DANIELE 4
IL CENTRO RITUALE DELLA TERRA
La torre di Babele fu un’affermazione del concetto di continuità e un tentativo, mediante l’unificazione statale della società e di un programma di auto-giustificazione, di raggiungere il cielo, di rafforzare la continuità con le potenze celesti partecipando nell’opera di redenzione del mondo. Non è la “malvagità” del “peccato e della carne” che caratterizzò la Torre di Babele e la proseguente città di Babilonia, la grande “madre delle meretrici” (Riv. 17:5); ma il suo statuto di giustizia rivale e rivale concetto di unità e di redenzione.
Con la loro architettura, le Ziggurat babilonesi, scale verso il cielo, affermavano il concetto di continuità. In tutte le fedi in tali torri, pietra dopo pietra, passo dopo passo, piano dopo piano, grado dopo grado, l’uomo arriva al cielo e fa del regno dell’uomo l’obbiettivo e la realtà della storia.
Il “Concetto di Centro” era strettamente in relazione a questo sogno. Il quadrato ed il cubo, antichi simboli di perfezione, di completezza e di piena comunione, divennero simboli vitali della vera città dell’uomo: Babilonia la Grande. Akhenaton costruì una città secondo un progetto quadrato, e, secondo Erodoto, anche Babilonia era un quadrato. Lo stesso concetto compare anche negli scritti di alcuni pensatori Greci [1]. Il Centro, il Trono e il Santuario erano in relazione ed erano basilarmente lo stesso concetto, nel fatto che il concetto di continuità identificava gli dei, lo stato e l’uomo e li considerava esistenti in una società celebrata in un punto focale rituale. Tanto Gerusalemme che Gherizim erano considerate da alcuni Giudei e da alcuni Samaritani in simili termini (Gv.4:20), cosicché il concetto pagano di un centro rituale sembra si potesse trovare anche in Israele, non solo ai giorni di Geremia ma anche al tempo di Cristo [2]. Contro tutto questo, il Nuovo Testamento affermò enfaticamente, come fece pure il Vecchio (Sl. 87 ecc.), che il vero centro non è nell’uomo, né nel suo regno o città, ma in Cristo e nella sua Nuova Gerusalemme, una città costruita “quattroquadrati”, un cubo perfetto, col “trono di Dio e dell’Agnello” (Ap. 22:1) quale sorgente di ogni cosa. Riservando il trono a “Dio e all’Agnello”, piuttosto che all’Agnello come tale, la Trinità ontologica è posta al centro focale, e non Dio solamente come rivelato e messo in relazione con la creazione. In quanto Alfa e Omega, questo Cristo è visto anche come al di là della creazione e discontinuo con essa, mentre è incarnato senza confusione di nature.
Questo concetto del vero centro era stato presentato nel disegno del tabernacolo. Il Santissimo era un cubo. L’accampamento d’Israele, l’assemblea della Chiesa di Dio era un quadrato, come illustra chiaramente Numeri 2, col tabernacolo o trono di Dio al centro. Questa forma, data per mezzo di una rivelazione sul monte (Es. 25:9,40; Nm.8:4; Ez. 43:10; Eb. 8:5), era disegnata per presentare e affermare il vero e trascendente centro, trono e santuario, e attaccare con ciò tutti i concetti puramente immanentisti.
Il concetto Babilonese di continuità era chiaramente presentato nella forma dell’investitura del re Caldeo, che consisteva in essenza nel “prendere la mano del dio”, un rituale osservato da tempo immemorabile e seguito anche dagli Assiri a Ninive, e dai suoi conquistatori, ad esempio Sennacherib, Esaraddon, e Assurbanipal in Babilonia. Ciro, nel conquistare Babilonia, divenne re agli occhi dei Babilonesi solo dopo “aver preso la mano del dio” ad Esagila [3]. Con questo rituale, l’impero, nella persona del re, assumeva comunione con gli dei sulle basi di una vita comune.
Un ulteriore simbolo presentava la natura della continuità in forma animata, l’albero o “palo” come centro rituale della terra. Questo albero sacro o colonna sostiene il cielo ed è l’albero della vita, il legame tra cielo e terra. Poiché un albero è una cosa vivente, quest’albero della vita presenta dunque un legame in crescita, un concetto in chiara ostilità con l’albero protetto della rivelazione Biblica (Ge. 3:24). Ancora, il concetto di re pastore affermava l’autorità divina ed il potere del monarca, il quale, come guardiano del suo popolo, controllava il loro destino, che era inseparabile dalla loro vita come soggetti (sudditi) dello stato. Contro tutto questo, YHWH, Dio il Padre e Gesù Cristo, Dio il Figlio, sono dichiarati essere il Buon Pastore (Sl.23; Gv. 10:11; 1 Pt. 2:25), e la Sapienza o Logos, Cristo è il vero albero della vita (Ge.2:9; 3:22; Pr.3:18; 11:30; Ez. 47:7, 12; Riv. 2:7; 22:2,14). Per Nebukadnetsar, comunque, era naturale ed inevitabile, nei termini del concetto di continuità, sognare di sé come l’albero della vita per la sua generazione.
Ma per quanto “naturale” questo concetto potesse essere per Nebukadnetsar quale monarca Caldeo, egli era anche una creatura di Dio, e nei termini di questo fatto, la sua fede era “innaturale” ed un peccato. Il condizionamento culturale è reale, ma basilare alla condizione di ogni uomo è il fatto della sua creaturalità e della sua creazione ad immagine di Dio. Questa realtà primaria e determinativa non può essere obliterata dalle condizioni della storia o dalla tirannia di uomini e filosofie. Perciò, in ogni epoca, gli uomini sono inescusabili perché hanno volontariamente scambiato la verità di Dio con una menzogna (Ro.1:25) e si sono sottomessi alla menzogna comune e democratica preferendola alla impopolare parola di Dio.
In tali circostanze, Dio frequentemente usa le stampelle dell’uomo per testimoniare contro di lui svergognandolo con le sue stesse stampelle. Secondo Diodoro, i Caldei spiegavano i sogni come portenti, interpretandoli nei termini di regole dure e fisse come simboli Freudiani, e li ritroviamo spesso registrati come articoli importanti dello stato.
Il sogno di Nebukadnetsar, come Daniele osservò con turbamento “è per quelli che ti odiano” cioè “piacerà ai tuoi nemici” (4:19)4. Nebukadnetsar aveva visto se stesso come “un albero in mezzo alla terra” cioè il centro
rituale e albero della vita, “e la cui altezza era grande” (4:10). L’albero era “cibo per tutti” (4:12), sostegno e nutrimento per la sua generazione, cosicché Nebukadnetsar rappresentava il principio di vita per il suo tempo, l’albero di Dio, in cui erano manifesti il potere e la presenza di Dio. Il sogno, comunque, mostrò “un guardiano, un santo” (4:13) discendere dal cielo e pronunciare contro l’albero un decreto divino di abbattimento, con solo un ceppo da lasciarsi come origine di nuova crescita. Un cuore di bestia avrebbe sostituito quello umano, cioè il re sarebbe stato un animale, fino a che “passino su di lui sette tempi” (4:16), fino a che la pienezza del decreto fosse stabilita. La dichiarazione a Nebukadnetsar fu ancor più esplicita: “La cosa è decretata dai guardiani e la sentenza viene dalla parola dei santi perché i viventi sappiano che l’Altissimo domina sul regno degli uomini, egli lo dà a chi vuole e vi innalza l’infimo degli uomini” (4:17).
Questo sogno fu visto da Nebukadnetsar nel suo contesto culturale, ma il colpo fu capitale. Daniele chiarì anche la fonte del decreto, non “dei guardiani” ma “dell’Altissimo” (4:24), una sentenza di umiliazione a meno che Nebukadnetsar non avesse “posto fine” ai suoi “peccati e…iniquità, usando misericordia verso i poveri” (4:27).
Non c’è motivo di dubitare che, nei dodici mesi (4:29) prima che passasse la sentenza, Nebukadnetsar abbia provato a fare proprio questo. L’unico supposto ritratto di lui che abbiamo, un cammeo ora nel Museo di Berlino, indica una fisionomia onesta e sensibile. Nei termini dei suoi concetti Caldei, egli cercò d’essere quel re giusto che aveva sempre cercato di essere, ed ora ancor di più. L’iscrizione Grotefend indica la sua auto- valutazione: “Nebukadnetsar, il re giusto, il pastore fedele, che dirige l’umanità, che governa sui sudditi di Bel, Shamash e Marduk, l’arbiter, il possessore della sapienza, che si prende cura della vita, il sublime, l’instancabile, il mantenitore di Esagila ed Ezida, il figlio di Nabopolasser, re di Babilonia, io sono”. Nebukadnetsar poi scrisse della sua reverenza per il suo creatore, Marduk, la ricchezza dei suoi sacrifici, l’unificazione di “numerosi popoli” sotto Babilonia. “Sotto la sua continua protezione io ho radunato insieme tutta l’umanità nel benessere, e ho quivi immagazzinato grandi mucchi di frumento in quantità incalcolabili” [5]. Nabukadnetsar considerava se stesso il “pastore fedele”, nell’iscrizione Winckler “il pastore legittimo” [6] il divino re il cui amore per il dio-creatore era iniziato alla nascita. Egli aveva avuto successo nell’estendere il grande regno dei sogni di dio e dell’uomo portando numerosi popoli all’unità dentro ad un impero comune, impero dedicato alla giustizia e alla pace. Nell’Iscrizione di Borsippa, c’è una sincera richiesta all’ “eterno figlio, messaggero esaltato”, Nabu:
Proclama tu la lunghezza dei miei giorni, scrivi tu la mia progenie! Alla presenza di Marduk, il re del cielo e della terra,
il padre, mio generatore, guarda con favore sulle mie opere. Ordina ch’io riceva favore!
Possa Nebukadnetsar,
Il re, il restauratore,
esser reso per sempre stabile sulla tua bocca! [7]
In un’altra iscrizione Nabukadnetsar pregò:
In verità rispondimi
Con giudizi e con sogni! [8]
Con la sua reale dipendenza da Daniele, Nebukadnetsar diede prova dell’intensità del suo desiderio di essere giusto, ma il suo concetto di giustizia era completamente in termini Caldei. La struttura a gradini dei ziggurat, con ogni piano che recedeva successivamente, dava da una certa distanza l’apparenza di una scala gigantesca che raggiungeva il cielo, un simbolo appropriato di questa religione di continuità e della sua fede nell’unione tra cielo e terra. L’umiltà di Nebukadnetsar era reale, ma non era centrata in Dio, essendo posta nel contesto di uno che aveva preso la mano del dio per il suo popolo in solenne umiltà e orgoglio nella sua funzione di centro, trono, albero, pastore, colonna e gloria. In questa prospettiva, Dio era coinvolto nella dialettica della storia e non al di la di essa, il punto di coinvolgimento era Nebukadnetsar ed il suo impero.
Di conseguenza, Nebukadnetsar, nei termini della propria fede, parlò onestamente e con qualche solenne umiltà insieme ad orgoglio, nell’affermare: “Non è questa la grande Babilonia, che io ho costruito come residenza reale con la forza della mia potenza e per la gloria della mia maestà?” (4:30). Queste parole non devono essere interpretate come mero, vanaglorioso vantarsi, ma piuttosto come il felice e orgoglioso compendio di un uomo che gioisce nella sua opera e nella sua giustizia, affermando che il suo ordinamento è nei fatti l’adempimento del regno ed il reale centro rituale della terra, il punto focale umano della gloria divina. La dichiarazione è perciò un’affermazione della sua soddisfazione che la minaccia del sogno fosse stata bloccata, che il sogno, senza dubbio registrato negli archivi di stato come lo erano gli altri sogni, fosse stato fermato dalla giustizia umana del re e del suo ordinamento. Era la consumata espressione di giustizia autonoma, l’accentuazione di quella vera fede che Dio stava sfidando.
Fu in questo modo, precisamente nel momento in cui Nebukadnetsar credette che il regno fosse sicuramente stabilito, che arrivò la sentenza: “Il tuo regno ti è tolto” (4:31). Inoltre, dovunque l’uomo cerchi di diventare più che uomo, diventa meno che uomo. Qualsiasi suo tentativo di essere come Dio ha per risultato una riduzione della sua umanità e una ritirata nell’irrazionalità e nell’irresponsabilità. In Nebukadnetsar, il preteso albero della vita, questa metamorfosi si manifestò con ciò che è stato definito licantropia o più propriamente zooantropia, una malattia in cui l’uomo, odiando Dio e perciò anche se stesso come creato ad immagine di Dio, cerca di colpire Dio cercando di obliterare ogni traccia della propria umanità e dell’immagine divina in se stesso. Ci sono alcune evidenze che Nebukadnetsar fu completamente assente dal potere per quattro anni [9].
Il proposito dell’umiliazione di Nebukadnetsar era stato: “Finché tu riconosca che l’Altissimo domina sul regno degli uomini e lo dà a chi vuole” (4:25). C’è buona ragione per credere che l’esperienza di Nebukadnetsar sia culminata nella sua rigenerazione. Benché la sua proclamazione sia in parte espressa in termini politeisti, è significativo che tale riferimento compaia nella sua descrizione del proprio pensiero prima della sua guarigione. Certamente il documento è rimarchevole se paragonato ad altri documenti dell’antichità nella sua umiltà e confessione di peccato. La dichiarazione asserisce tre cose: 1) l’assoluta sovranità e discontinuità di Dio con l’uomo (4:34-35,37); 2) l’intera proclamazione è una dichiarazione di pentimento e 3) è una confessione di peccato. Molto meno viene richiesto a molti moderni “convertiti” ed esitare riguardo all’integrità di fede di Nebukadnetsar sembra ingiustificato. Inoltre, come il periodo posteriore di Giobbe fu benedetto più del precedente (Gb. 42:10-13), così Nebukadnetsar fu rafforzato nel suo regno “e la grandezza mi fu enormemente accresciuta” (4:36).
Il significato dell’intera attitudine di Nebukadnetsar è stata ignorata ma non è di poca importanza. Anche concedendo ai dubbiosi che il monarca non sia mai divenuto un vero adoratore, pure rimane il fatto che il segno della sua preferenza per Daniele ed i suoi associati, e per la loro fede, diede agli Ebrei una posizione privilegiata in quell’impero. Questo fu sufficiente per creare un sentimento anti-ebraico tra i Caldei sia allora (3:89) che più tardi (6:4) sotto Dario. La posizione degli Ebrei fu dunque di sicurezza, privilegio e prosperità, cosicché la loro cattività divenne non una maledizione ma una protezione. Erano sotto un re la cui attitudine verso Dio, anche con un minimo di interpretazione, se paragonata con quella dei re di Giuda, era migliore, e se, come Young abilmente argomenta, la sua fede era ora genuina, la loro situazione era marcatamente migliore. Così, anche nell’asprezza della cattività, la grazia, protezione e benedizione di Dio fu apertamente manifestata.
1 Platone, Protagora, 344; Aristotele, Retorica iii,11,2.
2 Vedi V. Burch, Anthropology and the Apocalipse; London, Macmillan, 1939, p. 202
3 G. R. Tabouis, Nebuchadnezzar; London: Routledge, 1931, p. 69.
4 L’A. sembra preferire questa traduzione tratta da Leupold: “Commentario a Daniele”.
5 Robert Francis Harper, Assirian and Babilonian Literature; traduzioni selezionate; New York: Appleton, 1904, p. 147-150
6 Ibid., p. 143
7 Robert Francis Harper: Op. Cit. p. 150-152
8 Ibid., p. 156s.
9 Tabouis: Op. Cit., p. 341.