Riformare o deformare
Il principio di semper reformanda afferma come il popolo di Dio debba continuamente riformarsi e riesaminare le proprie prospettive, avvicinandosi sempre più agli insegnamenti delle Scritture e allontanandosi dalle formulazioni e concezioni non bibliche che si sono insinuate nella dottrina e nella pratica. Questo processo può comportare uno “spostamento del pendolo”, allontanandosi da un estremo per avvicinarsi all’altro: la verità potrebbe trovarsi nel mezzo. Coloro che spostano il pendolo da una posizione errata rendono comunque un servizio alla chiesa, anche se lo spostano troppo; in tal modo, aprono almeno un dialogo cruciale ed avviano un riesame di una questione che potrebbe essere stata dichiarata come “chiusa” prematuramente.
Quando il pendolo è bloccato e nessuno se ne occupa più, un errore può persistere per secoli. Ma se il pendolo viene sbloccato e inizia ad oscillare di nuovo, allora tutti gli osservatori comprendono istintivamente che sarà necessario uno sforzo di discernimento, accompagnato dalla preghiera, per determinarne la posizione corretta. Coloro che hanno interessi personali potrebbero desiderare di rimettere il pendolo dov’era e resistere a tali riforme. E se il pendolo si trovava già nella posizione biblicamente corretta, ciò verrà alla luce in ogni caso.
Chiarito ciò, sembra come sia giunta l’ora di spostare un pendolo tradizionale dalla sua posizione consolidata. Si cercherà di non portarlo troppo lontano nella direzione opposta, ma poiché questo particolare pendolo è rimasto fermo per diversi secoli in una posizione cara alla leadership cristiana, qualsiasi tentativo di muoverlo non potrà che risultare sconcertante, suscitando forti proteste e condanne. È quindi fondamentale prevenire qualsiasi malinteso o travisamento di ciò che verrà affermato. Anticipare e correggere eventuali interpretazioni errate della nostra tesi sarà, dunque, un primo passo fondamentale.
La reazione più comune alla tesi che verrà presentata è la seguente: “State dicendo alla gente che non deve andare in chiesa!”. Questa falsificazione deve essere affrontata e smentita. Si è sviluppata una dipendenza errata (che non sarebbe mai dovuta sorgere) da un testo biblico che, superficialmente, sembrava utile come testo probante, al punto che il dover frequentare una chiesa e questo versetto sono ormai diventati inscindibili. Questo legame forzato rappresenta il vero problema: la motivazione fondante stabilita per quel che riguarda l’andare in chiesa si basa su un testo sbagliato.
L’ascesa di questo testo probante potrebbe benissimo correlarsi con l’indebolimento della chiesa nel XIX secolo, quando la gente iniziò ad abbandonarla in massa. Una parte della tesi qui presentata è che le varie “motivazioni” elaborate nel tempo per costringere alla frequenza della chiesa siano state il risultato della progressiva perdita di sale nelle chiese.
Di conseguenza, si è cercata una “spinta obbligatoria” alla partecipazione ecclesiale attraverso covenienti versetti utilizzati come prova dottrinale, mentre il concetto scritturale di un’attrazione inesorabile generata dall’insegnamento della legge di Dio (come esemplificato in Isaia 2:3) è stato dimenticato, minimizzato, reinterpretato o altrimenti respinto. Se si abbandona ciò che attira le persone in chiesa (l’insegnamento della legge di Dio, “lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino”), allora è necessario inventare altre motivazioni (intrattenimento, programmi, vari versetti probanti, ecc.) al fine diu colmare la conseguente mancanza di zelo per la casa del Signore. Finiremmo così per perdere il sentimento espresso dal salmista: “Mi sono rallegrato quando mi hanno detto: Andiamo nella casa del Signore” (Salmo 122:1).
La nostra tesi è che l’andare in chiesa aumenterebbe vertiginosamente se (1) il testo probante selezionato per la sua obbligatorietà venisse abbandonato e (2) la chiesa fornisse al mondo la luce della legge di Dio, l’intero consiglio di Dio, ponendo Cristo come totalmente preminente in ogni cosa. I leader ecclesiastici che reagiscono a questa tesi dicendo: “Questo parlare è duro; chi può udirlo?” (Giovanni 6:60) probabilmente non cambieranno mentalità. Ma viene loro notificato che l’uso di questo testo probante non passerà più inosservato.
È ironico che, se correttamente compreso, questo versetto possa in realtà essere completamente disobbedito anche da coloro che presentano un perfetto record di frequenza in chiesa. Questo fatto da solo dovrebbe spingerci a riesaminare questo pilastro della costrizione ecclesiastica per comprendere cosa questo testo della Scrittura comandi effettivamente. Saremo molto meglio serviti obbedendogli come è davvero inteso, piuttosto che deformandolo per adattarlo a un’agenda ecclesiocentrica. Semper reformanda o semper deformanda? Andiamo a vederlo.
Da almeno diversi secoli, ai cristiani è stato detto che la frequenza in chiesa è praticamente obbligatoria: ogni volta che la chiesa organizza riunioni per i suoi membri, questi sono obbligati (salvo malattia o altri validi motivi) a parteciparvi. Il testo probante più comune (e forse l’unico)[1] offerto a sostegno di questa imposizione morale è Ebrei 10:25, che dice: “Non abbandonando la nostra comune adunanza, come alcuni sono soliti fare, ma esortandoci a vicenda, e tanto più, che vedete avvicinarsi il giorno”.
L’interpretazione moderna di questo versetto è ben nota: “la nostra comune adunanza” viene con certezza equiparata alle funzioni della chiesa istituzionale, a partire dal culto della domenica (il giorno del Signore), con il sostegno presunto di 1 Corinzi 16:2 e Atti 20:7, citati per giustificare l’evoluzione della chiesa dalle riunioni quotidiane degli inizi (Atti 2:46) a quelle settimanali.
Sarebbe difficile trovare oggi un commentario moderno su Ebrei che si discosti significativamente da questa costruzione. (Si noti il tono deciso e sicuro con cui il Theological Dictionary of the New Testament (TDNT) di Bromiley afferma come, qualunque altra cosa si possa dire del versetto, il suo focus sia “cultico”, vale a dire centrato sulle riunioni formali della chiesa locale). Se mai fosse scritto un commentario che sfida questo consenso, sarebbe difficile immaginare che venga venduto nelle librerie delle chiese! Ebrei 10:25, come testo probante, è portatore infatti di un status quasi sacro. È l’ultimo versetto su cui la maggior parte delle chiese vorrebbe cedere terreno, poiché in esso è riposta la giustificazione morale per obbligare alla frequenza in chiesa.
Tuttavia, questo approccio monolitico a Ebrei 10:25 non è sempre stato la norma. In un’epoca in cui la ricerca teologica era meno influenzata da interessi istituzionali, era possibile per gli studiosi esaminare il versetto in modo più rigoroso, grammaticalmente accurato e coerente con il contesto.
Oggi è difficile trovare esposizioni simili. Anche gli esperti che conoscono questi studi precedenti non citano direttamente le parti rilevanti, ma estrapolano solo frammenti, senza mai arrivare al nocciolo della questione. Inoltre, anche i migliori approcci moderni non riescono a cogliere il riferimento incrociato nell’Antico Testamento a cui Ebrei 10:25 quasi certamente si riferisce, ovvero Malachia 3:16–18.
Vale la pena esaminare una di queste citazioni (frammentarie) di esposizioni antiche e più rigorose in un teologo moderno riconosciuto. Troviamo, per esempio, un’allusione ad un frammento del quadro complessivo nel commentario del 1977 di Philip Edgcumbe Hughes su Ebrei, in cui egli fa un rapido riferimento al significato di episynagoge (“radunarsi insieme”) secondo Johann Albrecht Bengel (1687–1752). Tuttavia, Hughes rende un pessimo servizio a Bengel nel modo in cui lo cita, poiché Bengel aveva elaborato un approccio sistematico all’interpretazione di Ebrei 10:25 che non può essere valutato adeguatamente senza considerare il peso complessivo della sua intera analisi. Estrapolando solo una piccola parte dell’argomento di Bengel, Hughes dà l’impressione di un’analisi approfondita, ma in realtà l’argomentazione completa di Bengel non viene mai realmente presa in esame. Ci si potrebbe chiedere il motivo di questa omissione.
Esaminiamo ora la prospettiva di Bengel, che alle orecchie moderne potrebbe sembrare una decostruzione radicale di Ebrei 10:25, ma che in realtà rappresenta l’interpretazione più solida dal punto di vista grammaticale. Essa è necessariamente di natura tecnica, ma non per questo meno rilevante. Eccola:
Il radunarsi insieme—La versione moderna greca interpreta episynagoge come equivalente a sychnosynazin, ovvero il raduno di una moltitudine; ma l’apostolo allude alla sinagoga giudaica, mentre la preposizione epi modifica in qualche misura il significato della parola. Il senso è: non dovreste solo frequentare la sinagoga come Ebrei, cosa che già fate volentieri, ma anche (secondo la forza aggiuntiva di epi nella composizione) l’assemblea come Cristiani; e tuttavia, un raduno in un unico luogo non è strettamente implicato, né lo è un’associazione finalizzata alla promozione di una fede comune. Piuttosto, l’espressione è usata in un senso intermedio, riferendosi al mutuo radunarsi nell’amore e all’interazione pubblica e privata nei doveri cristiani, in cui un fratello non si sottrae all’altro, ma si stimolano reciprocamente. Poiché persino il calore spirituale separa ciò che è di natura diversa e unisce ciò che è simile. Questa interpretazione spiega l’ordine del discorso, nel quale, subito dopo la fede in Dio, viene raccomandato l’amore per i santi; il sostantivo verbale episynagogen, radunarsi insieme, e il fatto che esso sia singolare; il pronome, che è eautoon, di noi stessi, non nostro; il rimprovero, ‘come alcuni sono soliti fare’; e l’antitesi, ‘esortandoci a vicenda’. Alcuni—Forse coloro che temevano i Giudei. Esortandoci—Il potere dell’esortazione, che è richiesto, include il fervore peculiare di ogni individuo. E tanto più—Questo si riferisce all’intera esortazione a partire dal versetto 22: si confronti con il versetto 37. Vedete—Dai segni dei tempi e dalla consumazione del sacrificio stesso per il peccato, versetto 13. Il giorno che si avvicina—Il giorno di Cristo[2].
Si noti come Bengel smantelli l’idea che il versetto debba essere inteso esclusivamente in un contesto ecclesiastico (istituzionale). Egli lo applica a tutti i livelli dell’esortazione reciproca tra credenti, indipendentemente dal contesto formale, in perfetta coerenza con il fatto che il versetto presenta l’esortazione come il contrario dell’abbandono della episynagoge. Dato che nel testo greco è utilizzata la forte avversativa alla, il termine episynagoge—che persino il TDNT di Bromiley riconosce come “di significato più difficile da fissare”—dovrebbe essere inteso in un senso in cui il suo abbandono si oppone al significato dell’esortazione.
Ancora più importante, Bengel mantiene il legame tra la conclusione del versetto (che parla del giorno del giudizio imminente) e il corpo principale del testo. Questo è significativo perché aiuta ad identificare il passo parallelo appropriato alla tematica centrale di Ebrei 10:25, che si trova in Malachia 3:16–18, una sezione che segue immediatamente la descrizione delle “parole arroganti” pronunciate contro il Signore da parte degli schernitori in Malachia 3:13–15.
La Versione Autorizzata traduce Malachia 3:16–18 nel modo seguente:
Allora quelli che temevano il Signore si sono parlati l’un l’altro, e il Signore ha prestato attenzione e ha ascoltato; un libro del ricordo è stato scritto davanti a Lui per quelli che temono il Signore e che pensano al Suo nome. Ed essi saranno Miei, dice il Signore degli eserciti, nel giorno in cui farò la Mia proprietà particolare; e li risparmierò, come un uomo risparmia il proprio figlio che lo serve. Allora voi ritornerete e discernerete tra il giusto e l’empio, tra chi serve Dio e chi non Lo serve.
F. Keil offre una traduzione più accurata del passo:
Allora quelli che temevano il Signore conversavano tra loro, e il Signore prestava attenzione e ascoltava; e un libro del ricordo è stato scritto davanti a Lui per quelli che temono il Signore e riveriscono il Suo nome. Ed essi saranno per Me una proprietà, dice il Signore degli eserciti, per il giorno che Io creo, e li risparmierò come un uomo risparmia il proprio figlio che lo serve. E voi riconoscerete nuovamente la differenza tra il giusto e l’empio, tra chi serve Dio e chi non Lo serve.
Il “giorno che si avvicina” menzionato in Ebrei 10:25 è lo stesso giorno di cui si parla qui in Malachia 3:17–18, ovvero il giorno del Signore, un giorno di giudizio divino temporale. In entrambi i passi, il dialogo esortativo, onorando Dio, è strettamente legato alla consapevolezza di un giorno di giudizio imminente.
F. Keil commenta ulteriormente questo passaggio di Malachia:
L’introduzione con ‘allora’ indica che la conversazione di coloro che temevano Dio è stata suscitata dalle parole degli empi. Il contenuto di questa conversazione non è descritto in dettaglio, ma può essere dedotto dal contesto, ovvero dalla posizione che il Signore ha assunto nei loro confronti. Da ciò possiamo vedere che essi si rafforzavano nella loro fede nel Signore, riconoscendolo come Dio santo e Giudice giusto, il quale, a tempo debito, avrebbe ricompensato sia gli empi che i giusti secondo le loro opere, creando così un forte contrasto con la massa che pronunciava parole blasfeme. Questa descrizione della condotta dei pii è un’ammonizione indiretta per il popolo, indicando quale avrebbe dovuto essere il suo atteggiamento nei confronti di Dio. Ciò che è stato fatto da coloro che temevano il Signore avrebbe dovuto servire da modello per l’intera nazione che dichiarava di appartenere al Signore. Il Signore non solo ha preso nota di queste conversazioni, ma le ha fatte scrivere in un libro del ricordo, per ricompensarli a tempo opportuno…[3].
Keil collega poi questo passo al “giorno”, affermando che “il giorno che il Signore crea è il giorno del giudizio che accompagna la Sua venuta”. L’autore di Ebrei collega altresì il “giorno che si avvicina” alle esortazioni e alle conversazioni reciproche che dovrebbero moltiplicarsi in un’epoca di giudizio imminente, il quale, di fatto, si profilava all’orizzonte per Gerusalemme e Israele, mentre la nazione si dirigeva verso il fatale conflitto con Roma.
Da Bengel apprendiamo che la natura della episynagoge non può essere attribuita esclusivamente ai culti formali e istituzionali, che del resto non sono in vista nemmeno in Malachia 3:16. Anzi, troviamo una condanna generale di tali assemblee formali in Amos 5:21, una condanna che scaturisce dall’iniquità dilagante della nazione, la quale ha creato una frattura tra Dio e gli ipocriti che si professano custodi della Sua legge e della Sua Parola (cfr. Ger. 8:8ss.), un contrasto significativo reso esplicito nei primi capitoli di Isaia[4].
Le parole che circondano episynagoge in Ebrei 10:25 sono diverse da quelle presenti in 2 Tessalonicesi 2:1, dove lo stesso termine ricorre, e Bengel tiene conto di questa differenza, a differenza di altri commentatori che invece la trascurano. In Ebrei 10:25, la traduzione italiana (Diodati) di episynagoge eautoon è “la comune nostra raunanza”, mentre in 2 Tessalonicesi 2:1 la traduzione è “nostro adunamento in lui” (per rendere episynagoges ep auton). Queste espressioni non hanno lo stesso significato, e Bengel riconosce le differenze nella formulazione e nella logica grammaticale interna dei versetti in cui esse compaiono. Il termine episynagoge si riferisce a ogni forma di comunione tra i fedeli che sia edificante ed esortativa. Questo si collega perfettamente con il contesto immediatamente precedente in Ebrei 10:24, dove si esorta a “considerare come stimolarci a vicenda nell’amore e nelle opere buone”. Questo invito introduce l’idea di episynagoge, che, secondo Bengel, comprende ogni interazione pubblica e privata tra credenti che abbia una funzione di edificazione spirituale.
Un approccio del genere al versetto implica che Ebrei 10:24–25 non possa più essere utilizzato come un versetto dottrinale inconfutabile a sostegno dell’obbligo di frequentare i culti istituzionali, ma piuttosto ponga lo stesso dovere espresso in Malachia 3:16, in un modo che può essere altrettanto decentralizzato e svincolato dal culto formale, proprio come nel contesto di Malachia. Come già affermato, ciò significa che una persona potrebbe avere una partecipazione perfetta ai culti ufficiali e tuttavia non obbedire mai realmente al comando di Ebrei 10:25, semplicemente venendo meno al dialogo fraterno nel senso prescritto qui e in Malachia 3. È proprio a questo atteggiamento che si rivolge Isaia 1:12: “Quando venite a presentarvi davanti a me, chi ha richiesto questo da voi, di calcare i miei cortili?”. L’accusa di Isaia contro la religione istituzionale priva di giustizia in Isaia 1:10–15 è posta in netto contrasto con il potere di attrazione della casa di Dio come centro della proclamazione della Sua legge (Is. 2:3).
Quando la legge di Dio viene osservata e predicata, il popolo affluisce con gioia alla Sua casa e spinge altri a fare lo stesso. Vi è allora una solida base affinché gli uomini si esortino reciprocamente, dicendo: “Venite, saliamo al monte del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; egli ci insegnerà le sue vie e noi cammineremo nei suoi sentieri, poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore” (Is. 2:3). Tuttavia, Sion è un monte che, secondo Ebrei 12:18, “non si può toccare”, sebbene tutti i cristiani vi siano già “giunti” (Ebr. 12:22).
L’arbitraria ed infondata riduzione del Regno alla sola chiesa locale rappresenta una limitazione impropria imposta al testo, apparentemente motivata dal desiderio di ricavare un versetto dottrinale utile ad imporre la frequenza ai culti. Lungi dall’applicarsi alla partecipazione ai servizi ecclesiastici, Isaia 2:3 descrive un contesto in cui i popoli si esortano con entusiasmo a venire e ad apprendere la legge di Dio, attirati dal contenuto delle funzioni basate sulla Sua legge, dalla musica (Sal. 119:54) e dai sacramenti del battesimo e della comunione—intesi come un vero banchetto d’amore e non nella loro versione riduttiva in forma simbolica. Al contrario, il versetto di Ebrei 10:25 è spesso impiegato per costringere alla partecipazione (“calcare i cortili” di Dio di Is. 1:12), a prescindere da quanto il culto possa apparire privo di attrattiva o spiritualmente morto.
È significativo, inoltre, che una volta accantonato Ebrei 10:25 come un testo probante inadeguato per sostenere l’obbligatorietà della frequenza ai culti, non sembrino esservi altri brani scritturali in grado di sostenerne l’obbligo di andare in chiesa. Per di più, nell’Antico Testamento non si riscontra alcun precedente evidente a supporto dell’interpretazione comunemente accettata di Ebrei 10:25, qui contestata. Anche i pochi riferimenti incrociati che, a prima vista, sembrano imporre l’obbligo di presentarsi nella casa del Signore (ad esempio, Zacc. 14:16–19) si rivelano inconsistenti ad un’analisi più attenta—nel passo citato, l’Egitto è minacciato di siccità se il popolo non compare davanti al Signore per adorarlo e celebrare la festa delle capanne. Se Ebrei 10:25 menzionasse la pioggia trattenuta come sanzione contro una scarsa partecipazione ai culti, si potrebbe stabilire un nesso con questo passo, ma ciò contrasterebbe con l’affermazione del Signore in Giov. 4:23–24 e con l’interpretazione globale di Gerusalemme, Sion e Israele insegnata in Ebrei 12:22, Salmo 87 e Isaia 27:6, tra altri passi.
Di fronte alla tesi qui presentata, alcuni teologi ben intenzionati hanno cercato di sostenere la tradizionale interpretazione di Ebrei 10:25 citando presunti riferimenti incrociati (un metodo legittimo, poiché un cambiamento di prospettiva di tale portata deve essere attentamente valutato e discusso). A tal fine, è stato invocato Isaia 58:13, che esorta a non seguire le proprie vie, astenersi dal proprio piacere e non pronunciare parole vane nel giorno del sabato, come sostegno alla visione convenzionale.
Tuttavia, tale riferimento non risolve il problema sollevato, poiché in questo capitolo di Isaia il culto formale è del tutto assente. L’enfasi è piuttosto posta sulle violazioni individuali della legge di Dio e sulla loro correzione, sostituendo il culto formale (come i digiuni rituali, vv. 3–5) con la giustizia personale e l’osservanza della legge (vv. 6–7) secondo il Suo patto divino. Solo sostituendo arbitrariamente il termine “sabato” con “servizio ecclesiastico” si potrebbe giungere alla moderna interpretazione imposta a questo passo.
Come affermato sin dall’inizio, non si sta sostenendo che nessuno debba andare in chiesa. Ciò che si afferma è che la partecipazione alle funzioni ecclesiastiche dovrebbe essere motivata da un’attrazione derivante dalla Parola e dalla legge di Dio, non da un’imposizione forzata estratta in modo improprio da un’interpretazione errata di un unico passo della Lettera agli Ebrei. Utilizzare l’espressione “non abbandonando la nostra comune adunanza” come una clava contro i cristiani si ritorcerà contro coloro che ne abusano. Il testo deve essere impiegato correttamente, senza strumentalizzazioni dettate dall’opportunità o da considerazioni pragmatiche.
Occorre sottolineare che vi sono cose più importanti di un servizio ecclesiastico: chi porta un’offerta all’altare deve prima riconciliarsi con il proprio fratello, per poi tornare a presentare l’offerta a Dio. Questo principio si armonizza con l’affermazione di Giovanni secondo cui non si può amare Dio, che è invisibile, se non si riesce ad amare il proprio fratello, che si vede. Ancora più significativo è il fatto che, mentre il mancato sostegno finanziario alla propria famiglia rende una persona “peggiore di un infedele”, nella Scrittura non troviamo una condanna altrettanto severa per l’assenza ai culti[5].
Pur non opponendosi alla partecipazione regolare alla chiesa, si deve riconoscere che la “comunità e comunione” nelle nostre chiese antinomiane ha solo peggiorato l’apostasia spirituale nei confronti del Signore. Questo lascia pensare come le nostre priorità siano sballate: dovremmo porre la legge al centro del nostro “fare chiesa” (e ciò non farebbe che esaltare ulteriormente il Vangelo). Poiché la legge può solo essere abbracciata, mai imposta, dovremmo applicare questo stesso principio anche alla comunione ecclesiale. Se promuoviamo la legge di Dio, la promessa di Isaia 2:3 si realizzerà, e popoli e nazioni accorreranno ai “servizi ecclesiastici” con un ardente desiderio di ricevere i tesori della Sua legge[6].
Fino a quando non ristabiliremo il vero significato di “chiesa”, l’idea di renderne obbligatoria la frequenza (imponendola con un presunto testo probante) rimane priva di un solido fondamento biblico. “Il tuo popolo si offrirà volenteroso nel giorno della tua potenza” (Sal. 110:3) promette la Scrittura. L’imposizione di frequentare [7] i culti, facendo leva su Ebrei 10:25, sembra riflettere la stessa mentalità che rivendica per la chiesa l’intera decima, mentre in realtà essa ha diritto solo alla decima della decima (Neemia 10:38). Questi due esempi di sovrapposizione indebita (partecipazione obbligatoria e decima) nascono dallo stesso atteggiamento ed entrambi devono essere corretti alla luce della Scrittura.
Questa non sarà una battaglia facile né rapida. Di principio, la visione basiliocentrica (centrata sul Regno) dovrebbe armonizzarsi magnificamente con le prerogative ecclesiali in una gloriosa unità di intenti, ma le tendenze ecclesiocentriche distorcono questa relazione. Le numerose correzioni necessarie alle pratiche moderne della chiesa potrebbero persino richiedere una vera e propria seconda Riforma—c’è, infatti, un’enorme quantità di vino nuovo che rischia di far scoppiare molti otri vecchi.
Semper deformanda o semper reformanda? Non vi è alcuna motivazione a riformare qualcosa se non lo si considera prima deformato. Ma il ripristino del significato originario della Parola di Dio non può che essere benefico. Poiché essa è la Parola del Re, può soltanto guarire le nostre infermità quando la comprendiamo correttamente. E con i giudizi divini che probabilmente si profilano all’orizzonte, faremmo bene a conversare ed esortarci reciprocamente, come in realtà insegnano Malachia ed Ebrei, poiché Dio ha promesso di scrivere un libro di ricordo contenente i nomi di coloro che si sono esortati l’un l’altro mentre il giorno si avvicinava.
Il tuo nome sarà in quel libro?
Originale: https://chalcedon.edu/resources/articles/reforming-or-deforming
[1] Si possono, ovviamente, citare esempi della prassi storica del Nuovo Testamento riguardo alla consuetudine della partecipazione ai culti, ecc., ma si veda la nota n° 6 qui sotto.
[2] Johann Albrecht Bengel, Gnomon del Nuovo Testamento, vol. 2, edizione Kregel, p. 650.
[3] C. F. Keil e F. Delitzsch, Commentario dell’Antico Testamento, vol. 10 (Grand Rapids: Eerdmans, n.d.), p. 466m.
[4] L’attrazione magnetica esercitata dal monte della Casa del Signore in Isaia 2:3, per cui i popoli della terra si esortano l’un l’altro a salire per apprendere le Sue vie e la Sua legge, è in netto contrasto con le istituzioni religiose della nazione, così duramente condannate in Isaia 1:10-15, forse mai in modo così severo come nella domanda penetrante posta in Isaia 1:12: “Chi ha richiesto questo da voi, che veniate a calcare i Miei cortili?” [maiuscole aggiunte].
[5] Esiste un passo in cui un noto leader si lamenta del fatto che alcuni non si trovassero in chiesa come avrebbero dovuto in occasione di un grande raduno spirituale, ma la decisione finale non andò a favore del critico. Cfr. Numeri 11:24-29.
[6] Descrivendo le sinagoghe del suo tempo, Cristo dice dei farisei e degli scribi che essi “siedono sulla cattedra di Mosè: Fate dunque e osservate tutte le cose che vi diranno”. In altre parole, l’esempio di Cristo nel frequentare i luoghi di culto si fondava sul fatto che la legge veniva proclamata dalla congregazione locale, che almeno nominalmente era di orientamento teonomico—ed è proprio questo il punto sottolineato nel testo sopra. I cristiani sono chiamati a “stabilire la legge” (Rom. 3:31). È la chiesa antinomiana che ricorre a testi probanti errati, tentando di tappare con un dito una falla nella diga. La falla è causata dall’antinomismo stesso e l’appello ad Ebrei 10:25 viene usato solo per un sollievo sintomatico, senza mai curare la malattia sottostante.
[7] È interessante notare che la maggior parte dei ricostruzionisti si oppone all’istruzione obbligatoria quando è imposta dallo Stato. Tuttavia, questa incoerenza passa inosservata, poiché nessuno ha mai messo in discussione se il presunto testo probante fosse stato interpretato erroneamente. Questo è un ulteriore esempio che conferma l’acuta osservazione del Dr. R. J. Rushdoony, secondo cui il termine “traduttore” è linguisticamente legato al termine “traditore”, nella misura in cui una traduzione errata può tradire l’Autore stesso.