi credevano, un assedio di settant’anni, con i Medi ed i Persiani che si sarebbero probabilmente distrutti nel tempo per la loro distanza da casa ed i problemi causati dal prolungarsi dell’attesa del vettovagliamento. Perciò Belshatsar si sentì libero di procedere con la festività religiosa.

Alla grande festa del nuovo anno, solo il re sommo sacerdote, Nabonide, poteva presiedere, ma nelle altre festività, Belshatsar, come vice reggente, poteva officiare. L’occasione fu marcata da un grande banchetto con molto vino, con Belshatsar stesso che presiedette il pranzo davanti a mille dei suoi nobili (5:1). Questa stravaganza di splendore e celebrazioni era comune nell’antichità come testimoniano i 15.000 che più tardi, secondo Ateneo, pranzeranno giornalmente al tavolo del monarca Persiano e al quale Ester 1:3-5 testimonia. Ma la motivazione religiosa era centrale e basilare all’esuberante osservanza. A conferma di quella motivazione religiosa, Belshatsar, un uomo devoto, espresse la condanna ufficiale di Babilonia riguardo ai sogni di Nebukadnetsar registrati come da interpretazione dall’Ebreo, Daniele. I vasi sacri, portati via dal tempio di Gerusalemme, furono portati in modo “che il re e i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine” (5:3) bevvero in essi. Questo fu un atto di deliberato sacrilegio, e anche una dichiarazione di fede. La fede Babilonese era 1) una fede nella salvezza per opere, una fede che implica inevitabilmente che, 2) poiché l’uomo salva se stesso, egli controlla il suo destino, e il futuro è perciò nelle sue mani. Chiaramente Belshatsar fece quest’ultima deduzione. La sua pretesa ignoranza di Daniele viene corretta da Daniele stesso “benché tu sapessi tutto questo” (5:22), cioè del sogno e dell’esperienza di Nebukadnetsar, del giudizio di Dio, e del ruolo centrale di Daniele in tutta questa ben conosciuta sequenza di eventi. Belshatsar, sicuro della vittoria sui Medi e Persiani, espresse con questo sacrilegio il suo disprezzo per YHWH e la propria abilità di utilizzarLo. Egli non era legato dai sogni o dalla loro interpretazione profetica di Daniele, ma solo dalla propria volontà e forza. Questo monarca, quale devoto sacerdote-re, dando ripetutamente evidenza della propria fede [2], asserì la propria indipendenza da questo Dio discontinuo che prepotentemente rifiutava la mano dell’uomo o le sue opere, questo Dio che agiva in disprezzo della gloria umana. Si può forse dire che in quel momento la religione Babilonese fu chiaramente ed acutamente focalizzata nell’atto sacerdotale di Belshatsar. Mentre bevevano vino dai vasi del tempio “lodarono gli dèi” (5:4).

“In quello stesso momento”, apparve la mano di un uomo che scrisse sul muro in una scrittura sconosciuta, riempiendo tutti di terrore, il sacerdote-re in particolare. I suoi consiglieri non furono capaci di decifrare lo scritto nonostante le allettanti offerte. La regina madre [3] sollecitò che si prendesse in considerazione Daniele, forse parlando come se Daniele fosse sconosciuto a Belshatsar in modo da confondere, velare la vergogna di aver bisogno di un uomo il cui Dio e le cui interpretazioni profetiche erano state solo un’ora prima apertamente disprezzate e sfidate.

Belshatsar dunque mandò a cercare Daniele, offrendogli la terza carica nel regno (dopo Nabonide e se stesso) per l’interpretazione dello scritto. Il suo approccio a Daniele cominciò in parte così: “Sei tu Daniele, uno degli esuli di Giuda, che il re mio padre condusse dalla Giudea?” (5:13). Ciò che la regina madre aveva detto riguardo a Daniele concerneva la sua eminenza sotto Nebukadnetsar, non le origini di Daniele. Belshatsar scelse di ignorare questo fatto, dando ogni evidenza che egli conosceva perfettamente chi fosse Daniele, e per ridurre Daniele al silenzio per quanto concernesse il predicare a lui, egli in effetti disse a Daniele; “Tu sei un Giudeo, portato qui prigioniero anni fa. Qualsiasi eminenza tu abbia guadagnato è eminenza Babilonese presa in prestito. Sii consapevole del tuo posto. Cosa può offrire a me o dirmi il tuo Dio, quando non può fare nulla per il suo popolo?” L’offerta di fare di lui la “terza carica del regno” (5:16) era un’offerta di restituzione dell’eminenza già posseduta sotto Nebukadnetsar, e dalla quale, probabilmente per motivi religiosi, era stato rimosso.

La risposta di Daniele fu impavida e incisiva: “Tieniti pure i tuoi doni e dà a un altro le tue ricompense; tuttavia io leggerò la scritta al re” (5:17). Daniele poi ricordò al monarca la sovranità di Dio, che “diede” a Nebukadnetsar tutto ciò che aveva posseduto, e poi “lo depose dal suo trono regale” per un periodo a motivo del suo orgoglio (5:18-20). L’orgoglio è qui chiaramente un aspetto della religione della continuità e ne è la premessa. Belshatsar, sapendo tutto questo, aveva proceduto deliberatamente in un percorso di disprezzo per Dio, un disprezzo manifestato nell’uso dei vasi del tempio, innalzando se stesso, cioè ponendosi al di sopra e in indipendenza dal “Dio, nella cui mano è il tuo soffio vitale e a cui appartengono tutte le tue vie” (5:21-23).

La scritta sul muro veniva da questo Dio, ed il suo significato era chiaro e diretto: MENE, MENE, TEKEL, UPHARSIN, o, come Young lo rende: MENE, MENE. TEKEL, UPERES [4].

Il quadro qui è quello della bilancia della Giustizia, quella divinità dell’antichità, che compare implicitamente o esplicitamente in una religione dopo l’altra, in Egitto, Babilonia, Persia, Grecia, Cina e Roma. La bilancia della giustizia compare anche nella chiesa di Roma, a San Michele Arcangelo, uno dei cui compiti nella vita a venire si afferma sia quello di pesare le anime dei morti su quella bilancia. Pere la Chaise, confessore Gesuita di Luigi XIV, lo sollecitò a revocare l’Editto di Nantes come mezzo per spostare favorevolmente la bilancia dell’Arcangelo Michele. In ogni religione fondata sulle opere, dovunque abbia il più pallido appiglio il concetto di auto-salvazione, compare il concetto della bilancia. È l’epitome, il simbolo più caratteristico dell’auto-giustificazione, dell’orgoglio religioso e dell’indipendenza da Dio, un concetto di merito che guadagna per l’uomo l’assoluzione da Dio e dalle sue richieste.

Ora, in conformità al proprio credo, Belshatsar viene pesato e condannato dal Dio sovrano. Si può permettere che un uomo abbassi la propria legge morale quanto voglia, ed egli la violerà e distruggerà lo stesso. Lasciatelo ridurre la giustizia alla nuda sincerità, ed egli sarà inevitabilmente un’ipocrita. L’uomo non può giustificare se stesso neanche nei termini di qualsiasi legge egli stesso crei, poiché, essendo un trasgressore del patto con Dio, non può evitare di essere un trasgressore del patto con se stesso essendo una creatura fatta ad immagine di Dio. Perciò, la sua vita è una di radicale alienazione non solo da Dio e dalla Sua parola, ma anche da se stesso, e da qualsiasi legge od ordinamento egli stesso crei.

MENE, MENE: “Dio ha fatto il conto del tuo regno e vi ha posto fine” (5:26).

TEKEL: “Sei stato pesato sulla bilancia, e sei stato trovato mancante”. (5:27).

PERES: “Il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani” (5:28). Nella parola PERES (diviso) c’è un’allusione a PARAS (la parola che viene tradotta persiano), che sembrerebbe indicare che i Persiani erano la potenza dominante nel dividere, o dissolvere Babilonia 5.

Essendo una questione di dignità religiosa e regale, Belshatsar mantenne la sua parola ed esaltò Daniele a terza carica dell’Impero (5:29). La stessa notte, Babilonia cadde e Belshatsar fu ucciso. Ciro aveva deviato le acque dell’Eufrate ed era entrato nella città, secondo la propria dichiarazione, senza incontrare ostilità o battaglia. Dario il Medo, all’età di sessantadue anni, divenne re di Babilonia.

Per il credente, la bilancia della giustizia è un concetto impotente. Vivo in Cristo, egli è libero dal potere del peccato e della morte; vivendo per grazia, non è sotto la sentenza della legge. La croce di Cristo è la Carta della libertà. La radicale alienazione dell’uomo da Dio, dall’uomo e da se stesso è distrutta, e la libertà comincia a diventare l’ordinamento della sua vita, la libertà della creature, libertà di essere un uomo sotto Dio e vice reggente della creazione. Ma fino a quando l’uomo, in religione, politica o qualsiasi altra area di vita cerca di essere dio, non può essere uomo o godere la libertà, la gloria o la franchezza dell’uomo la creatura. Egli inevitabilmente gravita intorno ad un concetto di legge quale fondamento dell’ordine, in contrasto al fondamento biblico di vita in Cristo, e la legge è sempre una sentenza di morte. Ogni legge egli crei, per quanto minima, lo rivela come trasgressore del Patto e uno che odia la legge, e ogni sua bilancia, per quanto falsificata, lo pesa lo stesso un uomo condannato. La legge della sua vita diventa perciò la morte, mentre la legge del credente è la vita e la natura di Cristo e una gloriosa libertà. La legge della morte, mentre opera nell’uomo, richiede a gran voce il giudizio e la tomba, e gli uomini invocano e creano il loro proprio giudizio, modellano il proprio inferno, e rifiutano di permettere alle loro culture e alla loro storia di essere altro che una vendemmia d’ira e un triste racconto di auto-punizione. Confrontati col destino da essi stessi invocato, i Belshatsar della storia ritornano al loro vino e aspettano la morte.

Note:

1 Raymond Philip Dougherty, Nabonidus and Belshazzar, A Study of the Closing Events of the Neo-Babylonian Empire; New Haven. Yale, 1929, p. 146. Lo studio di Dougherty da eccellenti evidenze dell’affidabilità storica di Daniele confermando l’esistenza e la posizione di Belshazzar. Vedi anche Edwin Yamauchi, Greece and Babylon; Grand rapids. Backer Book House, 1967, p. 70s, 89ss.
2 Ibid., p. 87-92
3 Young, Commentary on Daniel ad. loc.
4 Young, Commentary., ad loc.
5 Young: Commentary, p. 127.


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