Acquisire una giusta prospettiva sulla tribolazione

Di Phillip G. Kayser, sermone del 11/10/2015

Parte della serie “Progetto Apocalisse”

Quando le circostanze si fanno avverse, risulta comune e naturale cadere vittima della paura o manifestare reazioni sconvenienti. Tuttavia, la lettera indirizzata alla chiesa di Smirne, oggetto centrale di questo sermone, offre una preziosa guida attraverso la quale i credenti possono affrontare le tribolazioni con piglio sicuro. In particolare, Giovanni articola sette cambiamenti di prospettiva che consentono ai cristiani non solo di resistere nelle difficoltà, ma anche di farlo con una disposizione d’animo gioiosa.


Leggiamo Apocalisse 2, versi da 8 a 11:

8 E al messaggero della chiesa in Smirne scrivi: queste cose dice il Primo e l’Ultimo, che fu morto e tornò in vita: 9 ‘Io conosco le tue opere e la tua tribolazione e la tua povertà (tuttavia tu sei ricco), e la calunnia di coloro che si dicono Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana. 10 Non temere nulla di ciò che stai per soffrire: sappiate che il diavolo sta davvero per gettare alcuni di voi in prigione per mettervi alla prova, e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. 11 Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: chi vince non sarà certamente colpito dalla morte seconda’[1].

Introduzione: qual era la causa della tribolazione?

Possiamo ringraziare il Signore di come in America sia ancora possibile godere di una libertà straordinaria, se paragonata a quella di molti altri paesi del mondo. Tuttavia, anche qui da noi la situazione sta iniziando a peggiorare. L’Alliance Defending Freedom, il Rutherford Institute, il Liberty Institute e altre organizzazioni cristiane di difesa legale si trovano sempre più spesso a dover intervenire in aiuto di fioristi, panettieri, fotografi, infermieri, medici, scuole cristiane, pastori e semplici membri di chiese, tutti colpiti da multe ingenti per presunti “crimini d’odio”. Ed è bene precisare come, in realtà, questa espressione equivalga sempre più al credere alla Bibbia con parole e azioni. Parliamo qui di lotta all’aborto o del rifiuto di santificare unioni omosessuali, per esempio. È noto il caso di una nonna settantenne, arrestata per aver distribuito trattati evangelistici in luogo pubblico durante un gay pride a Filadelfia: un’accusa per la quale ha rischiato addirittura quarant’anni di carcere. Il Liberty Institute ha documentato centinaia di casi di cristiani messi alle strette per le proprie convinzioni religiose. Dunque, sebbene in questo paese godiamo ancora relativamente di molta libertà, diverse forme di persecuzione stanno iniziando ad aumentare. E il passo di Apocalisse 2:8-11 vedremo come potrà essere una fonte meravigliosa di coraggio e speranza per scacciare via la paura.

E poiché la paura non risparmia nessuno e si manifesta in ogni ambito, spero che il messaggio di questo sermone possa fornirci applicazioni utili anche per altri tipi di situazioni meno gravi e più ordinarie. So, per esempio, di cristiani che temono di volare in aereo, che convivono con il timore di subire rapine o, molto più banalmente, anche solo di sottoporsi ad una visita dentistica. Sì, conosco un eminente teologo che ha ammesso di provare un profondo terrore ogniqualvolta ha necessità di andare dal dentista. Ci sono persone che, addirittura, hanno bisogno di anestesia anche solo per affrontare una semplice pulizia dentale, pensate. La scrittrice Elva Minette Martin ha raccontato di come soffrisse di veri e propri attacchi di panico, passando notti insonni prima delle visite, tormentata dalla paura di non riuscire a deglutire, respirare o muoversi una volta seduta sulla poltrona del dentista. La sua testimonianza del successo che l’ha vista passare dal terrore assoluto alla serenità vedremo come può avere direttamente a che fare con diversi passi che esamineremo in questa lettera alla chiesa di Smirne. Martin racconta come Dio l’abbia guidata a riconoscere la paura come peccato. (E sì, quello della paura è un peccato a tutti gli effetti. Se non comprendiamo quanto spesso la paura sia peccaminosa, non riusciremo a raggiungere i grandi risultati della chiesa di Smirne). Ad ogni modo, Martin descrive il percorso che l’ha portata a riconoscere la propria paura come peccato, il processo attraverso il quale l’ha superata e la gioia della prima visita dal dentista affrontata senza alcun timore. Voglio citarvela:

Che momento gioioso! Dio ha sospeso la mia paura. Non avrei mai pensato di poter dire che andare dal dentista fosse un’esperienza meravigliosa – eppure lo è stata. Non per ciò che accadeva intorno a me o per quello che succedeva a me, ma per ciò che avevo nel cuore. Con il suo aiuto, sto imparando a dire: “Dio è al comando; non avrò paura”[2].

Come mai trovo utile portare alla vostra attenzione una tale testimonianza? Beh, il punto è che, se non impariamo le strategie necessarie per superare le piccole paure della vita quotidiana, è imporbabile che saremo pronti ad affrontare efficacemente quelle suscitate dalla persecuzione. Ecco, quindi, un test: se fosse Gesù stesso a rivolgervi in prima persone le parole del versetto 10, vi sentireste in grado di affrontare il futuro senza paura? Rileggiamole: “Non temere nulla di ciò che stai per soffrire: sappiate che il diavolo sta davvero per gettare alcuni di voi in prigione per mettervi alla prova, e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita”.

Per molti una tale prospettiva futura potrebbe scatenare il panico, no? È così anche per voi? Sapere di essere prossimi all’imprigionamento, forse alla tortura e sicuramente alla morte, non vi farebbe sprofondare nella più cupa delle paure? Questi cristiani avevano già assistito al saccheggio delle loro proprietà, vivevano nella povertà e, in questa lettera, Gesù fa loro capire che tempi ancora più difficili si parano all’orizzonte. Che storia!

Tuttavia, per Gesù, il conforto non consiste nell’ignorare o nascondere i problemi futuri. Incoraggiare significa piuttosto cambiare la prospettiva dei suoi riguardo alle difficoltà che hanno da affrontare. Due persone possono trovarsi di fronte alla stessa tribolazione: una può provare paura, mentre l’altra no. La differenza non risiede in fattori esterni, ma interni. Il punto di vista, il modo con cui si vedono le cose, gioca un ruolo cruciale. La lettera a Smirne mette a disposizione ben sette cambiamenti di prospettiva a coloro che si sentono preoccupati per le proprie afflizioni.

Gesù aveva dato ai credenti di Smirne una chiesa e dei ministri che si prendevano cura di loro (v. 8a)

Il primo punto sul quale concentrarsi è che non siamo soli. Ciò può e deve cambiare la nostra prospettiva sulla sofferenza in maniera decisiva. Gesù aveva dato a quei credenti una chiesa e dei ministri responsabili che si prendevano cura di loro. Il versetto 8 dice: “…al messaggero della chiesa in Smirne scrivi: (…)”.

Vedremo tra poco cosa scrive Giovanni, ma il fatto stesso che una chiesa a Smirne vi fosse ancora e che Gesù dia l’incarico ai funzionari di quella chiesa di prendersi cura delle pecore è da vedere come un grande dono divino. La chiesa era lì per assistere le pecore e Dio, come fa con noi oggi, dava garanzia che le porte dell’inferno non avrebbero prevalso contro di essa. Il punto fondamentale da ritenere è questo: non siamo chiamati ad affrontare tutto da soli. Alcune persone sono così indipendenti da non parlare apertamente delle proprie paure e non condividere con i fratelli le lotte della propria vita. Tuttavia, Dio ha progettato la chiesa affinché i suoi membri si sostengano a vicenda durante la persecuzione. La chiesa è stata creata per pregare, incoraggiare, sostenere e aiutare ciascuno di noi nei momenti di difficoltà. Non siamo stati concepiti per affrontare queste sfide da soli.

Ho recentemente ascoltato l’ottimo intervento del pastore Bill Goodwin, in cui ha parlato della pericolosità di isolarsi dalla chiesa, riflettendo sul versetto di Proverbi 18:1: “Chi si separa dagli altri cerca la propria soddisfazione e si irrita contro tutto ciò che è giusto”. Chi si isola finisce per allontanarsi da ciò che è retto e saggio.

Leggere la storia della persecuzione cristiana fa comprendere quanto sia vitale rimanere connessi al corpo di Cristo. La storia della chiesa ci mostra come non siano stati solo i ministri a sostenere i membri delle loro congregazioni: anche i fedeli rimasero accanto ai loro pastori durante l’imprigionamento e il martirio. Insomma, l’assistenza e la cura vicendevole è centrale nel contesto comunitario e fa la differenza. È commovente apprendere, leggendo le storie di pastori come Papia, Ignazio e Policarpo, della dedizione e dell’affetto della chiesa per chi soffriva. Quando Ignazio venne condotto a Roma per essere giustiziato, passò per Smirne, dove Policarpo non solo affrontò il pericolo di avvicinarlo per parlargli, ma arrivò persino a baciargli le catene. I membri della chiesa furono presenti quando poi Policarpo fu arso vivo, pregando per lui fino alla fine. Gesù ha promesso che la sua chiesa non verrà mai meno nel portare sostegno ai sofferenti e ai feriti, e i ministri continueranno ad essere incaricati di offrire questo conforto nell’ospedale spirituale della comunità. Non sottovalutiamo quindi l’importanza di essere parte di una buona chiesa, soprattutto quando tempi bui si avvicinano.

Gesù è Dio e ha ancora il controllo (v. 8b)

Il versetto 8 ci offre un secondo punto di riflessione, utile per affinare la nostra prospettiva e migliorare l’atteggiamento pratico verso le difficoltà. Gesù afferma: “Queste cose dice il Primo e l’Ultimo…”. Questo titolo, già incontrato nel capitolo 1 dell’Apocalisse, è un richiamo diretto alla divinità di Cristo, in particolare al titolo di Yahweh che appare in Isaia 44:6 e 48:12. L’importanza di questo appellativo non è affatto marginale: il riconoscere Cristo come “il Primo e l’Ultimo” apporta un conforto profondo, ricordandoci che egli ha dominio sul tempo, sulla storia e su ogni evento. Vediamo cosa dice David Chilton a riguardo:

È evidente, dal contesto di quei versetti [in Isaia], che questa espressione identifica Dio come il Signore supremo e il Determinatore della storia, il Pianificatore e il Controllore di tutta la realtà. La dottrina biblica della predestinazione, se compresa correttamente, non dovrebbe essere motivo di paura per il cristiano; al contrario, è una fonte di conforto e sicurezza[3].

E vi dirò: questa è stata anche la mia esperienza personale. Quando avevo poco più di vent’anni e giunsi finalmente a convincermi della sovrana predestinazione di Dio su tutte le cose, quel concetto divenne uno degli elementi più stabilizzanti della mia vita, aiutandomi ad affrontare le mie paure. Devo, infatti, ammetterlo: ero un ragazzo tormentato da numerose paure: il mio peccato più grande. Avevo timore di pregare in pubblico, di parlare davanti agli altri, di dare la mia testimonianza, di interagire con le istituzioni e di molte altre cose. E le paure di tali cose mi tormentavano perché convinto di non avere scampo e di non poter che uscire da tali esperienze danneggiato in malo modo.

Ma se era proprio il supremo Pianificatore e Controllore di tutta la realtà a collocarmi in quelle situazioni difficili, nel mezzo di ciò che io percepivo come afflizione, allora dovevo assolutamente comprendere che anche quel tipo di situazioni avrebbe concorso al mio bene. Difficoltà e sofferenze, quindi, non sono qualcosa da rifuggire, ma da accogliere. Come Policarpo, posso baciare quelle catene, sapendo che la tribolazione stessa è stata perfettamente orchestrata da Dio per il mio bene.

Andare incontro ad un futuro difficile senza la certezza di avere a che fare con un Dio completamente sovrano sarebbe qualcosa di insostenibile. Immaginate un Dio in affanno, frustrato perché le cose sembrano sfuggirgli di mano. Beh, questa idea sarebbe semplicemente terribile ed intollerabile, e noi verremmo di certo sopraffatti dallo sconforto e dalla disperazione di un esito pericolosamente incerto. Ma meditare sulla sovranità di Dio mi infonde fiducia. Gesù adopera questo appellativo, “il Primo e l’Ultimo”, per ricordare alla chiesa la teologia di Isaia 44 e 48: lui stesso è Yahweh, il Signore della storia. Questa è la base solida su cui dobbiamo costruire la nostra vita e affrontare ogni prova.

Gesù può simpatizzare con noi (v. 8c)

Il verso 8 prosegue con l’affermazione: “…che fu morto”, un’informazione cruciale che ci mostra come Gesù possa comprendere profondamente le nostre esperienze, simpatizzando con noi. Non è semplicemente un controllore distante, che gestisce la storia in modo impersonale e freddo. Al contrario, egli ha vissuto le nostre sofferenze attraverso l’incarnazione e la morte. Comprende cosa significhi soffrire e affrontare la morte, e utilizza questa espressione per sottolineare che è davvero entrato nel nostro dolore.

Per fare un’analogia sportiva, non possiamo considerare Gesù come uno scialbo critico da divano, completamente estraneo alle dinamiche e alla durezza del gioco. Egli ha calcato direttamente il terreno di gioco: la Lettera agli Ebrei ci assicura che Cristo ha affrontato ogni prova e tentazione che noi viviamo, e lo ha fatto con successo. Infatti, in Ebrei 4, versi 14 e 15, leggiamo: “Avendo dunque un gran sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, manteniamo ferma la nostra professione. Infatti, non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con le nostre infermità; anzi, è stato tentato in ogni cosa come noi, ma senza peccato”.

Egli ha vissuto le prove dell’infanzia e dell’adolescenza, e ha sperimentato bisogni fisici come la sete e la fame. Ebrei ci ricorda che ha affrontato queste esperienze in parte proprio per diventare un Sommo Sacerdote capace di comprendere le nostre sofferenze in maniera totale. Quando Gesù apparve a Saulo di Tarso, gli disse che le persecuzioni dei cristiani da parte sua erano persecuzioni contro lui stesso. Sentiva così profondamente il peso di quelle sofferenze da esclamare: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” In Matteo 25 è affermato che ogni volta che un cristiano è trascurato in prigione, è affamato o nudo, è come se Gesù stesso fosse trascurato, affamato o nudo. Ciò va oltre la semplice simpatia nei confronti dei suoi; si tratta di vera empatia. Lasciate che vi legga un passaggio che illustra l’empatia di Dio verso di noi. In Isaia 63:9 si afferma: “Nella sua afflizione egli fu afflitto” (cfr. Isaia 63:2-3). Qui si parla proprio di Dio: noi siamo afflitti; Dio si sente afflitto.

Comprendere questa verità può sembrare difficile, ma la nostra unione spirituale e mistica con Gesù è così profonda e reale che egli condivide le nostre afflizioni. Quando noi soffriamo, anche lui soffre. Questo concetto può chiarire il significato di Colossesi 1:24, dove Paolo scrive: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”. Come potrebbero le nostre sofferenze colmare ciò che manca ai patimenti di Cristo? È fondamentale chiarire che qui non si sta affermando la necessità di ulteriore sofferenza per redimere il popolo di Dio; assolutamente no! Questa interpretazione sarebbe eretica. Ciò che viene detto in questo versetto è che Gesù continua a soffrire per conto del suo popolo quando esso è in difficoltà. Egli era predestinato a vivere ogni nostra sofferenza e c’è una serie di afflizioni che lui e il suo popolo sono chiamati a condividere.

Sapere che Cristo si identifica con noi in modo così profondo da condividere le nostre sofferenze è una fonte di grande consolazione, non pensate? Questa consapevolezza ci permette di sviluppare una nuova prospettiva sulla tribolazione, ricordandoci che egli non è distante e che noi non siamo dimenticati. È impossibile che Gesù ci trascuri, specialmente quando ci vien detto che egli stesso patisce per le nostre afflizioni, come puntualizza Isaia 63:9. La sua empatia e il suo coinvolgimento nelle nostre esperienze dolorose ci offrono conforto e speranza nei momenti di difficoltà.

Gesù ha vinto la morte (v. 8d)

Il versetto 8 si conclude come segue: “…che fu morto e tornò in vita”. Cristo ha vinto la morte per permetterci di affrontarla con fiducia. È miope temere la morte quando essa rappresenta semplicemente un passaggio verso un’eternità nella gioia della presenza di Dio. Troppi preferirebbero tollerare un’eternità di tormento piuttosto che andare incontro a pochi attimi di sofferenza e morte. Gesù ha aperto la strada e la Scrittura ci insegna che “per la gioia che gli era posta davanti, egli sopportò la croce” (Ebrei 12:2). Dobbiamo nutrire la fiducia che una gioia ci è stata posta davanti. Il nostro Salvatore è in grado di guidarci sani e salvi oltre il fiume della morte. Comprendere che la morte è un nemico già sconfitto ci aiuta ad affrontarla con una maggiore serenità.

Gesù è pienamente consapevole di ciò che stiamo attraversando (v. 9a)

Il versetto 9 ci offre un’ulteriore verità fondamentale che contribuisce a formare una prospettiva stabile e forte di fronte alla sofferenza: Gesù è pienamente consapevole di ciò che stiamo attraversando; conosce ogni singolo dettaglio della nostra storia. Il versetto dice: “’Io conosco le tue opere e la tua tribolazione e la tua povertà (tuttavia tu sei ricco), e la calunnia di coloro che si dicono Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana”.

Gesù conosce profondamente le nostre angosce, i nostri dolori, ogni lacrima e ogni fardello che portiamo. Ecco, quindi, che non ci sorprendono le parole scritte da Joseph Scriven nel celebre inno Quale amico in Cristo abbiamo. Ve le leggo:

Quale amico in Cristo abbiamo

qual rifugio nel dolor!

Nella pace a lui portiamo

Tutto quel che turba il cuor.

Oh! La pace che perdiamo

Oh! Gl’inutili dolor,

perché tutto non portiamo

in preghiera al Salvator!

 

Se ci assal la tentazione

se il peccato insidia il cuor

di temer non v’è ragione:

portiam tutto al Salvator!

Un amico sì verace

dove mai potrem trovar?

Ci comprende ci dà pace,

ogni peso lui vuol portar.

 

Quando stanchi e travagliati

nella prova ci troviam,

il Signor non ci ha lasciati

tutto, tutto a lui portiam!

Ci abbandonino gli amici,

ma Gesù ci accoglierà

e con lui sarem felici,

lui riposo ci darà.

A volte, potremmo sentirci tentati di chiederci dove sia Gesù e perché sembri lasciarci nei guai. Davide, nei Salmi, si trovava spesso in questa stessa situazione, gridando il suo dolore e la sua confusione. Nel Salmo 42 lo vediamo chiedersi: “Perché mi hai dimenticato, o Signore? Perché mi volgi il tuo volto?”. E poi ancora: “Perché sono in lutto a causa dell’oppressione del nemico?”. Davide si ritrova a combattere contro le proprie paure, rammentando a sé stesso che Dio non lo abbandona mai nelle sue distrette e si preoccupa realmente delle sue sofferenze. Anche Gesù, nel verso 8, vuole trasmetterci lo stesso messaggio rassicurante.

In primo luogo, egli conosce le opere dei credenti di Smirne. È importante notare come queste persone abbiano continuato a servire prodigandosi in buone opere, anche in mezzo alle afflizioni. Non si sono accartocciate su sé stesse lasciandosi sopraffare dai propri problemi, ma hanno invece mantenuto uno sguardo attento verso i bisogni degli altri. Quando ci si ritrova a vivere momenti di difficoltà, dedicarsi al servizio è un modo efficace per riflettere il carattere di Gesù e per superare l’autocommiserazione che spesso si instaura nella sofferenza. Autocommiserarsi non porta mai alla santificazione e non fa godere della grazia divina; anzi, ci porta lontano da essa. L’atteggiamento giusto è porsi al servizio di chi ci circonda. Pensiamo a Gesù, che, mentre affrontava l’agonia della morte, si preoccupava delle necessità altrui: servì i suoi discepoli durante l’Ultima Cena; guarì l’orecchio di Malco, il servo del sommo sacerdote, pur essendo costui venuto ad arrestarlo; si occupò della madre mentre era morente sulla croce; assicurò al ladrone pentito il perdono e la salvezza. Capiamo dal versetto 9 come Cristo ami vedere la stessa attitudine di servizio nella chiesa di Smirne. Egli, rivolgendosi a quei credenti, fa sapere loro: “Conosco le tue opere”. Agire nella sofferenza in modo attivo e servizievole ci connette al cuore di Cristo e lui apprezza grandemente tale atteggiamento.

Il verso continua dicendo: “Conosco… la tua tribolazione”. Nel recente passato abbiamo già più volte avuto occasione di chiarire come “la tribolazione” a cui dovettero andare incontro queste sette chiese non fu una tribolazione generica, come quella vissuta da qualsiasi altra generazione di cristiani lungo tutto l’arco della storia (compresi noi), ma fu la Grande Tribolazione: uno straordinario ed efferato evento persecutorio scatenatosi contro i credenti dell’Impero romano nel I secolo. Al momento della ricezione di questa lettera da parte della chiesa di Smirne, essa si trovava ormai nel pieno della Grande Tribolazione. Questi credenti non erano stati “lasciati indietro”: non avevano mancato l’appuntamento col “rapimento”; non erano stati atrocemente abbandonati alla furia della tribolazione. Gesù li rassicura, dichiarando di conoscere le loro sofferenze. Queste non erano un errore della storia; anzi, è fondamentale capire come Dio ne risulti glorificato. Essere consapevoli di questa verità ci permette di acquisire una maggiore capacità di sopportazione. Se pensassimo di essere perseguitati a causa di un errore di Dio, sarebbe impossibile per noi anche solo provare a resistere. Ma Gesù chiarisce ogni dubbio, affermando: “Io conosco; so ciò che state attraversando, nulla mi coglie di sorpresa”. Questa consapevolezza di un Cristo perfettamente a conoscenza delle nostre sofferenze come non può essere fonte di conforto e forza? Ricordate: non siamo soli, né dimenticati!

Nel medesimo versetto, Gesù afferma di conoscere anche la povertà di questi cristiani. Ebrei 10:34 evidenzia che molti di loro, in questo periodo (intorno al 66 d.C.), erano vittima di atti di vandalismo, furti, confische da parte delle autorità e di boicottaggio economico. La loro fede li poneva, quindi, in una condizione di precarietà materiale e li esponeva a gravi difficoltà sociali ed economiche. Tuttavia, nonostante la loro povertà, essi erano ricchi delle cose che realmente contano: erano stati colmati di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo Gesù (come confermatoci in Efesini 1:3). Come già visto, la comunità cristiana di Smirne era inoltre arricchita dalla presenza di una chiesa coesa, pronta ad aiutarsi e sostenersi vicendevolmente nei tempi di prova. Questi credenti erano anche guidati da pastori eccezionali: uno di questi era san Bucolo di Smirne, noto per il suo servizio pastorale zelante, il quale rivestiva la carica di moderatore del presbiterio di Efeso. Dopo di lui, il compito pastorale fu assunto da Policarpo, il quale portò ulteriore benedizione alla comunità, distinguendosi per la sua premura e il suo ministero devoto verso la chiesa, che beneficiò profondamente della sua guida spirituale.

Insomma, vi erano numerose benedizioni che rendevano spiritualmente ricchi i cristiani di Smirne e tale consapevolezza risulta fondamentale per acquisire una prospettiva corretta di fronte alla sofferenza. Questo ci ricorda che non dovremmo focalizzarci su ciò abbiamo perso o su ciò che ci manca, ma piuttosto su quanto siamo arricchiti in Cristo Gesù. La nostra attenzione non dovrebbe fissarsi sulla privazione e sugli stenti, bensì sulla dichiarazione di Cristo: “Tuttavia tu sei ricco”. Per fede, quindi, iniziamo a concentrarci sul fatto che il Signore ci dichiari ricchi ed incredibilmente benedetti. Pertanto, la nostra prospettiva dovrebbe spingersi oltre il pessimismo, evitando di giustificarlo magari come una propensione naturale o una caratteristica immutabile del nostro carattere. Anche se una visione negativa della vita può apparire come un tratto consolidato della nostra personalità, in Cristo siamo chiamati a rinnovare la nostra mente. Per noi il “bicchiere è pieno” alla luce delle ricchezze spirituali che il Signore mette a nostra disposizione.

L’ultima affermazione di Gesù in questo versetto riguarda la sua conoscenza della “calunnia di coloro che si dicono Giudei e non lo sono, ma sono una sinagoga di Satana”. La frase si riferisce a individui che, pur professando di essere giudei, avevano ormai deviato dai principi della fede ebraica originaria e si erano allontanati dall’alleanza stabilita da Dio. Nella letteratura esegetica esiste un ampio consenso sull’identificazione di queste persone come appartenenti alla comunità giudaica del I secolo, generalmente riuniti nelle sinagoghe cittadine di ogni regione dell’Impero. Al tempo in cui la lettera raggiunge i credenti di Smirne nessun cristiano più si riuniva nelle sinagoghe. Quindi, se queste persone erano giudei del I secolo, perché allora l’apostolo Giovanni afferma che non fossero veri giudei e che dichiararsi tali fosse addirittura una calunnia? Nel contesto del I secolo, infatti, il termine giudeo indicava un’identità spirituale che, per Giovanni, doveva coincidere con l’appartenenza alla comunità cristiana, ossia al popolo di Dio rinnovato nella nuova alleanza in Cristo. Essendosi il sistema sinagogale allontanato dalla fede autentica, Giovanni lo considerava apostata, paragonando quei giudei a pagani o pubblicani. Questi giudei seguivano un’autorità separata dalle Scritture: la loro guida non era più la Bibbia, bensì le tradizioni dei padri, fra le quali il Talmud assumeva un ruolo di rilievo. Nel rigettare Cristo, essi avevano rifiutato il patto e, in definitiva, l’essenza stessa della fede di Abramo, Isacco, Giacobbe e Mosè.

Giovanni sostiene che, da un punto di vista spirituale, questi individui non fossero realmente giudei. Pur ritenendo di servire Dio e giustificando persino l’uccisione dei cristiani come un servizio religioso, in realtà si rendevano strumento di Satana. In altre parole, queste persone non rappresentavano in alcun senso il vero popolo di Dio. Pertanto, per Giovanni, sarebbe blasfemo e calunnioso chiamare i cittadini dell’attuale stato d’Israele come il “popolo santo” di Dio – cosa, questa, che purtroppo è abitudine comune tra tanti moderni evangelici. Senza un autentico ravvedimento, quella gente non ha alcun diritto di rivendicare il titolo spirituale di Israele. Ecco perché Giovanni in Apocalisse 11, riferendosi alla città dove Gesù fu crocifisso, la chiama con i nomi di “Sodoma” ed “Egitto”. Rifiutando Gesù, il capo del patto, i giudei di allora, non diversamente da quelli di oggi, si trovavano al di fuori dell’alleanza con Dio.

E vediamo l’apostolo Paolo ribadire tale concetto anche in diversi passaggi delle sue epistole. Permettete che vi legga un estratto da Romani 2. Paolo osserva che, sebbene alcuni si dichiarassero ebrei, perché circoncisi nella carne, ciò non significava che lo fossero pure dal punto di vista spirituale. Nei versi 28 e 29 egli afferma:

Poiché non è ebreo colui che lo è esteriormente, né è circoncisione quella che è esteriormente nella carne; ma è ebreo colui che lo è interiormente; e la circoncisione è quella del cuore, nello Spirito, non nella lettera; la cui lode non viene dagli uomini ma da Dio.

In Filippesi 3 Paolo definisce la chiesa come la vera circoncisione, contrapponendola ai giudei che perseguitavano i cristiani, ai quali si riferisce come ad una mutilazione. Inoltre, in Efesini 2, sottolinea che noi, i gentili, un tempo eravamo considerati tali nella carne, ma ora non lo siamo più. Abbiamo infatti acquisito il diritto di far parte della comunità di Israele ed essere eredi delle alleanze indirizzate ai padri. Sebbene siamo rami innaturali, siamo stati innestati nell’albero di Israele, mentre gli ebrei non credenti sono descritti come rami spezzati.

Questo punto rappresenta una linea di demarcazione cruciale tra la teologia dell’alleanza e il dispensazionalismo. Alcuni dispensazionalisti sostengono con fermezza l’idea di due popoli e due patti: uno con Israele e l’altro con la chiesa. In effetti, alcuni dispensazionalisti estremisti arrivano addirittura ad affermare come gli attuali ebrei possano essere salvati senza la fede in Gesù. Tuttavia, il libro dell’Apocalisse contraddice questa posizione, affermando come tale salvezza non sia possibile. Esiste un solo patto e, poiché Israele lo ha rifiutato, la sua condizione non è migliore di quella di Sodoma ed Egitto. L’intero libro dell’Apocalisse è incentrato su Gesù Cristo. Come affermato da Paolo in 2 Corinzi 1:20, tutte le promesse di Dio hanno in Cristo il sì e per mezzo di lui l’amen. I talmudisti moderni e l’Israele contemporaneo non possono rivendicare alcuna promessa al di fuori di Gesù. La salvezza e la redenzione sono accessibili esclusivamente attraverso la fede in Cristo e qualsiasi pretesa di appartenenza al popolo di Dio che trascenda questa verità è da ritenersi infondata.

Questo passaggio aiuta a comprendere come qualsiasi istituzione clericale possa, alla fine, trasformarsi in un anti-Cristo persecutore della vera chiesa di Cristo, proprio come avvenne con Roma e l’Ortodossia orientale. Esteriormente, tali istituzioni dichiaravano di essere il popolo di Dio, ma, internamente, possono essere considerate ciò che la Confessione di fede di Westminster definisce una “sinagoga di Satana”. Proprio come Giovanni si rifiutò di riconoscere i giudei delle sinagoghe come veri ebrei, i protestanti, a loro volta, si opposero a considerare Roma una chiesa cattolica, preferendo etichettarla come “papista”. Sebbene questa posizione possa sembrare severa, essa segue una logica coerente con le affermazioni espresse nel passaggio in esame.

Desidero ora fare un’ulteriore considerazione. Potreste chiedervi come mai i giudei fossero coinvolti nella Grande Tribolazione e perché si unissero ai romani nella persecuzione dei cristiani. La risposta risiede nel fatto che i notabili giudei, in seguito al grande incendio di Roma del 64 d.C., avevano stipulato un accordo con la Roma di Nerone volto all’eliminazione dei cristiani. Questo punto era già stato menzionato in un mio precedente sermone. Inoltre, proprio la città di Smirne presentava un’influente comunità giudaica. A tal proposito, in un commentario è possibile leggere quanto segue:

Smirne ospitava la più consistente popolazione giudaica di qualsiasi altra città dell’Asia. Se questa [lettera] dovesse risalire ad un periodo antecedente al 70 d.C., allora si tratterebbe di un’epoca in cui i principali avversari del cristianesimo erano indubbiamente giudei. È quindi comprensibile che la chiesa di Smirne abbia subito molestie in misura maggiore rispetto ad altre comunità[4].

Era quasi come se i giudei del I secolo fossero spinti da una forza diabolica nel loro odio nei confronti di Gesù e del cristianesimo. D’altra parte, le affermazioni orribili ed infamanti su Gesù contenute nel Talmud mettono in luce la natura profondamente demoniaca della loro opposizione. Già lungo tutto il libro degli Atti questa loro azione persecutoria nei confronti dei cristiani è ben evidente. Tuttavia, nel 62 d.C., Nerone iniziò a mostrare un atteggiamento sempre più favorevole verso i giudei, non solo a causa dell’influenza della moglie Poppea, di origine giudaica, ma anche per la composizione del suo entourage, prevalentemente formato da consiglieri e notabili giudei. Di conseguenza, fino alla fine del 66 d.C. – quando poi Roma ruppe il patto con Israele rivoltandosi proprio contro il suo alleato e dando avvio alla Prima guerra giudaica e alla Grande Ira – romani e giudei collaborarono nel confiscare le proprietà dei cristiani, incarcerandoli o condannandoli a morte. Una cronaca antica, conosciuta come la “Lettera degli Smirnei” (redatta attorno al 150 d.C.), riporta che i giudei erano così desiderosi di vedere Policarpo bruciare sul rogo per mano dei romani da violare persino le proprie leggi sul sabato per raccogliere la legna necessaria all’esecuzione. Dal documento emerge chiaramente il notevole zelo dimostrato dai giudei in questa circostanza[5].

Riassumendo, dal versetto 9 apprendiamo diverse importanti informazioni: non solo si fa riferimento alla crescente persecuzione da parte dei giudei (una persecuzione che si intensificherà ulteriormente in futuro), ma si chiarisce anche l’esistenza di un solo popolo dell’alleanza. Giovanni utilizza il termine “calunnia” per descrivere l’affermazione dei giudei di essere in patto con Dio o di essere veri ebrei. Inoltre, il verso 9 rivela la ragione della loro cecità e opposizione al Vangelo: Satana. Poiché “sinagoga” implica anche il concetto di “riunione”, è Satana stesso che li raduna nel culto sinagogale, mantenendoli in schiavitù. E, tra parentesi, aggiungo come essere consapevoli di questo aspetto è importante per coloro che sono coinvolti nell’evangelizzazione dei giudei oggi: si tratta, infatti, di impegnarsi in un’intensa guerra spirituale. Ecco come Paolo esprime questo concetto in 1 Corinzi 3. Nei versi 14 e 15 egli dice:

Ma le loro menti furono indurite; infatti, fino ad oggi, lo stesso velo rimane non rimosso alla lettura dell’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Anzi, fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo rimane sul loro cuore; ma quando si saranno convertiti al Signore, il velo sarà rimosso.

In un successivo sermone, intendo mostrare come l’intero libro dell’Apocalisse illustri i principi della guerra spirituale. Questo rappresenterà uno dei numerosi temi che mi impegnerò a presentare in maniera approfondita.

La persecuzione non deve essere temuta (v. 10a)

Ad ogni modo, nel versetto 10 Giovanni assicura i cristiani di Smirne che non avrebbero dovuto temere né Satana né i suoi agenti umani: “Non temere nulla di ciò che stai per soffrire: sappiate che il diavolo sta davvero per gettare alcuni di voi in prigione per mettervi alla prova, e avrete una tribolazione per dieci giorni”.

È facile concentrarsi esclusivamente sulle persone o sulle istituzioni che ci perseguitano, ma Giovanni invita a riflettere oltre, mostrando che non erano solo i giudei o i romani i protagonisti di questa oppressione. Egli richiama l’attenzione dei credenti di Smirne sulle forze demoniache che animavano e spingevano questi agenti umani a divenire strumenti di persecuzione. In modo simile, le battaglie culturali nelle nostre società occidentali non si vinceranno esclusivamente tramite la politica, poiché dietro tali conflitti, dev’esserci chiaro, vi è la stessa presenza di Satana.

Lo stesso si può dire per la persecuzione dei cristiani in altri paesi del mondo. Quando si osservano le crudeltà commesse da alcuni gruppi musulmani o indù contro i cristiani, è naturale domandarsi come si possa arrivare a simili brutalità. Si tratta di azioni che suscitano disgusto estremo e sembrano veramente irrazionali. E in effetti, lo sono. Molti torturatori, colti dal rimorso, finiscono per chiedersi come abbiano potuto compiere atti tanto efferati. La risposta è che molte atrocità, così come l’odio e la tortura, sono spesso motivate e alimentate direttamente da forze demoniache, semplice.

Vorrei ora soffermarmi brevemente sul tempo della tribolazione annunciata da Giovanni, che avrebbe avuto una durata di dieci giorni. Molti commentatori interpretano questi “dieci giorni” come dieci distinti periodi di persecuzione che la comunità cristiana di Smirne affrontò fino alla cristianizzazione dell’Impero romano. Pur rispettando tale interpretazione, non la condivido, poiché ritengo che il versetto 10 non miri a trasmettere questo messaggio specifico. Tuttavia, è interessante notare come, effettivamente, la città di Smirne abbia attraversato esattamente dieci periodi di persecuzione, elencati come segue:

  1. Nerone (62-68 d.C.)
  2. Domiziano (95 d.C.)
  3. Traiano (108 d.C.)
  4. Marco Aurelio (162 d.C.)
  5. Settimio Severo (202 d.C.)
  6. Massimino (235 d.C.)
  7. Decio (249 d.C.)
  8. Valeriano (257 d.C.)
  9. Aureliano (274 d.C.)
  10. Diocleziano (303-313 d.C.)

Anche molti studiosi di orientamento preterista vedono nei “dieci giorni” un riferimento a questi dieci periodi di persecuzione. Sebbene tale interpretazione sia plausibile e coerente con il linguaggio simbolico dell’Apocalisse, desidero proporre tre ragioni per cui considero questi dieci giorni come letterali, avvenuti durante la Grande Tribolazione.

Primo, il versetto 10 introduce un indicatore temporale di imminenza – aspetto, questo, abbondantemente già trattato nei nostri precedenti sermoni – espresso dal termine greco μέλλω (mèllo), qui tradotto con “stai per”. Il testo recita: “Non temere nulla di ciò che stai per soffrire”. Da qui Giovanni delinea le due sofferenze specifiche che si accingono a colpire i credenti di Smirne. Si tratta di eventi prossimi, non di avvenimenti previsti per un secolo o due più avanti nel tempo. È improbabile che μέλλω (mèllo) si concili con eventi il cui compimento sia così lontano nel futuro, suggerendo invece un’azione incombente.

Secondo, l’idea di una realizzazione imminente è ulteriormente sostenuta da una seconda occorrenza di μέλλω (mèllo) all’interno dello stesso versetto 10, dove si legge: “…il diavolo sta davvero per gettare alcuni di voi in prigione”. Poiché numerosi commentatori interpretano i “dieci giorni” di tribolazione e i possibili esiti fatali come conseguenze dirette della prigionia, questo costituisce una seconda conferma dell’imminenza degli eventi descritti.

Terzo, si osserva che, ogni volta che la Scrittura associa un numero specifico alla parola “giorni”, tale termine non indica un periodo esteso o simbolico, bensì si riferisce sempre a giorni letterali. Questo rafforza l’idea che, anche in questo caso, i “dieci giorni” debbano essere intesi come un periodo concreto e limitato di tempo, piuttosto che un’era o un’epoca più ampia.

Per queste tre ragioni ritengo che questo passo non profetizzi dieci periodi distinti di reiterata sofferenza dispiegatisi nel corso di centinaia di anni. Al contrario, lo interpreto come una testimonianza della protezione divina nei confronti della chiesa di Smirne durante la Grande Tribolazione, una protezione concessa in virtù della fedeltà dimostrata da questa comunità.

Consentitemi di chiarire: la Grande Tribolazione iniziò nel 62 d.C., per poi intensificarsi dopo il grande incendio di Roma nel 64. Se l’Apocalisse è stata redatta nel 66, questo implicherebbe che vi sarebbero stati ancora due anni di tribolazione per la maggior parte delle chiese, fino all’anno 68, portando il totale della persecuzione a circa sei anni. Questa violenta campagna contro i cristiani aveva quasi annientato le comunità in altre aree, ma la chiesa di Smirne fu in larga misura risparmiata. Pur subendo vandalismi e saccheggi, che li avevano resi poveri, non avevano ancora affrontato la morte, a differenza di altre chiese. Ecco, quindi, la mia riflessione: piuttosto che essere sottoposti ai sei anni di tribolazione che colpirono altre comunità, Smirne avrebbe dovuto sopportare solo dieci giorni di intense prove. Questo dettaglio suggerisce una forma di speciale protezione divina verso questa chiesa. L’aspetto cruciale sul quale possiamo concentrarci è il seguente: il nemico è al guinzaglio, non ha la possibilità di scatenare anche un solo giorno in più di persecuzione rispetto a quanto Dio stesso permette. Satana è soggetto ai limiti imposti dal Signore e questo non può che rappresenta un grande incoraggiamento per noi.

Non ho individuato la fonte della citazione, ma qualcuno una volta ha detto: “A volte il Signore placa la tempesta; altre volte, permette che la tempesta infuri e placa il cuore di suo figlio”. In questo caso, Dio compie entrambe le cose: limita la portata della tempesta che la chiesa deve affrontare e, al contempo, rassicura i cuori dei credenti nonostante le avversità.

Non c’è solo questa vita (vv. 10b-11)

L’ultimo importante cambio di prospettiva utile a fronteggiare come si deve la tribolazione è che questa vita non è tutto quello che c’è. Leggiamo l’ultima parte del verso 10 e tutto il verso 11: “10 (…) Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. 11 Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: chi vince non sarà certamente colpito dalla morte seconda”.

I cristiani non dovrebbero temere la morte, poiché questa rappresenta semplicemente un trampolino verso la beatitudine eterna. Le antiche cronache sulle persecuzioni a Smirne raccontano come i cristiani affrontassero con fermezza la tortura e il rogo, dichiarando di accettare tali sofferenze per ottenere la vita eterna, piuttosto che rinnegare Cristo per sfuggire alla tortura e poi trovarsi di fronte ad un’eternità di dannazione. Essi erano guidati da una visione focalizzata sull’eternità. Quanti, invece, oggi sono pronti a sacrificare la prospettiva di un’eternità beata per ottenere piaceri effimeri nel presente? In verità, ogni volta che pecchiamo, incappiamo anche noi in questo tipo di miopia; così pure come quando non investiamo in tesori celesti. Le glorie della speranza eterna dovrebbero risplendere così intensamente nei nostri cuori da neutralizzare ogni paura, lussuria, orgoglio o invidia, impedendoci di compromettere il nostro futuro per qualcosa di immediato.

Conclusione

Vorrei, in conclusione, lasciarvi tre esortazioni fondamentali, che considero essenziali per vivere i tempi di avversità con fede, discernimento e vero profitto. Seguendo la guida dello Spirito, perseverando come vincitori e mantenendo una prospettiva sempre orientata all’eternità, possiamo affrontare ogni tribolazione con fermezza e speranza.

1) Conservate una prospettiva salda e giusta della realtà rimanendo in ascolto dello Spirito

Il brano biblico considerato quest’oggi termina così: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese”. Si noti il termine “chiese” al plurale. La chiesa di Smirne era chiamata a considerare l’intero messaggio del libro dell’Apocalisse e a fare proprie le sue verità, valide evidentemente anche per tutte le altre comunità.

È interessante osservare che è Gesù stesso a pronunciare queste parole. Da ciò ne deriva che ascoltare le parole di Gesù equivale ad ascoltare lo Spirito. Padre, Figlio e Spirito Santo operano congiuntamente nella nostra vita attraverso la Sacra Scrittura. È la Bibbia che ci aiuta a mantenere la barra dritta, a conservare una salda e giusta prospettiva sulla realtà delle cose durante i momenti difficili. Come messo in evidenza la scorsa volta, maggiore è la nostra immersione nelle Scritture, più chiara sarà la nostra visione della realtà nei tempi di prova.

2) Siate risoluti in quanto vincitori (sulla paura, su Satana, sul dolore, su ogni privazione, ecc.)

Nello scorso sermone avevamo riflettuto sull’importanza di resistere e porre rimedio alla deriva spirituale; ma i momenti di difficoltà nella nostra vita ci riservano ulteriori ostacoli da superare. Tra questi vi sono la paura, l’avversario (Satana), lo scoraggiamento o la resa di fronte al dolore e, infine, l’amarezza. In tempi di tribolazione è, purtroppo, cosa alquanto normale scadere in reazioni ed atteggiamenti inadeguati; tuttavia, i cristiani non sono chiamati a seguire ciò che è normale, ma piuttosto a vivere nella potenza della grazia divina. Con l’aiuto della sua grazia soprannaturale, possiamo andare oltre tali reazioni fisiologiche e peccaminose.

Dio non ci ha promesso un’esistenza priva di prove; chi si aspetta una vita “tutta rose e fiori” andrà inevitabilmente incontro a delusioni. Dio ci chiama ad essere suoi soldati, e i soldati devono resistere e vincere. Il libro dell’Apocalisse, con il suo messaggio di vittoria, ci invita a superare la paura, Satana, il dolore, le privazioni materiali, gli atteggiamenti negativi e molti altri ostacoli.

3) Mantenete una prospettiva sempre orientate all’eternità

Ricordate l’insegnamento di San Paolo a tal riguardo? In 2 Corinzi 4, versi 17 e 18, l’apostolo ci dice:

Poiché la nostra afflizione momentanea e leggera produce per noi, al di là di ogni misura, un eterno peso di gloria, mentre guardiamo non a ciò che si vede, ma a ciò che non si vede; infatti le cose che si vedono sono temporali, ma quelle che non si vedono sono eterne.

È dunque di fondamentale importanza per noi affrontare i nostri piccoli o grandi sacrifici quotidiani con la consapevolezza che stiamo investendo in un futuro eterno e glorioso. Con tale prospettiva, ogni sacrificio sembrerà davvero valere la pena.

Pensiamo alle testimonianze dei nostri fratelli nella fede, specialmente nelle regioni a maggioranza musulmana, che affrontano persecuzioni dirette e sono costretti a fuggire a causa di minacce di violenza e morte. I persecutori segnano le loro abitazioni con simboli che indicano la loro fede, come la lettera “N” per “Nazareno”, costringendo molte famiglie ad abbandonare tutto. Le parole di questi cristiani perseguitati devono essere per noi fonte di ispirazione: pur perdendo tutto, affermano con gioia che per Gesù ne vale la pena. Insomma, proprio questo significa avere una giusta prospettiva. Questo esempio di speranza, che riconosce il valore eterno di Cristo nonostante le perdite materiali, deve motivarci nella nostra vita di fede.

Cominciamo, dunque, a sviluppare una prospettiva eterna applicata a partire dalle nostre piccole prove quotidiane, in modo da prepararci ad esprimere fedeltà anche di fronte a sfide maggiori. Consideriamo i nostri piccoli patimenti come un campo di addestramento, un’opportunità per imparare a trovare gioia nelle avversità e a vincere il male con il bene, senza lasciarci abbattere. Sono occasioni che Dio ci offre per crescere e fortificarci nelle piccole afflizioni. Seguendo queste esortazioni e i principi espressi nella lettera alla chiesa di Smirne, impareremo nel tempo a superare i nostri timori, come fece Elva Martin con la sua paura del dentista, fino a giungere ad una gioia autentica. È un investimento prezioso – oltre che una gioia profonda – scambiare paura, amarezza, rabbia e insoddisfazione con il frutto dello Spirito Santo, abbandonando così le nostre reazioni inappropriate di fronte alla sofferenza. La mia sincera preghiera è che ciascuno di noi desideri e riesca quotidianamente a impegnarsi in ciò con profitto, confidando nella grazia soprannaturale del nostro Signore. Amen.


Originale: https://biblicalblueprints.com/Sermons/New%20Testament/Revelation/Revelation%202/Revelation%202-8-11?utm_source=kaysercommentary.com

[1] Traduzione di Wilbur Pickering, in The Sovereign Creator Has Spoken: New Testament Translation With Commentary  (licenza Creative Commons Attribution/ShareAlike Unported, 2013).

[2] Come raccontato da Robert J. Morgan, From This Verse, (Nashville: Thomas Nelson Publishers, 1998), 3 settembre.

[3] David Chilton, Days of Vengeance, (Forth Worth: Dominion Press, 1987), p. 100.

[4] Steve Gregg, Revelation – Four Views (Nashville, TN: Thomas Nelson, 1997), p. 67.

[5] La “Lettera degli Smirnei” afferma che Policarpo venne martirizzato di sabato. Ciò lo si deduce da questo brano:

21:1 Ora il beato Policarpo fu martirizzato il secondo giorno della prima parte del mese di Santico, il settimo prima delle calende di marzo, in un grande sabato, all’ora ottava. Fu catturato da Erode, quando era sommo sacerdote Filippo di Tralles, sotto il proconsolato di Stazio Quadrato, ma sotto il regno dell’eterno Re Gesù Cristo. A Cui sia la gloria, l’onore, la grandezza e il trono eterno, di generazione in generazione. Amen.

Che i giudei raccogliessero legna si può, invece, dedurre da questi brani:

12:2 Quando questo fu annunziato dall’araldo, tutta la moltitudine dei Gentili e dei Giudei che abitavano a Smirne, gridò con ira incontenibile e a gran voce: “Questi è il maestro dell’Asia, il padre dei cristiani, il demolitore dei nostri dei, che insegna alle moltitudini a non sacrificare né ad adorare”. Dicendo queste cose, gridarono ad alta voce e chiesero all’asiarca Filippo di scatenare un leone su Policarpo. Ma disse che non gli era lecito, poiché aveva interrotto tale pratica.

13:1 Allora queste cose avvennero con una tale rapidità, più rapidamente di quanto le parole potrebbero dire, che la folla immediatamente raccolse legname e bastoni dalle officine e dai bagni, e soprattutto i Giudei contribuirono a questo con zelo, come è loro abitudine.


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