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Guida divina per la comprensione del libro dell’Apocalisse – Parte 14

Di Phillip G. Kayser, sermone del 20/09/2015

Parte della serie “Progetto Apocalisse”

Con questo sermone si conclude la sezione introduttiva della serie. Vi verranno, quindi, esposti gli ultimi principi interpretativi stabiliti dall’apostolo Giovanni nei primi 11 versetti di Apocalisse 1. Facendo ciò, l’attenzione principale verrà rivolta alle implicazioni pratiche dell’unione dei santi “in Cristo Gesù”.


Leggiamo Apocalisse 1, versi da 9 a 11:

9 Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione e nel regno e nella costanza in Cristo Gesù, ero nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù Cristo. 10 Mi trovai nello Spirito nel giorno del Signore e udii dietro a me una voce, forte come una tromba, 11 che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea»[1].

Andiamo subito a scoprire ed enunciare il nostro trentaduesimo principio ermeneutico – il penultimo offertoci dall’introduzione del libro.

 

Il principio n. 32 dice: il libro dell’Apocalisse non parla solo di Gesù (principio n. 2), ma mostra come la vita stessa debba scaturire da Gesù (“in Cristo Gesù” – v. 9 – vedere versetti 12ss).

Leggendo la biografia di San Patrizio, capisco perché i protestanti insistano tanto nel rivendicarne la figura come importante per la propria storia. La sua fede era solo in Cristo, solo per grazia e senz’altro solo alla gloria di Dio. Ed egli non era solo cristocentrico nella sua teologia (principio n. 2), ma anche nella sua esperienza pratica. Ecco le parole di uno degli inni da lui scritti:

    1. Cristo accanto a me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Re del mio cuore; Cristo dentro di me, Cristo sotto di me, Cristo sopra di me, non si separerà mai.
    2. Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra, Cristo tutt’intorno a me, scudo nella lotta; Cristo nel mio sonno, Cristo nel mio sedermi, Cristo nel mio destarmi, luce della mia vita.

Il trentaduesimo principio di interpretazione che vedo al versetto 9 è, in realtà, solamente un’integrazione del principio n. 2 (esaminato ormai alcuni mesi fa e che dice: “Si deve trattare questo libro come una rivelazione su Gesù Cristo” – verso 1:1b). L’Apocalisse è un libro incentrato su Cristo: è una rivelazione che ha come oggetto ed argomento principale il Signore Gesù stesso.

Tuttavia, è per noi importante notare come nell’approcciare questo libro non sia sufficiente concentrarsi su Cristo soltanto per il tramite del nostro intelletto. Dal versetto 9, e in particolare da quel “in Cristo Gesù”, veniamo invitati ad abbracciare una filosofia di vita che ci porti ad affrontarla in maniera pratica secondo la potenza della nostra unione con Cristo. Considerare e far proprio questo invito a sperimentare una vita “in Cristo Gesù” è un aspetto fondamentale per una corretta interpretazione dell’ultimo libro della Bibbia. Chi è che può dire di avere una migliore conoscenza di Gesù? Coloro che di lui hanno solo letto oppure coloro che non leggono soltanto, ma che lo seguono in cammino giorno dopo giorno? Chi conosce meglio il regno? Coloro che a livello teorico la sanno lunga sul regno o coloro che praticano giorno dopo giorno ciò che sanno? Ora, ovviamente, non si tratta di scegliere tra le due cose, giacché entrambe sono importanti.

Ma leggiamo di nuovo il versetto 9: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno [e seguono adesso le tre cose in cui egli è compagno dei santi a cui scrive; la parola qui adoperata è koinonia che più letteralmente potrebbe essere tradotta come segue: “partecipe assieme”] nella tribolazione e nel regno e nella costanza in Cristo Gesù…”.

Negli scorsi due sermoni abbiamo già parlato a lungo della tribolazione, del regno e della costanza; questa volta, quindi, ci concentreremo sull’ultimo elemento con il quale si conclude la frase, vale a dire “in Cristo Gesù” – un elemento che, come già detto, mantiene quelle tre cose insieme, ma allo stesso tempo ne modifica la sostanza. La Nuova Re Giacomo, esattamente come pure la Diodati, dice “di Cristo Gesù” anziché “in” come indicato dal greco del “testo maggioritario”. L’unico modo in cui i santi delle sette chiese avrebbero potuto condividere con Giovanni queste tre cose era sperimentandole “in Cristo Gesù”. Ecco, quindi, che l’espressione “partecipe assieme”, ovvero compagno, in congiunzione con “in Cristo Gesù” mostra che, quando siamo uniti a Cristo, egli è unito a noi, e (come dice Paolo) “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Galati 2:20). E quell’unione a sua volta ci unisce ai nostri compagni nella fede. Questa è la vera comunione, la koinonia: il “partecipare assieme”. Quando, dunque, siamo in Cristo siamo necessariamente compagni di altri santi.

Bene – abbiamo in tal modo puntualizzato come i vari elementi della frase si incastrino l’uno con l’altro. Adesso possiamo dedicarci all’approfondimento di quel “in Cristo Gesù”.

E sebbene nel contesto del verso 9 questa idea appaia racchiusa soltanto in una piccola proposizione, a partire dal verso 12 vedremo come l’unione di Cristo con la chiesa viene enfatizzata in maniera molto forte. Vincent dice: “Essere in Cristo implica comunione con Cristo in ogni momento”[2]. In altre parole, se vogliamo veramente beneficiare della nostra unione con Cristo, egli deve essere centrale in tutti gli ambiti della vita – insomma, proprio quanto comunica l’inno di San Patrizio letto poc’anzi. G. Campbell Morgan indica che essere in Cristo significa che Cristo è in noi e che c’è una reciproca condivisione di vita che rafforza il nostro cristianesimo ad ogni livello, anche emotivo. Egli dice: “È Cristo in me che mi riempie di compassione. La misura in cui il mio Signore vive in me, padroneggia la mia vita, mi domina…”[3]. Ci sono emozioni in questo libro che solo Cristo può produrre nella sua gente. Il capitolo 6 mostra una profonda compassione generata da Cristo per la chiesa perseguitata che spinge quei santi alla preghiera. Il capitolo 19 mostra la gioia per i giudizi di Dio – qualcosa di cui la chiesa moderna non sa più nulla perché pare rifarsi ad un Gesù romanticone, portatore di certi tratti kitsch, non al Gesù dell’Apocalisse, che è ben lontano dall’assomigliare ad un rammollito.

In ogni caso, questo tema dell’unione pratica con Cristo vedremo come si fa strada in tutto il libro. La vita personale deve scaturire da Cristo. La vita della Chiesa nei capitoli 2-3 deve scaturire da Cristo. La vita del Regno, la guerra spirituale e la sopportazione delle difficoltà devono tutte scaturire da Cristo. Senza di lui non possiamo fare nulla che abbia un valore duraturo. Anche i Nuovi Cieli e la Nuova Terra con cui si conclude il libro devono scaturire da Cristo.

In realtà, era proprio questo ciò che non andava nel Vangelo sociale di fine Ottocento: i rappresentanti di quel movimento erano convinti che l’umanità potesse essere liberata dai mali sociali per il tramite di uno sforzo umano. Pensavano, quindi, di far progredire il regno di Dio con la propria autorità, la propria Buona Novella e i propri obiettivi. Pertanto, gli evangelici non vi hanno ceduto rifiutandone giustamente le idee e i principi. Non si trattava di un movimento incentrato su Cristo. C’è da dire, però, come non basti respingere il Vangelo sociale ritirandosi allo stesso tempo in un ghetto. Se Gesù penetra nella società, non possiamo affermare di essere in lui se non penetriamo nella società anche noi. Se siamo cristocentrici, non possiamo ignorare la sofferenza, il regno o qualsiasi altra cosa. Se Cristo mette ogni cosa sotto i suoi piedi, allora coloro che sono veramente uniti a Gesù devono riflettere il suo cuore unendosi a lui nell’estendere il vero Vangelo e la vera legge fino ai confini della terra. E questo significa automaticamente che, se stiamo vivendo “in Cristo”, sperimenteremo la tribolazione e la necessità della costanza, così come pure il regno.

Non avremo la possibilità di approfondire questa tematica come si deve; tuttavia, trovo utile fornire almeno alcuni casi esemplificativi indicanti l’importanza fondamentale del vivere in Cristo. La lettera alla chiesa di Efeso nel capitolo 2 dell’Apocalisse ci ricorda che non basta essere in possesso di una buona dottrina centrata su Cristo. Infatti, i santi di Efeso presentavano una buona dottrina e per questa vengono pure lodati. Eppure, Gesù li confronta con il fatto di aver perso il loro primo amore avendo trascurato il rapporto con lui. La lettera a Sardi ci ricorda che alcuni individui possono fingere nel loro cammino cristiano, compiendo tutti i loro doveri cristiani con le proprie forze invece di compierli con la potenza che scaturisce dall’essere in Cristo. La lettera a Laodicea ci ricorda che la nostra comunione con Cristo può diventare così flebile che egli non è neppure più nella chiesa; è fuori – bussa alla porta. Nonostante questa chiesa sembrasse godere di una percezione positiva di sé stessa, Gesù la definisce un fallimento. Perché? Perché avevano ricchezze che non venivano da Cristo, una predicazione che non veniva da Cristo, una crescita della chiesa che non veniva da Cristo e un abbigliamento spirituale che non veniva da Cristo. Ma anche in questa chiesa il Signore offre la realtà della sua presenza a coloro che hanno orecchie in ascolto, spiegando cosa significa vivere in Gesù Cristo.

E le immagini che usa con ciascuna chiesa per illustrare questa unione e comunione sono immagini straordinarie. Cristo è l’albero della vita nel capitolo 2:7 e ci consente di mangiare da quell’albero. Non è possibile avvicinarsi di più a qualcosa se non mangiandola. Cristo è la manna nascosta nel capitolo 2:17. La manna nascosta era la manna conservata nell’arca dell’alleanza nel Santo dei Santi, di cui nemmeno il sommo sacerdote poteva mangiare. Ma quelli che l’Apocalisse chiama vincitori, che vivono la loro unione con Cristo mediante la fede, possono mangiarne. Questa immagine mostra la straordinaria intimità che possiamo avere con Cristo. In Apocalisse 2:28 egli è la stella del mattino che ci guida. Egli è il tempio di cui noi siamo colonne. E al capitolo 3, verso 21, promette: “A chi vince concederò di sedere con me sul mio trono…”. Pensateci: è sorprendente che non ci limitiamo a prostrarci davanti al trono – grazie alla nostra unione con il nostro Signore, siamo (come espresso dall’apostolo Paolo) “seduti nei luoghi celesti in Cristo Gesù” e possiamo pregare e prendere il dominio della terra con una ritrovata autorità celeste. Ma quante volte non riusciamo a vivere come seduti insieme a Cristo sul suo trono?

Vedete, non tutti i credenti vivono la propria teologia dell’unione con Cristo. Se non siamo ciò che questo libro chiama “vincitori”, vivendo appieno l’unione con Gesù, scopriremo automaticamente che la nostra forza (nella migliore delle ipotesi) scaturisce dalla nostra relazione con Adamo e/o (nella peggiore delle ipotesi) che siamo mossi da Satana e i suoi demoni. E l’Apocalisse mostra come i dominatori del mondo siano proprio loro: il Diavolo e i suoi servi. L’ultimo libro della Bibbia esplicita per il tramite di vividi dettagli l’avvertimento di Paolo di non vivere più “seguendo il corso di questo mondo, secondo il principe della potestà dell’aria” (Efesini 2:2). Capite? C’è una contrapposizione tra due tipi di unioni e due tipi di poteri.

Allora qual è il potere del mondo? Il commentario di Poythress mostra magnificamente la falsa koinonia (ciò che la Nuova Re Giacomo traduce come compagnia o fratellanza) che il mondo ha e la falsa Trinità che sovrintende al mondo. Quando si rifiuta Dio, non si può che sostituirlo con un’autorità diversa. Quando si rifiuta il potenziamento dello Spirito, non si può che sostituirlo con qualche altro potenziamento. Ecco, quindi, che Poythress mostra come il mondo finisca per abbracciare una trinità contraffatta in Satana, la Bestia e il Falso Profeta. E l’idolo centrale che Satana, la Bestia e il Falso Profeta adorano tutti è uno stato messianico. Se Gesù non è il vostro Messia, l’idolo centrale di una società tenderà ad essere il vostro Messia. Nell’antica Roma era lo stato; nell’Occidente dei nostri tempi pure. Quando le generazioni future guarderanno indietro alla chiesa di oggi, non potranno che constatare come i cristiani abbiano avuto la tendenza a vivere più nello stato che in Gesù Cristo. Un altro esempio di unione sbagliata è ben rappresentato dai giudei di cui si parla in Apocalisse 2:9 e 3:9; questi vengono detti “una sinagoga di Satana” – gente che affermava di avere comunione con Dio per la fedeltà alla loro tradizione, senza però avere affatto la sua vita.

Praticamente ogni capitolo di questo libro si concentra sulla pienezza e sulla soddisfazione che in ogni circostanza possiamo sperimentare quando siamo uniti a Cristo; indica, però, anche il contrario, ovvero l’inutile miseria che sperimentiamo quando non siamo uniti a Cristo. Ora, a volte può sembrare che nella storia dei santi dell’Apocalisse non ci sia poi tutta questa soddisfazione: leggendo dei cristiani martirizzati nei capitoli 6, 7 e 12, può sembrarci che la chiesa decada in miseria e subisca una cocente sconfitta. Tuttavia, poiché la vita di Cristo è vissuta per il tramite di questi santi, allora di loro vien detto essere vincitori sul dragone e sulla bestia. Fanno parte della chiesa trionfante. E si dice che abbiano la gioia della vittoria – nulla può separarli dall’amore di Dio che è in Gesù Cristo, nemmeno la morte.

Quindi, ricapitolando, mentre il principio n. 2 ci porta ad interpretare gli insegnamenti di questo libro in una maniera cristocentrica, il principio n. 32 ci incoraggia a vivere praticamente gli insegnamenti di questo libro in maniera cristocentrica. Ed è mia preghiera e volontà rimanere fedele a questa importante chiave di comprensione nel corso di tutta la serie.

Questo sarebbe un ottimo punto per concludere il sermone. Tuttavia, oggi vorrei completare velocemente l’analisi dell’introduzione del libro, con la quale siamo alle prese ormai da molte settimane. Arriviamo, quindi, fino al versetto 11, così che dalla prossima volta potremo iniziare a spingerci piano piano verso il cuore dell’Apocalisse.

 

Reiterazione del principio n. 13: in Apocalisse 1:9 apprendiamo dell’imprigionamento di Giovanni a Patmos. Questo avvenne a causa del suo impegno nei confronti dell’Antico Testamento (“la parola di Dio”) e dell’azione legale pattizia di Gesù riportata nei Vangeli (“la testimonianza di Gesù Cristo”).

Il verso 9 dice: “…ero nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù Cristo”. Giovanni mette, quindi, in chiaro come fosse finito in un campo di prigionia romano sull’isola greca di Patmos per due ragioni: aveva una dedizione totale verso l’Antico Testamento; aveva una dedizione totale verso la testimonianza di Gesù. Ed un serio impegno per entrambe queste cose da parte nostra è ancora in grado, come fu nel caso di Giovanni, di attirarci addosso grossi guai. La legge di Dio dell’Antico Testamento è oggi grandemente impopolare, così come pure le azioni giudiziarie pattizie di Cristo. Le affermazioni di Cristo in Matteo, infatti, non sono politicamente corrette, nemmeno nella chiesa. Non è roba carina e piacevole di cui parlare, a quanto pare. Le persone non vogliono che venga loro ricordato di ritrovarsi in ribellione verso la parola-legge di Dio.

Pertanto, questo verso, raccontandoci di un Giovanni imprigionato a causa del suo messaggio, ribadisce ciò che abbiamo già esaminato con il principio n. 13 (“Si deve leggere il libro dell’Apocalisse alla luce dell’Antico Testamento e della causa giudiziaria pattizia di Gesù nei Vangeli” – v. 2c – “il quale attesta [μαρτυρέω – martyréo] la parola di Dio e la testimonianza [μαρτυρίαν – martyrían] di Gesù Cristo”).

E, prima di passare oltre, vorrei insistere ancora su questo punto particolare: se la nostra esperienza di fede è veramente incentrata su Cristo, allora concederemo grande apprezzamento alla legge di Dio e alla testimonianza di Gesù, anche nel momento in cui queste cose ci trascinano nei guai più terribili. Disfarsi della legge di Dio e darsi a comportamenti più “garbati” di quelli che la stessa Parola di Dio ci mostra esser propri di Gesù sono la chiara prova di non star vivendo in modo coerente l’unione con Cristo, perché altrimenti non si potrebbe non dar valore a ciò che egli apprezza.

Bene, passiamo al punto successivo.

 

Prove a sostegno del principio n. 12 (v. 9c) – La tribolazione di Giovanni a Patmos era causata dai romani e non solo dai giudei.

Patmos, come già accennato, era l’equivalente romano di un carcere di massima sicurezza. Ciò prova come la persecuzione che Giovanni stava subendo non fosse soltanto da parte dei giudei, ma anche dei gentili e, in particolare, dei romani. E prendere visione di ciò è un correttivo davvero necessario per molti commentari e altri libri sull’Apocalisse.

Sembrerebbe, infatti, cosa alquanto strana menzionare la sua persecuzione da parte di Roma in questi versetti introduttivi del libro, versi che dovrebbero guidare la nostra lettura, per poi non trattare mai più della persecuzione di Roma nel resto del libro. Insomma, parrebbe un fatto estremamente strano. Eppure, la maggior parte dei futuristi non si dà pena alcuna nel mostrare la relazione tra la sofferenza di Giovanni a Patmos, campo di prigionia romano – una sorta di Alcatraz dell’antichità, e i temi del resto dei suoi scritti. Ciò dovrebbe insospettire chiunque: c’è qualcosa di sciocco in tali interpretazioni. I futuristi vedono i futuri pagani coinvolti nei capitoli successivi, ma non i romani. D’altro canto, i preteristi integrali tendono a vedere tutto solo in relazione ad Israele. Ma il giusto equilibrio consiste nel vedere che questo libro tratta della Roma del I secolo (verso 9), dell’Israele del I secolo (verso 7), come pure di altri re della terra (verso 5).

Pertanto, nella parola “Patmos” non vi è nessun nuovo principio, ma è comunque una prova importante a sostegno del principio n. 12 (“l’Apocalisse è da vedersi come un procedimento giudiziario intentato contro la chiesa, Israele e Roma”).

 

Reiterazione del principio n. 3: questo libro è stato ispirato o mosso dallo Spirito (“nello Spirito”) e non il prodotto della volontà umana (v. 10a; cfr. 2 Pietro 1:21; 1 Tess. 2:13).

Passando al versetto 10, vediamo Giovanni dire: “Mi trovai nello Spirito nel giorno del Signore”. Chilton sottolinea come il greco della proposizione “nello Spirito” è un’espressione tecnica che sta per “ispirazione profetica” – in cui lo Spirito prende il sopravvento sulle facoltà di un profeta e lo porta in modo soprannaturale al concilio celeste per ascoltare la rivelazione di Dio. Ad esempio, Matteo 22:43 in riferimento alla scrittura ispirata di Davide dice: “Come dunque Davide in ispirito…” (cfr. 2 Sam. 23:2; Ez. 2:2; 3:24; 2 Pt. 1:21)[4]. E questa formulazione la ritroviamo in Apocalisse 4:2 (“E subito fui rapito in spirito”) mostrandoci che essere nello Spirito porta la rivelazione ispirata. In Apocalisse 17:3 Giovanni usa un linguaggio molto simile a quello usato in Ezechiele per descrivere l’essere portato in una terra lontana nello Spirito. Fa lo stesso nel capitolo 21, verso 10, dove dice: “E mi trasportò in spirito su di un grande ed alto monte”. Il suo corpo era ancora a Patmos, ma lo Spirito di Dio lo spinse a vedere e scrivere cose che non avrebbe potuto vedere e scrivere da solo.

Perché ci tengo a dire ciò? Ebbene, fin troppi commentari sembrano enfatizzare così tanto l’aspetto umano degli scritti di Giovanni, che potrebbe capitare di avere l’impressione che queste idee abbiano avuto origine da Giovanni. Ma “nello Spirito” è evidentemente il contrario di essere “in” sé stessi. Ad esempio, dopo che Pietro ebbe ricevuto la rivelazione nello Spirito, Atti 12:11 dice (letteralmente): “Quando Pietro venne in sé stesso…”. La Nuova Re Giacomo, come anche la Nuova Diodati, dice: “Quando rientrò in sé…”. Pietro qui era privo di sensi; ma, quando rientrò in sé, non era più ispirato. Quindi “nello Spirito” e “in sé stesso” sono cose del tutto diverse.

E siccome davvero in tanti sembrano riservare una scarsa visione dell’ispirazione divina, vale la pena rileggere due brani delle Scritture che mostrano che nulla in questo libro ha avuto origine nella volontà di Giovanni, anche se Dio ha utilizzato il vocabolario, la personalità e l’esperienza personale dell’apostolo nello scritto. Insomma, questo punto rafforza il principio n. 3 (“si deve considerare questo libro come un messaggio ispirato da Dio”).

Leggiamo 2 Pietro 1, verso 21: “Nessuna profezia infatti è mai proceduta da volontà d’uomo, ma i santi uomini di Dio hanno parlato, perché spinti dallo Spirito Santo”. Quindi, quei santi uomini di Dio, sì, hanno parlato, ma la rivelazione non ha avuto origine nella loro volontà. Furono spinti dallo Spirito Santo a parlare. In 1 Tessalonicesi 2:13 vediamo come si dica più o meno la stessa cosa: “Anche per questo non cessiamo di render grazie a Dio perché, avendo ricevuto da noi la parola di Dio, l’avete accolta non come parola di uomini, ma come è veramente, quale parola di Dio, che opera efficacemente in voi che credete”.

E questo è tutto ciò che dirò su questa reiterazione del principio n. 3. Passiamo adesso all’enunciazione della nostra trentatreesima indicazione ermeneutica, ovvero l’ultima.

Il principio n. 33 dice: la visione di Giovanni ha luogo “nel” Giorno del Signore (domenica); non è, quindi, una visione “sul” Giorno del Signore (cioè, la “fine della storia” – come credono alcuni futuristi) (v. 10)

Infatti, i premillenaristi, come pure alcuni amillenaristi appartenenti alla branca futurista della loro scuola, cercano di affermare come la prima parte del versetto 10 descriva qualcosa che Giovanni vede 2000 anni dopo. Insomma, quasi come se fosse un viaggio nel tempo. Credono, per così dire, che Giovanni sia stato inserito in una qualche macchina del tempo venendo, quindi, proiettato fino alla fine della nostra epoca. Permettetemi che vi rilegga il versetto. C’è, infatti, bisogno che io mi ci soffermi spiegandolo. Questo dice: “Mi trovai nello Spirito nel giorno del Signore e udii dietro a me una voce, forte come una tromba…”.

I futuristi, di solito, sembrano sorvolare sui numerosi indizi indicanti un adempimento imminente delle profezie nel I secolo; ma si sprecano in pagine e pagine di spiegazioni nel tentativo di dimostrare come questo versetto catapulti Giovanni nella sua visione in un tempo distante 2000 e passa anni. E, a quanto pare, riescono a far ciò in maniera piuttosto ingegnosa, affermando come l’espressione che troviamo nel versetto 10, “giorno del Signore”, equivalga all’espressione comune nell’Antico Testamento, “il giorno del Signore” – che, in realtà, noi sappiamo essere quasi sempre un riferimento al Dio che giudica, ad un giorno di giudizio.

Dopo essersi speso nella scrittura di un’intera pagina cercando di dimostrare che “nel giorno del Signore” non può essere un riferimento alla domenica, John Walvoord conclude dicendo: “Il termine del Nuovo Testamento è, quindi, l’equivalente dell’espressione dell’Antico Testamento ‘il giorno del Signore’. Sulla base delle evidenze si preferisce, quindi, l’interpretazione che vede Giovanni venir proiettato in avanti al futuro giorno del Signore”[5].

Questa sua posizione implica che, se l’intera visione di Giovanni si riferisce a qualcosa avente luogo nel nostro futuro, allora non possiamo considerare nessuna di queste visioni come passate. Allo stesso modo, Roy Gingrich dice: “Giovanni in una visione fu portato nel suo spirito centinaia di anni nel futuro, nel “giorno del Signore [‘il giorno del Signore’]”, un giorno (un periodo di tempo) che inizia immediatamente dopo il Rapimento della chiesa e continua fino alla creazione del nuovo cielo e della nuova terra, 21:1, e un giorno che inizia con un tempo d’ira[6]“.

Che dire, potrebbe sembrarvi un punto di vista alquanto bizzarro; eppure, è molto comune. Come rispondiamo?

Ebbene, immaginiamo (per amore di discussione) di voler considerare anche noi questo come “il giorno del Signore”. Pensando ciò, potremmo quindi dire che Giovanni ebbe visioni del giorno del Signore che stava per verificarsi nel 66-70 d.C. Dopotutto, il versetto 1 dice che il libro parla di cose che devono accadere presto, il versetto 3 dice che il tempo è vicino e il versetto 19 dice che le cose sono in procinto di accadere – tutte espressioni aventi a che fare con l’indicatore temporale di imminenza mello.

Ma “il giorno del Signore” può riferirsi a giudizi storici altri rispetto a quello conclusivo situato alla fine della storia? Si, certamente che può! Difatti, delle numerose volte in cui ricorre l’espressione “giorno del Signore” nell’Antico Testamento, la maggioranza si riferisce ad eventi già adempiuti, non alla Seconda Venuta, che sancisce la fine della storia. Ad esempio, il giudizio sull’Egitto del 605 a.C. viene chiamato “il giorno del Signore” in Geremia 46:10. Allo stesso modo Ezechiele 13 parla dell’imminente distruzione di Israele ai giorni di Ezechiele come del “giorno dell’Eterno”. Del “giorno dell’Eterno” leggiamo pure in Ezechiele 30:3, in riferimento al giudizio dell’Egitto; il verso dice: “Il giorno è vicino, è vicino il giorno dell’Eterno; sarà un giorno di nuvole, il tempo delle nazioni. La spada verrà sull’Egitto…”. Anche Isaia 13 descrive la distruzione di Babilonia da parte dei Medi (nazione, tra l’altro, anch’essa andata estinta) ricorrendo più volte all’interno dello stesso capitolo all’espressione “il giorno dell’Eterno”; al verso 6, per esempio, leggiamo: “Urlate, perché il giorno dell’Eterno è vicino; esso viene come una devastazione da parte dell’Onnipotente”. Quindi, capiamo bene come questa locuzione possa riferirsi a qualsiasi abbattimento di una nazione nella storia. Pertanto, anche nel momento in cui, assecondando le interpretazioni futuriste, dovessimo prendere questa espressione come indicante i giudizi di Dio, anziché la domenica – tenendo conto di tutti gli indicatori di imminenza individuabili nei primi 19 versetti del capitolo 1 – non potremmo che far ciò in riferimento ai giudizi dispiegatisi nel 66-70 d.C. Quindi, questo è il massimo a cui potremmo arrivare, dando adito all’argomentazione futurista.

Tuttavia, vi sono diverse ragioni per cui questo davvero non può essere l’esito della nostra interpretazione. Quando Giovanni al verso 10 dice: “Mi trovai nello Spirito nel giorno del Signore…”, non parla del giudizio di Dio, tantomeno di quello alla fine della storia. Per avvalorare la mia posizione sarà sufficiente tirare in ballo lo stimato commentatore G. K. Beale, il quale spiega il motivo per cui la maggior parte dei commentari finisca per trovarsi concorde nel dire che l’autore dell’Apocalisse si riferisce semplicemente alla domenica. Beale afferma: “Tuttavia, κυριακός (kyriákos) non è mai usato per indicare il ‘Giorno del Signore’ nella Septuaginta, nel Nuovo Testamento o nei primi padri”[7]. In altre parole, non esiste un solo esempio nella letteratura antica di questa frase usata per descrivere un momento di giudizio; sono, però, decine i documenti del I e ​​del II secolo che lo utilizzano per riferirsi specificamente alla domenica.

“Del Signore” è, dunque, un complemento di specificazione che è da intendere come segue: “messo da parte/riservato per il Signore”. Ad esempio, la stessa parola κυριακός (del Signore) la vediamo in 1 Corinzi 11:20 adoperata per la Cena del Signore – come una cena separata e distinta da ogni altra cena. Questo ci dà bene il senso di come la Parola di Dio utilizza κυριακός. Pertanto, quando viene usata in relazione ad un giorno, deve riferirsi a un giorno specifico che viene riservato o santificato al Signore. E nel nostro caso, questo non può che essere il sabato cristiano.

E la maggior parte dei commentatori la pensa esattamente in questo modo, suffragati da moltissimi passaggi di scritti del I secolo che usano questa frase per riferirsi alla domenica come al sabato cristiano. Ad esempio, la Didaché – opera che da alcuni vien fatta risalire ad un tempo precedente la distruzione di Gerusalemme e che al più tardi fu scritta mentre Giovanni era ancora in vita – usa proprio questa locuzione per riferirsi al primo giorno della settimana. E ci sono dozzine di altri riferimenti nei padri della chiesa al fatto che il giorno del Signore è il sabato cristiano il primo giorno della settimana.

Quindi, ecco un passaggio da seguire per dimostrare che esiste ancora un giorno della settimana riservato a Dio e rivendicato da Dio come suo dominio esclusivo. Come disse Gesù, “…il Figlio dell’uomo è Signore del sabato” (Matteo 12:8, greco). È il suo giorno, non il nostro. E dovremmo tutti apprezzare il sabato cristiano come un grande dono della mano di Dio. E dovremmo tutti cercare di mettere da parte l’intera domenica (24 ore) come suo giorno.

Ebbene, mettiamo adesso insieme questo punto sulla domenica e il primo punto da cui siamo partiti: possiamo davvero affermare di camminare in Cristo Gesù se odiamo il suo giorno speciale? No. Per vivere più pienamente la nostra unione con lui dovremmo chiedergli di donarci una rinnovata passione per il suo giorno, il suo appuntamento con la chiesa.

Prove a sostegno dei principi n. 12, 19 e 22 (v. 11)

Mi avvio verso la conclusione offrendo solo pochi ultimi commenti sulla seconda metà del versetto 10 e sul versetto 11. Rileggiamoli ancora una volta: “Mi trovai nello Spirito nel giorno del Signore e udii dietro a me una voce, forte come una tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea»”.

Dato che questa porzione del testo offre diverse prove a sostegno di tre principi ermeneutici da noi già esaminati nel passato, non spenderò molto tempo nel commentarla. Vorrei innanzitutto chiedervi: “Vi è mai capitato che qualcuno si avvicinasse alle vostre spalle di soppiatto suonando una tromba?” A me hanno fatto un tale scherzo e posso dirvi di essere diventato giallo dalla paura. Non so se Giovanni ne rimase spaventato; sicuramente, però, quella voce potente fu efficace nell’attirare la sua attenzione. E il versetto 12 dice che si voltò per vedere chi stava parlando. Ed è questo il momento in cui gli appare la visione sulla quale ci soffermeremo la prossima volta.

Per adesso è interessante registrare come l’elemento tromba e il comando di scrivere tutto in un libro collocano l’Apocalisse esattamente nella stessa categoria dei profeti dell’Antico Testamento. Beale mette in evidenza che la voce come una tromba avrebbe immediatamente ricordato ai lettori giudei l’unica volta in cui ciò accadde nell’Antico Testamento, vale a dire in occasione dell’episodio in cui Mosè ricevette la legge sul monte Sinai. I giudei amavano il Pentateuco. Dovremmo noi amare di meno l’Apocalisse?

E il comando di metter giù su carta la rivelazione dell’Apocalisse lega Giovanni indissolubilmente ai profeti dell’Antico Testamento. E Beale sottolinea un altro punto che penso costituisca una bellissima introduzione alla causa giudiziaria pattizia che è sul punto di svolgersi. Egli dice:

Il lettore esperto dell’Antico Testamento riconoscerebbe forse come tutti questi incarichi nei profeti fossero comandi di scrivere testamenti di giudizio contro Israele (così la Septuaginta di Isaia 30:8; Geremia 37:2; 39:44; cfr. anche Esodo 34:27; Isaia 8:1; Geremia 36:1; Abacuc 2:2). Pertanto, in questo punto iniziale del libro c’è già un accenno al fatto che una delle sue principali preoccupazioni sarà il giudizio (giudizio, come vedremo, del mondo e di coloro che nella chiesa scendono a compromessi con il mondo; ad esempio, capp. 2–3)[8].

E poiché ho già trattato abbondantemente questi temi nei sermoni precedenti, non penso che ci sia bisogno di aggiungere altro.

Bene – con il versetto 11 e l’elenco delle chiese destinatarie degli scritti di Giovanni si conclude anche l’introduzione al libro dell’Apocalisse. Vorrei, quindi, chiudere questa sezione esprimendo gratitudine verso Dio per averci dato questi 33 principi – tanto preziosi per la comprensione della sua Parola. Anche se è vero che l’Apocalisse è un libro molto difficile da comprendere, prendendo sul serio queste chiavi ermeneutiche, non possiamo che godere di un gran vantaggio nell’affrontare l’interpretazione di questi scritti – insomma, nulla a confronto con gli strumenti offerti dalla maggior parte dei commentari di ogni scuola futurista. Chiaramente non è mia intenzione trasmettervi l’illusione che io abbia compreso appieno ogni minimo dettaglio di questo libro. Tuttavia, son persuaso di come la comprensione di questi principi sia in grado di darci la fiducia necessaria per studiare ed applicare l’Apocalisse alla nostra vita. Voglio, quindi, chiedervi di tenermi nelle vostre preghiere, così che Dio mi guidi e mi dia saggezza per il proseguo della serie “Progetto Apocalisse” nei mesi che verranno.

Preghiamo: Padre celeste, grazie per il dono di questi primi undici versetti introduttivi. Grazie per averci messo a disposizione le chiavi interpretative utili ad una proficua comprensione di questa rivelazione. Grazie perché intendi svelarci il libro. E giacché ci hai chiamati a comprenderlo e ad obbedirgli, ti preghiamo affinché tu ci dia l’illuminazione e la grazia necessarie per obbedire con gioia. E che la nostra comprensione del libro non sia soltanto pienamente cristocentrica, ma che “in Cristo Gesù” – quindi, potenziati dall’unione in lui – possiamo vivere il messaggio concretamente. Ti chiediamo questo nel nome di Gesù. Amen.


Originale: https://biblicalblueprints.com/Sermons/New%20Testament/Revelation/Revelation%201_1-11/Revelation%201_9c-11?utm_source=kaysercommentary.com

[1] Traduzione di Wilbur Pickering,  in The Sovereign Creator Has Spoken: New Testament Translation With Commentary (Creative Commons Attribution/ShareAlike Unported License, 2013).

[2] Come citato da A. T. Robertson, Paul’s Joy in Christ Studies in Philippians (New York; Chicago; Toronto; London; Edinburgh: Fleming H. Revell Company, 1917), p. 194.

[3] G. Campbell Morgan, “A Good Friday Meditation”, http://gcampbellmorgan.com/sermons/206.html

[4] David Chilton, Days of Vengeance (Forth Worth: Dominion Press, 1987), p. 70.

[5] John F. Walvoord, The Revelation of Jesus Christ (Chicago: Moody Press, 1966, 1989), p. 42.

[6] Roy E. Gingrich, The Book of Revelation (Memphis, TN: Riverside Printing, 2001), p. 13 [N.d.T.: nell’originale inglese si incontrano due espressioni diverse, ovvero the Lord’s day e the day of the Lord; entrambe non possono che dare in Italiano lo stesso e medesimo esito, vale a dire “il giorno del Signore”, creando in tal modo una possibilità di fraintendimento nella lingua di arrivo. Ricordo qui come nell’economia del sermone, in cui appare tale citazione, the Lord’s day intenda indicare “la domenica”, mentre the day of the Lord un evento legato all’esercizione del giudizio divino nella storia, come pure il giudizio ultimo alla fine della storia].

[7] G. K. Beale, The Book of Revelation: A Commentary on the Greek Text, New International Greek Testament Commentary (Grand Rapids, MI; Carlisle, Cumbria: W.B. Eerdmans; Paternoster Press, 1999), p. 203.

[8] G. K. Beale, The Book of Revelation: A Commentary on the Greek Text, New International Greek Testament Commentary (Grand Rapids, MI; Carlisle, Cumbria: W.B. Eerdmans; Paternoster Press, 1999), pp. 203–204.


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