Guida divina per la comprensione del libro dell’Apocalisse – Parte 3
Di Phillip G. Kayser, sermone del 17/05/2015
Parte della serie “Progetto Apocalisse”
Questo sermone affronta due ulteriori presupposti che ci aiutano a comprendere l’Apocalisse: il ruolo degli angeli e l’intento autoriale. Durante l’esposizione verranno affrontate anche questioni legate alla provvidenza, all’ispirazione, alla grammatica ebraica del greco usato in questo libro, al rapporto dell’Apocalisse con i libri dell’Antico Testamento e al come trarre profitto dalla lettura della Bibbia in generale.
Siamo ancora alle prese con i primi tre versetti di Apocalisse 1. Li leggiamo secondo il testo greco “maggioritario”:
1 Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi schiavi le cose che devono presto accadere, e che egli comunicò mandando il suo angelo al suo schiavo Giovanni, 2 il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto: le cose che sono e quelle che devono accadere dopo di esse. 3 Beato chi legge e chi ascolta le parole della profezia e osserva le cose che sono scritte in essa, perché il tempo è vicino[1].
Introduzione
In questi primi sermoni introduttivi stiamo esaminando la prefazione dell’Apocalisse per capire a quale tipo di letteratura appartiene il libro e come dovrebbe essere affrontato così da trarne il massimo beneficio. Nei primi versi, Giovanni espone chiare regole di interpretazione o, comunque, quelli che possiamo considerare presupposti guida per una corretta analisi del testo. Si tratta nel concreto di trenta principi che, dopo lunghi anni di incertezza e perplessità, mi hanno finalmente permesso di arrivare ad afferrare efficacemente il contenuto del libro.
Facciamo al volo un piccolo ripasso di quanto esposto finora.
Primo, il libro inizia con la parola “rivelazione”, ovvero svelamento. Questo libro svela ciò che altrimenti non potrebbe essere visto. Il principio legato al termine greco apokalupsis è importante perché ci aiuta nello scacciare ogni scetticismo sulla nostra reale capacità di comprendere questi scritti.
Secondo, si tratta di una rivelazione di Gesù Cristo e del suo regno celeste, e parla più di ciò che egli sta facendo nella storia che della bestia.
Terzo, è un libro ispirato che rivela le parole stesse di Dio. Quindi, siamo certi di non avere a che fare con parole d’uomo. Queste non sono farina del sacco di Giovanni; sono parole “che Dio gli diede per render noto ai suoi schiavi…”.
Quarto, questa è una rivelazione destinata a tutti gli schiavi di Cristo, non solo ad accademici ed esperti. Inoltre, considerare il nostro ruolo di “schiavi” ci permette di rammentare l’assoluta Signoria del nostro Dio.
Quinto, l’espressione “per render noto” esclude completamente l’idea che possa trattarsi di scritti di carattere misterico. L’apocalisse, infatti, non fa parte della letteratura gnostica. Dio non ha intenzione di nasconderci nulla – è pronto a mostrarci chiaramente il significato del libro in questione.
Sesto, questo è un libro che tratta di storia, non solo di idee. Racconta di “cose che devono presto accadere”. Questa è una frase che abbiamo visto indebolire decisamente la posizione della scuola idealista, secondo la quale Apocalisse sarebbe lì principalmente per fornirci una serie di modelli teorici.
Settimo, la storia raccontataci nel libro, grazie a quel “devono” (“cose che devono presto accadere”), è da vedersi come una Storia della Provvidenza divina. Il quesito fondamentale attorno al quale ruota questo principio è: “Chi governa la storia?”. Alcuni commentatori danno l’impressione che la storia sia controllata da Satana o da società segrete e potentati internazionali vari. Nulla di più sbagliato: è Dio a guidare la storia.
Ottavo, l’indicatore temporale “presto” mostra come la maggior parte di questo libro tratti di eventi che hanno iniziato ad accadere entro mesi o addirittura settimane dalla stesura del libro. E ciò viene ribadito nel versetto 3 (“il tempo è vicino”). Quindi, non 2000 anni dopo – ma di lì a poco.
Il nono ed ultimo principio da noi considerato può essere individuato nel verbo “comunicò”. Abbiamo visto come il greco esímanen voglia dire specificamente “comunicare / scrivere in simboli, segni e figure”. Quindi questo è un libro di simboli. E abbiamo dedicato l’intero sermone della scorsa volta a studiare le regole per interpretare la letteratura simbolica, considerando pure come ciò non vada ad escludere il significato letterale: le due cose procedono di pari passo. La ricerca di un’effettiva corrispondenza tra i termini simbolici e ciò a cui essi si riferiscono nella storia è importante.
Bene. Dopo questo veloce riepilogo, eccoci pronti a passare al principio n. 10.
Il principio n. 10 dice: il ruolo degli angeli si deve considerare come di fondamentale importanza nella storia del mondo (v. 1k – “angelo”)
Molti dei commentari da me letti non dedicano nessuno spazio alla parola “angelo” e la maggior parte di quelli che lo fanno non si sprecano in grandi spiegazioni a tal riguardo. Per alcuni, vedere inserito un angelo nel processo di ispirazione pare cosa alquanto strana. Eppure, il versetto 1 dice: “Egli comunicò mandando il suo angelo al suo schiavo Giovanni”. Beh, il verso è chiaro: a trasmettere questo messaggio vi era indubbiamente un angelo, un angelo inviato da Gesù.
Adesso vi illustrerò i tre punti che mi hanno portato a formulare un intero principio attorno alla parola “angelo”. Eccovi il primo:
1) Il ruolo degli angeli nell’ispirazione della Scrittura è rilevante.
Ma prima di addentrarci nella spiegazione di questo primo punto, vorrei osservare qualcosa insieme a voi. Nei versetti 1 e 2 vediamo che il Padre dà la rivelazione a Gesù; questo la passa all’angelo, il quale la consegna a Giovanni, che infine la inoltra alla chiesa. Ma c’è una Persona che qui non viene menzionata. I versetti 4 e 10, infatti, vedono anche un coinvolgimento dello Spirito Santo nel processo di rivelazione. Il verso 10 dice: “Ero nello Spirito nel giorno del Signore”. Cosa deduciamo da ciò? Questo versetto ci mostra come Giovanni non faccia nulla di propria iniziativa e per proprie capacità: è nello Spirito. È Lui a muovere i profeti a ricevere la rivelazione infallibilmente ed infallibilmente a comunicarla alla chiesa. In 2 Pietro 1, al verso 21, leggiamo: “…poiché non da volontà umana fu recata mai profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio”.
Chiarito ciò, per quel che concerne il nostro decimo principio, non mi occuperò tanto del ruolo dello Spirito Santo, quanto piuttosto di quello degli angeli, creature spesso e volentieri poco considerate.
Solitamente non si pensa che gli angeli siano in alcun modo coinvolti nella trasmissione delle Scritture. Ma lo sono, eccome! Lasciate che vi presenti alcuni esempi dalla Parola di Dio.
Riguardo alla legge di Mosè, Galati 3:19 dice: “…essa fu promulgata dagli angeli per mano di un mediatore”. E – attenzione – non è che qui gli angeli fossero semplicemente presenti, così per caso. Ebrei 2:2 dice sempre a proposito della legge data sul monte Sinai: “Se, infatti, la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda…”. Quindi, apprendiamo da questi esempi come la legge data a Mosè fu trasmessa per il tramite degli angeli. E a proposito, il libro di Meredith Kline, Immagini dello Spirito, non solo mostra come la nuvola di gloria con cui Mosè interagiva costantemente fosse una teofania divina, ma come fosse anche piena di milioni di angeli, le cui ali a volte emettevano grandi rumori, rumori di cui, tra l’altro, fa menzione pure l’Apocalisse. Ad ogni modo, Deuteronomio 33:2 dice che c’erano decine di migliaia di angeli che contribuirono al passaggio della legge a Mosè. Le dinamiche precise di questo coinvolgimento angelico non ci vengono illustrate, ma che vi sia una loro opera di trasmissione è chiaro. Anche da Atti 7:53 possiamo trarre un’ulteriore conferma di ciò; vi leggiamo, infatti: “Voi che avete ricevuto la legge per mano degli angeli…”.
Questo coinvolgimento angelico vale anche per molte altre profezie. Un angelo era in qualche modo coinvolto nelle grandi visioni di Daniele delle quattro bestie in Daniele 7; nella visione dell’ariete e del caprone nel capitolo 8; nella visione delle settanta settimane nel capitolo 9 e nella visione gloriosa dei capitoli 10 e 11. Gli angeli sono menzionati in relazione alle profezie date a Zaccaria.
E, d’altra parte, tutto ciò ha un suo perché, dato che la parola “angelo” vuol dire proprio messaggero. Nel libro che stiamo studiando ci sono messaggeri invisibili non umani e ci sono anche messaggeri umani. Il termine greco angellos descrive entrambi. E i messaggeri divini celesti e quelli terreni sono intrecciati in forme di cui molti cristiani moderni non sospetterebbero più.
Passiamo adesso al secondo punto.
2) Il ruolo degli angeli nella provvidenza divina è considerevole (come, d’altra parte, mostrato anche nel resto dell’Apocalisse).
La verità è che, in generale, siamo poco abituati a pensare ad un qualsiasi coinvolgimento angelico. Eppure, come sottolineato da Giovanni Calvino, gli angeli sono coinvolti in ogni azione della provvidenza divina. Ciò lo si vede attraverso tutta la Bibbia. Il Salmo 78, al verso 49, ad esempio, ci dice che furono proprio gli angeli a portare le dieci piaghe sull’Egitto. E per molti aspetti l’importanza di queste creature è visibile nello stesso libro dell’Apocalisse. Sarebbe, quindi, per noi cosa indubbiamente buona e conveniente conoscere un po’ meglio questi esseri e le loro funzioni. Il capitolo 8 mostra come abbiano un ruolo nella trasmissione delle nostre preghiere verso il cielo e delle risposte di Dio verso la terra. In quello stesso capitolo gli angeli li vediamo coinvolti nella distruzione degli alberi e dell’erba, e nell’avvelenamento delle acque. Il capitolo 16 mostra un angelo che ha il potere di far ammalare. Apocalisse 7:1 li presenta alle prese con il controllo dei venti. Il verso dice: “Dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né su alcuna pianta”.
Eppure, già vi vedo chiedervi: “Davvero? Gli angeli sono veramente capaci di trattenere il vento? Mah, forse si tratta di un qualcosa da intendere in senso metaforico. Dopo tutto, abbiamo compreso come il libro in questione di simboli ne utilizzi davvero parecchi. Quindi, chi sa come stanno le cose!” Però, passando in rassegna quanto la Bibbia ci dice sulle capacità degli angeli, non possiamo che renderci conto di come l’esempio appena considerato non sia affatto una metafora. Queste creature sono abbondantemente coinvolte negli atti provvidenziali di Dio. John Frame, professore di teologia al Seminario Teologico Riformato, rimarca come essi siano addirittura coinvolti fin nei più piccoli dettagli delle azioni della Provvidenza. Ora, non sono così sicuro di poter seguire Frame anche quando prova a chiedersi se gli angeli siano persino dietro al frusciare delle foglie degli alberi, ma convengo di certo nel considerare in maniera più seria come la Scrittura li descriva come ampiamente presenti nella nostra vita quotidiana, più di quanto la maggior parte dei cristiani ritenga possibile.
In Apocalisse capitolo 8, versetto 5, osserviamo un angelo causare fulmini e terremoti. Altri li vediamo portare grandine e fuoco mescolato con sangue, trasformare l’acqua in sangue e oscurare il sole per un terzo della giornata. Tali cose accaddero realmente nel I secolo, tanto che ne troviamo conferma anche nelle cronache romane del tempo. Ebbene, dietro tutti questi straordinari avvenimenti, come pure dietro ogni evento ordinario o meno della nostra vita, troviamo proprio loro: gli angeli.
Eppure, vi sono molti commentatori che ritengono come tutto ciò sia troppo inverosimile e preferiscono pensare agli angeli come simboli operanti azioni e cose di carattere simbolico. Il fatto è che, però, spiegando gli angeli dell’Apocalisse come metafore, ci toccherebbe evidentemente fare lo stesso anche con Giobbe, il quale descrive gli angeli come capaci di provocare fulmini e tornado. E si sarà poi costretti ad applicare lo stesso principio pure con l’Esodo, nel quale tutte e dieci le piaghe furono messe in atto proprio dagli angeli di Dio. Dall’Esodo sappiamo che ciascuna di quelle dieci piaghe simboleggiava la vittoria di Dio su ciascuno degli dèi d’Egitto; eppure, si trattava anche di piaghe reali abbattutesi su persone reali in una vera e propria guerra spirituale tra demoni ed angeli nella storia. Quindi, ancora una volta, come già considerato nello scorso sermone, constatiamo come il contenuto degli scritti con i quali ci stiamo confrontando sia da ritenersi sia simbolico che letterale.
Il punto centrale da ritenere è questo: non è possibile comprendere il libro dell’Apocalisse non tenendo in conto la presenza di trilioni di demoni (che sono angeli caduti) e del doppio degli angeli buoni (al servizio di Dio).
Il libro dell’Apocalisse è uno svelamento che ci mostra Gesù. Ci consente, però, di osservare anche quanto accade dietro le quinte del mondo fisico, con tutto ciò che parallelamente accade nel regno invisibile, scoprendone in tal modo l’impatto reale sulla terra. E quel regno celeste vede il coinvolgimento di un grandissimo numero di angeli. Son sicuro del fatto che, una volta terminato lo studio dell’Apocalisse, avrete un apprezzamento completamente nuovo per il ruolo svolto dagli angeli nella storia degli uomini. Quindi, capiamo bene come la presenza di un angelo insieme al Padre e al Figlio, al momento in cui avviene lo “svelamento” nel versetto 1, non dovrebbe essere per nulla strano o sorprendente. Sono tanti gli esempi biblici che ci mostrano una loro costante presenza.
Agli angeli dovrebbe essere rivolto il nostro ringraziamento per averci fatto dono della Bibbia. Luca 15:10 dice che essi si rallegrano quando un peccatore si converte e il Salmo 91:11 che proteggono i credenti. Matteo 18:10 ci informa di come ad ogni figlio del Patto venga assegnato almeno un angelo. Non c’è da stupirsi che vari brani parlino della loro presenza nelle assemblee dei santi. Sono qui con me e con voi proprio in questo momento: osservano come adoriamo, le nostre espressioni facciali e senza dubbio sono stupiti dal fatto che ci avviciniamo al trono di Dio con tanta disinvoltura. Quando, infatti, il trono di Dio viene svelato nel capitolo 4, vediamo le persone mettere da parte i loro programmi e interessi meschini, e provare timore reverenziale nei confronti del Dio Creatore che è un fuoco divorante. Gli angeli sono qui e notano tutto ciò che facciamo. Luca 16:22 dice che un angelo porterà la vostra anima in cielo quando morirete. Sono così coinvolti nelle nostre vite che ci sarebbe da sorprendersi di come paradossalmente finiamo per temere il nemico più di quanto temiamo gli angeli di Dio.
John Frame ha detto:
La Bibbia presenta gli esseri angelici come esseri «con i quali abbiamo a che fare», come uno dei contesti della vita cristiana. È difficile per il cristiano moderno sapere cosa farne. I credenti dei tempi biblici erano profondamente consapevoli della presenza di angeli in mezzo a loro, come quando Paolo menziona che le donne dovrebbero indossare un copricapo “a causa degli angeli” (1 Corinzi 11:10). Paolo non sente il bisogno di spiegare questa frase. Presume che i corinzi capiscano cosa intende… I cristiani moderni, me compreso, hanno perso la vivida coscienza degli esseri angelici che i credenti del Nuovo Testamento davano per scontata…”;
Parte del problema è che le persone moderne hanno perso il contatto con il soprannaturale e il preternaturale. Sono diventati scettici nei confronti di qualsiasi mondo e di qualsiasi essere al di là di quelli dei nostri sensi. I cristiani almeno credono in Dio, ma hanno assorbito abbastanza l’anti-soprannaturalismo della loro cultura che la fede negli angeli sembra loro estranea…;
La dottrina degli angeli si pone contro la piccolezza e l’impersonalismo della nostra cosmologia. Le visioni del mondo moderno tipicamente affermano di aver scoperto un universo molto più vasto di quello conosciuto dagli antichi e dai medievali. Ma hanno una visione molto più ristretta dell’universo delle persone, avendo abbandonato la fede in Dio e negli angeli. Secondo la Scrittura, tuttavia, un gran numero di angeli abitano il mondo. Dobbiamo quindi sviluppare una prospettiva più ampia.
E prosegue poi raccontando la storia del servitore di Eliseo terrorizzato da tutti gli eserciti umani che assediavano la città di Dotan. Dio aprì gli occhi del servo per aiutarlo a vedere le miriadi di guerrieri angelici, di cavalli e di carri di fuoco che lo circondavano, e così lui poté finalmente capire perché Eliseo non fosse minimamente preoccupato. Eliseo aveva detto: “Non abbiate paura, perché quelli che sono con noi sono più di quelli che sono con loro”.
Ebbene, questa è la prospettiva che ci offre anche il libro dell’Apocalisse. Inizia con un angelo che incontra un uomo e in tutto il corso della storia è osservabile un’intensa presenza e attività angelica. Svelando questo mondo invisibile, mostrando che quelli che sono per noi sono di gran lunga di più di quelli che sono contro di noi, Dio mira ad allontanare la paura dai cristiani.
Quindi, anche se nella prefazione del libro la presenza di un angelo serve principalmente a dirci qualcosa su come abbiamo ottenuto questi scritti, è comunque importante registrare questo elemento angelico anche come una prima introduzione al mondo dell’invisibile, una dimensione che il resto del libro ci svelerà in modo più ampio e completo.
E, infine, ecco il terzo punto che rende importante il principio n. 10.
3) Il riferimento all’angelo nella prefazione avrebbe immediatamente richiamato l’attenzione del lettore dell’epoca ai profeti Ezechiele, Daniele e Zaccaria.
L’esperienza profetica di Giovanni, il quale si ritrova ad avere a che fare con un angelo che gli comunica la sua rivelazione, è identica all’esperienza di Ezechiele, Daniele e Zaccaria. Qualsiasi ebreo che avesse letto questi primi due versetti sarebbe prontamente andato con la mente a questi tre profeti del Vecchio Testamento. Difatti, son persuaso che questo sia un elemento appositamente evidenziato nella prefazione del libro, così da risultare il primo di molti indizi che vedono l’Apocalisse essere fortemente dipendente da questi tre profeti.
L’imponente opera di G. K. Beale e D. A. Carson, Commentario sull’uso dell’Antico Testamento nel Nuovo Testamento, non solo mostra come l’Apocalisse contenga circa mille allusioni all’Antico Testamento, ma espone anche l’enorme influenza in particolare di Daniele, Ezechiele e Zaccaria. Sebbene sia Isaia ad avere il maggior numero di citazioni dirette, è Daniele ad influenzare la maggior parte dei versetti dell’Apocalisse, seguito subito dopo da Ezechiele, dai Salmi e poi dall’immaginario simbolico di Zaccaria.
Il principio n. 11 dice: si deve prendere in considerazione l’intento autoriale di Giovanni (v. 1l-2a – “al suo schiavo Giovanni, il quale attesta la parola di Dio”). Nel processo di ispirazione è necessario intendere il giusto rapporto tra l’origine divina (vv. 1-2) e l’autorialità umana (vv. 2, 3, 10)
L’undicesimo principio consiste in questo: Giovanni era attivamente coinvolto nella scrittura e, quindi, dobbiamo considerare le sue intenzioni in quanto autore. Questo principio potrebbe non essere intuitivamente tanto ovvio. In effetti, potrebbe persino sembrare in piena contraddizione con ciò che abbiamo detto finora a proposito di come la profezia sia da ritenersi ispirata al 100% da Dio. Ogni parola di questo libro viene da Dio. Se siamo dunque d’accordo che profezia significhi avere Dio che parla attraverso un profeta, perché allora si rende necessario parlare di un qualsivoglia intento autoriale di Giovanni? Bene, vedremo come ciò sia davvero rilevante. Rileggiamo i versetti 1 e 2:
Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi schiavi le cose che devono presto accadere, e che egli comunicò mandando il suo angelo al suo schiavo Giovanni, il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto: le cose che sono e quelle che devono accadere dopo di esse.
Si noti come Giovanni non sia un destinatario passivo. È sì un destinatario, ma non passivo. Il versetto 2 dice di Giovanni, che “attesta la parola di Dio (vale a dire l’Antico Testamento) e la testimonianza di Gesù Cristo (vale a dire le parole di Cristo nei Vangeli), riferendo ciò che ha visto (cioè le sue proprie visioni)…”. Notate bene: anche Giovanni, proprio come fatto da tutti gli altri profeti, attesta la testimonianza della rivelazione del passato.
In realtà, molti commentatori considerano tutte e tre le componenti appena esaminate semplicemente come sinonimi del libro stesso dell’Apocalisse. E sebbene questo sia un modo possibile di interpretare il greco, basato sull’uso ebraico della congiunzione “e” e sul ruolo di Giovanni come profeta, sono arrivato a credere che ciò non sia corretto e nel prossimo sermone avrò modo di trattare meglio questa faccenda.
Eccovi, comunque, già adesso una piccola anticipazione: era uso costante dei profeti attirare l’attenzione di coloro ai quali si rivolgevano su rivelazioni del passato, specialmente su quelle che erano state ignorate. L’impegno profetico, da questo punto di vista, è quindi decisamente assimilabile all’esercizio di vere e proprie azioni legali mosse contro la chiesa o, comunque, contro una nazione per violazioni pattizie della Parola di Dio. Giovanni in seguito si autodefinisce profeta, oltre che testimone, il che è un concetto propriamente giudiziario – insomma, da aula di tribunale. Giovanni è, quindi, da vedersi come un soggetto molto attivo in nome di Dio (un testimone giudiziale). Egli arriva ad accordo con Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo e con l’angelo in un procedimento giudiziario contro Israele. Ma, come detto poco fa, avrò modo di affrontare meglio la questione la prossima volta. Per adesso, ci concentreremo sul processo di ispirazione e in particolare tratteremo delle due parti di cui esso consta.
Il lato divino dell’ispirazione
Per quel che riguarda la prima parte di ciò che accade nel processo di ispirazione, andiamo a vedere cosa dice 2 Pietro 1. Questo è uno dei tanti versetti dal quale ben capiamo come la Scrittura non venga prodotta per volontà d’uomo – solamente Dio può esserne la fonte. Leggiamo i versetti 19, 20 e 21, nei quali viene detto:
Abbiamo inoltre la parola profetica più salda: farete bene a prestarle attenzione, come a una lampada splendente in luogo oscuro, fino a quando spunti il giorno e la stella mattutina sorga nei vostri cuori. Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un’interpretazione personale; infatti nessuna profezia venne mai data dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo.
Ci è chiaro, quindi, come anche gli scritti dell’Apocalisse non siano ovviamente farina del sacco del suo autore umano. Non è che Giovanni, magari svegliatosi una mattina in vena di scrivere qualcosina di suo, avesse preso penna e calamaio con l’obiettivo di arricchire la Bibbia con qualche pensiero in più secondo il proprio gusto. Apocalisse 1:1 ci mostra esplicitamente come ogni parola del libro abbia origine in Dio Padre, passi per il tramite di Gesù, il quale la dà al suo angelo, che poi la consegna a Giovanni. Inoltre, i versetti 3, 4 e 10 indicano anche un chiaro ruolo dello Spirito di profezia, il quale, presente in Giovanni, fa sì che egli non aggiunga nulla di suo. Già abbiamo avuto modo di leggere il brano di 2 Pietro nel quale si afferma che “nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma santi uomini di Dio parlarono mossi dallo Spirito Santo”. Quindi Giovanni era semplicemente uno strumento nelle mani di Dio.
Il lato umano dell’ispirazione
Perché allora, stabilito quanto detto poc’anzi, si rende comunque necessario parlare dell’intento autoriale dello “strumento” Giovanni? La risposta è che farlo è doveroso perché in tutta la Scrittura c’è pure un lato umano da considerare. Non dovremmo, infatti, pensare all’ispirazione come a un’attività di natura meccanica in cui Dio muove la mano di Giovanni come se questo fosse un robot non pensante. Giovanni fu coinvolto molto attivamente nel processo di scrittura, nel senso che la sua personalità, il suo vocabolario, le sue esperienze e il suo stile unico furono adoperati dallo Spirito per comunicare le parole del libro.
Provate a pensarla in questi termini: se voleste suonare un certo brano musicale, potreste farlo utilizzando una tromba, un flauto, un violino o qualsiasi altro strumento. Ogni strumento darebbe una sensazione, un suono e, per così dire, un sapore diverso alle note dello spartito. Queste, però, non cambierebbero. E allo stesso modo, Dio ha disposto speciali strumenti umani: i profeti. Ad esempio, Geremia e l’apostolo Paolo furono messi da parte fin dal grembo materno e “fabbricati” per essere lo strumento esatto che Dio avrebbe in seguito usato per la messa in musica delle sue composizioni. Dio ha selezionato questi strumenti umani per la scrittura di certi libri, impiegando proprio il loro vocabolario, le loro esperienze, le loro emozioni, ecc., così da conferire una certa coloritura particolare ad ogni testo della sua Parola, nella maniera da lui programmata. In ciò consiste l’aspetto umano dell’ispirazione. Pertanto, ogni libro della Bibbia ha in sé un elemento caratterizzante diverso dovuto alle specifiche dello strumento selezionato, nonostante – ribadendo ancora la metafora musicale – le note siano proprio le note e solo le note di Dio compositore e musicista.
Quindi, può capitare di avere a che fare con un autore, il quale, per dire come Dio abbia detto una determinata cosa, citi alcuni versi; lo stesso autore poi, però, potrebbe dire in un’altra frase che quella cosa fu detta, per esempio, da Davide citando ancora una volta esattamente quegli stessi versi. Quale delle due cose è vera? Beh, sono vere entrambe. Per esempio, Marco 12:36 dice: “Poiché Davide stesso, per lo Spirito Santo, disse: «Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io abbia fatto dei tuoi nemici lo sgabello dei tuoi piedi»”.
Davide stesso disse ciò per mezzo dello Spirito Santo. Ecco, quindi, come entrambe le cose sono da accettare come vere. È sempre opportuno citare la Scrittura dicendo: “Dio dice”, perché ogni parola della Scrittura è parola di Dio. È, comunque, anche giusto dire (come fa la stessa Bibbia centinaia di volte): “Mosè disse” (Marco 7:10; Atti 3:22; ecc.), “Isaia disse” (Giovanni 1:23; 12:38; ecc.) e così via. Mosè ed Isaia, pronunciando essi stessi le proprie parole, erano pienamente coscienti e presenti a sè stessi, non certo in trance. In quanto profeti di Dio, utilizzano proprie emozioni, propri termini e adoperano propri processi mentali. Eppure, quella rimaneva pur sempre la parola stessa di Dio che veniva proferita attraverso di loro.
E questo sarà molto rilevante quando affronteremo la questione dell’intento autoriale. Mentre elaboriamo i vari passaggi dell’Apocalisse ci chiederemo costantemente: “Cosa intendeva comunicare Giovanni al suo pubblico originale?” Questa, come vedremo, è una domanda molto importante da porsi.
Come i due aspetti (divino ed umano) stanno insieme
A volte si fatica non poco a comprendere come il divino e l’umano possano essere entrambi presenti senza che vi sia alcun errore. È per questo che adesso mi avventurerò in un breve discorso sulla dottrina dell’ispirazione della Scrittura. Se foste interessati ad approfondire questo specifico argomento, allora vi consiglio la lettura dell’ottimo libro del Dr. Robert Fugate, The Bible: God’s Words to You (La Bibbia: le parole di Dio per te)[2]. Si tratta di un libro molto ben scritto. Io proverò adesso ad esporvi, molto brevemente e con la massima chiarezza possibile (il che è una vera e propria sfida, date le mille pagine di cui consta il libro), la sostanza di questa dottrina. E penso che, ancora una volta, come già fatto nel caso della spiegazione concernente lo strumento e il lato umano dell’ispirazione, ricorrerò ad un’analogia.
Pensate all’incarnazione di Gesù Cristo. La Persona divina di Dio Figlio assume la natura umana. Non prende per sé una persona umana, ma una natura umana. E la natura divina e quella umana sono così inseparabili che ciò che si dice di una natura si può dire pure della Persona nel suo insieme. Così accade che Gesù è stanco, per esempio, anche se la sua natura divina no. D’altra parte, è possibile affermare come Gesù sia onnipresente, anche se non così la sua natura umana. Atti 20:28 dice che Dio ci ha acquistato con il suo proprio sangue. Ma come può dirlo? Dio non ha sangue. Questo è vero, ma Gesù è sia Dio che uomo, e Gesù ci ha acquistato proprio con il suo stesso sangue – e Gesù è Dio. Quindi la dottrina della communicatio idiomatum consiste in ciò: qualunque cosa si possa dire di una delle nature di Cristo, si può dire anche della Persona di Cristo. Sebbene l’umano e il divino non vengano confusi, anzi vengano chiaramente distinti, non possono comunque essere separati.
E usare l’incarnazione di Cristo come analogia potrebbe aiutarci a capire come le Scritture (che sono le parole stesse di Dio comunicate dalla sua mente alla nostra mente) possono essere “incarnate” nel linguaggio, nelle emozioni e negli idiomi umani senza in alcun modo contenere errori.
Lo studioso riformato del XIX secolo, Charles Hodge, disse:
Se un ebreo fosse stato ispirato, avrebbe parlato ebraico; se fosse stato greco, avrebbe parlato greco; se uomo colto, avrebbe parlato da uomo di cultura; se ignorante, avrebbe parlato com’è solito parlare un uomo simile. Se la sua mente fosse stata logica, avrebbe ragionato come fece Paolo; se emotivo e contemplativo, avrebbe scritto come scrisse Giovanni. Tutto ciò ha a che fare col fatto che Dio usa i suoi strumenti secondo la loro natura[3].
Suo figlio, Archibald A. Hodge, scrisse:
La Bibbia è il libro più intensamente e completamente umano che sia mai esistito… Si basa su intuizioni umane; procede lungo le linee della logica umana; implica sentimenti, gusti, esperienze umane. Ogni singolo libro è un’opera spontanea del genio umano e porta i segni di tutte le idiosincrasie personali e della situazione storica del suo autore. L’individualità di Pietro, Paolo, Giovanni, Davide, Isaia e Mosè è espressa pienamente nei loro scritti così come quella di Shakespeare o di Milton nei loro… Ciascuno di questi libri era anche un libro del suo tempo – portava i segni della propria epoca ed era specificamente adattato per raggiungere il suo scopo immediato tra i suoi contemporanei. In questi libri si ritrovano i provincialismi di pensiero e di linguaggio propri della situazione dei loro scrittori… Di tutti i libri, è il più comprensibilmente umano. Di tutte le opere di Dio, è quella più tipicamente divina[4].
La dottrina dell’ispirazione che ho appena esposto è l’insegnamento standard della chiesa storica e di tutto l’evangelicalismo. E si adatta perfettamente alla descrizione data in Apocalisse 1, versi 1 e 2. Non un frammento di questo libro non ha avuto origine da Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo; eppure, Giovanni lo vide, lo scrisse, lo testimoniò e fu molto attivo nella produzione di questo meraviglioso libro.
Attraverso l’intero libro Giovanni esprime i propri pensieri, sentimenti, perplessità e reazioni. Nel versetto 4 dice: “Giovanni, alle sette chiese…”. Beh, non potrebbe dire questo se la teoria dell’ispirazione dettata fosse corretta. Sebbene sia una rivelazione di Gesù, è anche una parola di Giovanni nella sua veste di apostolo sulle chiese di quella regione. Più in là esamineremo anche la dottrina del governo della chiesa in cui Giovanni rappresenta l’Assemblea Generale dell’Asia Minore e scrive ai presbiteri che si trovano in sette città e nei loro dintorni.
Ma il punto è ancora una volta che Giovanni è da vedersi come molto attivo e presente nel processo di scrittura tutto. Nel versetto 9 dice: “Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos…”; beh, queste sono le parole di Giovanni o le parole di Dio? Sono evidentemente entrambe le cose: sono le parole di Dio pronunciate attraverso lo strumento da Lui preparato.
In altre parole, Dio non sta dettando a Giovanni, ignorando quelle che sono le sue facoltà intellettive. Non è così che funziona l’ispirazione. Dio sta usando Giovanni e il vocabolario di Giovanni (che Dio aveva comunque preparato in anticipo) per scrivere la Sua rivelazione. Nel versetto 12 Giovanni racconta della sua reazione all’udire improvvisamente una voce (“…mi voltai per vedere chi mi stava parlando”, scrive). E altrove lo si vede esprimere stupore, dolore, gioia, ecc., ecc. Tutta la personalità, l’esperienza, la posizione di apostolo di Giovanni e persino il vocabolario e la grammatica fanno parte dell’incarnazione della Parola di Dio in questo libro. È ciò che fa sì che le Scritture abbiano un tale impatto su di noi. È ciò che ci rende capaci di identificarci con la Parola di Dio. Questa è “incarnata” in forma umana.
Ho menzionato la grammatica – sono stati scritti interi libri sul vocabolario e sulla speciale grammatica del Vangelo, delle epistole e dell’Apocalisse. Ma i commentari più datati a volte si mostrano incapaci di cogliere tali aspetti tecnici tendendo a pensare che Giovanni scada in errori grammaticali. Questa ovviamente è una visione delle cose semplicemente errata. Giovanni, infatti, è impegnato in un’azione comunicativa piuttosto particolare: esprime il pensiero ebraico agli ebrei utilizzando il veicolo della lingua greca. E noi scopriamo sempre più come i frequenti ebraismi non siano errori, ma prodotti linguistici intenzionali. Si tratta di meravigliosi pensieri ebraici che non potrebbero essere comunicati in nessun altro modo. Persino alcuni liberali come Charles riconobbero questo aspetto. Egli disse: “Mentre scrive in greco, pensa in ebraico, e il pensiero ha naturalmente influenzato il veicolo di espressione”[5]. È uno dei motivi per cui amo così tanto il libro dell’Apocalisse: è così ebraico nella sua essenza. Ma è proprio questa ebraicità diffusa che merità particolare attenzione, poichè apporta alcune differenze per quel che riguarda la traduzione da esaminare accuratamente, anche già nel primo capitolo, come vedremo.
L’importanza di comprendere l’intento autoriale di Giovanni (vv. 2,4,9,10,12, ecc.)
È stata cosa buona aver illustrato piuttosto estensivamente la dottrina dell’ispirazione. Ma, come già accennato in precedenza, il motivo principale per cui ho dedicato tanto spazio alla descrizione del lato umano dell’ispirazione è quello di dimostrare la legittimità di porre la domanda: “Cosa intendeva comunicare Giovanni?”
Ricorderete – due sermoni fa vi avevo letto alcune citazioni di certuni critici letterari convinti di come l’intento autoriale fosse in fin dei conti privo di significato e, comunque, impossibile da determinare. Uno di questi rivendicava per sé il diritto di stabilire il significato di un’opera e ritenere la propria opinione personale tanto legittima quanto quella dell’autore. Il postmodernismo ha distrutto l’interpretazione rimuovendo ogni oggettività nella scoperta dell’intento originale in vari ambiti: nella letteratura e molto visibilmente purtroppo anche nella giurisprudenza (come mostrano i nostri giudici, i quali con grande insipienza e disonestà si rifiutano sempre più spesso di render giustizia alla costituzione) …e, poi, sicuramente anche nell’esegesi biblica. Proprio la settimana scorsa ho parlato con un cristiano, il quale sosteneva come nessuno fosse in grado di arrivare ad afferrare le linee guida della Bibbia sulla pena capitale per omicidio. Secondo quest’uomo, ognuno ha un’opinione diversa sul significato delle Scritture e ogni opinione è da ritenersi legittima. Ma ciò non è per nulla vero. È per tal ragione che in questa serie di sermoni ci impegneremo nello stabilire l’intento originale di Giovanni.
Le regole di John Piper per l’individuazione dell’intento originale (intento autoriale)
Per concludere, vorrei porre alla vostra attenzione alcune regole scritte da John Piper, utili nello scoprire in ogni libro della Parola di Dio l’originale intento autoriale. La prima di queste regole invita a prestare molta attenzione nel condurre una lettura del testo che cerchi in ogni momento di tenere in primo piano il significato dell’autore, non il nostro.
Troppo spesso i cristiani, accostandosi alla Parola di Dio, cedono alla tentazione di lasciarsi andare ad un’esperienza dal carattere soggettivo ed immediato, non consentendo al testo di “fornire” le giuste indicazioni a proposito di ciò che l’autore volesse che il suo pubblico originale sapesse e sperimentasse. Così facendo, la lettura biblica si avvicina ad essere una sorta di “flusso di coscienza” che vede le parole del testo impattare sulle emozioni e sui pensieri personali. Ma, prima o poi, una tale attitudine degenererebbe certamente nel liberalismo. La raccomandazione formulata da Piper è, invece, questa: “Quando leggiamo, vogliamo sapere cosa l’autore intendesse farci vedere e sperimentare nel suo scritto. Aveva un’intenzione quando ha scritto. Nulla potrà mai cambiarla. È lì come un evento passato ed oggettivo nella storia”[6].
Siamo dunque chiamati a scoprire il significato esistente al momento della stesura del testo e che in esso è stato per noi conservato. Ma come lo si trova questo significato?
Piper, a tal fine, dà questa indicazione: è necessario porre domande al testo.
E, tra l’altro, fare domande è anche una buona strategia per rendere la nostra mente più attiva e flessibile in generale. È qualcosa che consiglio vivamente anch’io. Quando la nostra mente si trova di fronte a un problema da risolvere, a un mistero da svelare oppure a un enigma da decifrare, allora viene chiamata ad uno sforzo e ad un impegno maggiormente produttivo. Troppo spesso affrontiamo la lettura della Parola con una certa indolenza. Ma, ponendo delle domande al testo, costringiamo la nostra mente a porsi delle sfide da risolvere; facciamo sì che, quindi, la nostra mente non passi infruttuosamente davanti ai meravigliosi ed utili contenuti della Bibbia.
Ecco il tipo di domande che ci si potrebbe porre: “Che cosa significa questa particolare parola? E quale significato specifico assume in questa determinata frase?” (Perché sappiamo come le parole possano avere più accezioni a seconda del contesto). Constatando di avere a che fare con un termine poco chiaro o sconosciuto, allora ovviamente si può far ricorso ad un dizionario. Ma spesso, l’atto stesso di sollecitare la propria mente ponendosi tali quesiti, ci permette di schiarirci le idee efficacemente. Quando Giovanni dice “alle sette chiese che sono in Asia”, è possibile che ci si chieda: “Che cosa significa Asia?”. Beh, consultando un atlante storico, per esempio, scopriremmo come la regione dell’Asia antica corrisponda all’odierna Turchia. Ed essersi posti questa domanda ci costringe a capire che considerare queste chiese un “simbolo generale di tutte le chiese” non possa essere un’opzione accettabile, giacché tali chiese sono storicamente davvero esistite in quella particolare regione. Eppure, un numero sorprendentemente alto di commentari non considera le lettere alle sette chiese del capitolo 2 e 3 come chiese letterali nell’Asia del I secolo; in molti pensano di poterle trattare come sette simboli di sette epoche diverse. Ma, il punto è che, nonostante quelle lettere presentino effettivamente dei simboli, le chiese e l’Asia non sono simboli.
In ogni caso, dopo aver riflettuto sul significato particolare di singole parole si potrebbe poi passare a farsi delle domande sul significato di intere locuzioni, cioè quei gruppi di parole privi di verbo. Leggendo, per esempio, “mettete a morte il peccato per mezzo dello Spirito”, ci è possibile individuare due locuzioni. Quando ci si chiede cosa significhi la frase “per mezzo dello Spirito” in relazione al mettere a morte il peccato, si capisce come si elimina il peccato. Non cerchiamo di eliminarlo fustigandoci, affamandoci o anche sforzandoci di più alla maniera dei farisei (i quali, tuttavia, fallivano miseramente nel loro intento). Paolo vuole che mettiamo a morte il peccato per mezzo dello Spirito e in nessun altro modo. Chiedendosi della relazione tra le due locuzioni del versetto appena citato, andiamo a scavare più a fondo nel testo e a mettere in discussione la nostra esperienza: non c’è possibilità di scadere in comportamenti difettosi legati al nostro personale intendimento errato.
Dopodiché Piper invita a chiedersi delle relazioni che intercorrono tra le varie proposizioni. Ve lo cito:
Una proposizione è un gruppo di parole con un soggetto e un verbo. Il modo in cui le proposizioni si relazionano tra loro è una delle questioni più importanti che possiamo considerare. Spesso c’è una piccola parola di congiunzione che contiene la risposta (ad esempio, ma, se, e, quindi, in modo che, perché, ecc.). A volte le principali differenze tra intere teologie sono legate a questi connettori.
Ciò vuol dire che un “perché” non lo si può ignorare così a cuor leggero: è un importante elemento che mostra una relazione di dipendenza. Un “ma” mostra un contrasto tra i pensieri di due proposizioni; un “se”, invece, ne indica contingenza e così via. Ora, mi rendo conto come passare in rassegna questo genere di regole possa forse sembrare un po’ sciocco, nel senso che sono tutte cose abbastanza conosciute e comuni. Tuttavia, il motivo per cui trovo rilevante evidenziarle per l’economia di questa nostra trattazione è che è sempre piuttosto sorprendente vedere quanti punti di vista diversi sull’Apocalisse spesso derivino proprio dall’ignorare questo tipo di elementi linguistici. Non avremo tempo di approfondire l’argomento questa volta, ma la mia libreria è piena di commentari che, ad esempio, falliscono nel registrare una qualsiasi sequenza storica nelle varie visioni di Giovanni, nonostante la presenza di espressioni quali “allora”, “dopo questo”, “dopo queste cose”, “il secondo ‘guai’ è passato”, “il terzo ‘guai’ verrà presto”, ecc. Ignorando l’importanza di tali elementi si finisce, purtroppo, per confondere gli eventi. Anche nel primo capitolo c’è molta polemica su cosa possa significare il versetto 9. Eppure, prendendo sul serio la parola “e”, come normale espressione ebraica nel cristianesimo ebraico, trovo infatti come non possa nascere nessun disaccordo su questo brano.
L’aspetto successivo che Piper ritiene importante considerare è il seguente: “Chiedetevi come il contesto aiuti a definire il significato di parole e locuzioni”. Se il contesto è quello del I secolo, allora non si può arbitrariamente collegare l’elemento frasale successivo alla distante Seconda venuta. Eppure, un errore del genere lo si può comunemente registrare in tantissimi commentari. Il punto è che dev’essere il contesto a “governare” l’analisi del testo. Il contesto è di fondamentale importanza.
Dopo di ciò bisognerà chiedersi: “In che modo questo passaggio si collega alle altre parti della Parola di Dio?” La maggior parte degli errori nell’interpretazione dell’Apocalisse sono causati proprio dall’incapacità di affrontare questa domanda. Sono molte le pubblicazioni che hanno studiato la relazione tra l’Apocalisse e l’Antico Testamento riconoscendo come l’ultimo libro della Bibbia abbia più riferimenti all’Antico Testamento di qualsiasi altro libro in assoluto. Il Novum Testamentum Graece (“Nuovo Testamento in greco”) di Nestle-Aland contiene ben 635 riferimenti incrociati a passaggi dell’Antico Testamento e il commentario di van der Waal indica la presenza nell’Apocalisse di circa 1000 allusioni all’Antico Testamento. Da ciò, capiamo bene come si rischi di perdersi veramente un mucchio di cose importanti mancando di prendere visione di tutti questi riferimenti, allusioni e collegamenti. Giovanni era saturo dell’Antico Testamento e per comprendere il suo impegno profetico – che precedentemente, ricorderete, abbiamo paragonato all’esercizio di una vera e propria azione legale mossa per violazioni pattizie della Parola di Dio – non possiamo che immergerci noi stessi negli scritti veterotestamentari. È questo il punto che praticamente vede tutti i futuristi, idealisti e storicisti fallire miseramente. Gli esponenti di queste scuole mancano di trattare questo libro come una profezia, vale a dire come un procedimento giudiziario contro le chiese e le nazioni dei tempi di Giovanni.
Avere una Bibbia con riferimenti incrociati può certamente essere di grande aiuto. Ho già menzionato l’imponente opera di Beale e Carson, Commentario sull’uso dell’Antico Testamento nel Nuovo Testamento. Ma anche solo i semplici riferimenti incrociati presenti in molte Bibbie rappresentano un buon inizio: non sono da ignorare. Molte volte possono sbrogliare la matassa fugando dubbi e confusione che potremmo avere sul significato di un certo versetto.
Un’altra domanda da porsi riguarda i risvolti pratici dello studio della Parola. La domanda è questa: “Quale cambiamento intende provocare l’autore nei suoi lettori?” Già abbiamo visto come l’Apocalisse sia stata concepita come un manuale pratico destinato specificamente agli schiavi di Dio. Giovanni non la scrisse come un esercizio puramente accademico. Il versetto 3, inoltre, ci indica come l’autore voglia che i suoi lettori e ascoltatori siano benedetti dal libro e obbediscano al suo contenuto. La Parola di Dio, quindi, prevede sempre un cambiamento da parte nostra.
Eccovi adesso ancora un’altra citazione da parte di Piper:
Lo scopo della nostra lettura della Bibbia non è solo la reazione della mente, ma del cuore. L’intera gamma delle emozioni umane è una possibile risposta al significato della Bibbia. Dio ci ha dato la Bibbia non solo per informare le nostre menti, ma anche per trasformare i nostri cuori, i nostri affetti. La parola di Dio viene onorata non solo se viene compresa correttamente, ma anche se viene sentita correttamente.
Sulla base di ciò, quando ci confrontiamo con un brano della Bibbia, siamo invitati a porci questa domanda: “Qual è la reazione appropriata da parte del mio cuore?”
Piper conclude questa serie di indicazioni sulla lettura della Parola di Dio con una sollecitazione. Egli dice: “In ogni pagina, prega e chiedi l’aiuto di Dio”.
Quando leggo la Scrittura, prego sempre affinché Dio mi doni saggezza. A volte lo faccio usando queste parole del re Davide: “Apri i miei occhi, e contemplerò le meraviglie della tua legge” (Salmo 119:18). John Piper, dal canto suo, propone la seguente preghiera: “O Signore, inclina i nostri cuori alla tua parola. Dacci di desiderarla. Apri i nostri occhi per vedervi le sue meraviglie. Sottometti la nostra volontà e donaci uno spirito obbediente. Soddisfa i nostri cuori con una visione di te stesso e della tua via per la nostra vita”[7].
La mia preghiera è che Dio per il tramite di questo sermone vi abbia aperto gli occhi su due cose nuove: l’incredibile ruolo che gli angeli svolgono nelle vostre vite e, in secondo luogo, gli aspetti divini e umani nell’ispirazione della Scrittura – cose, queste, che ritengo molto importanti da sapere. Ma prego anche che questi due punti vi diano una fede rinnovata per essere santificati e cambiati mentre studiate questo meraviglioso libro. Così sia, Signore Gesù. Amen.
Originale: https://biblicalblueprints.com/Sermons/New%20Testament/Revelation/Revelation%201_1-11/Revelation%201_1c?utm_source=kaysercommentary.com
[1] Questa è una traduzione basata sul testo “maggioritario” di Pickering (f35).
[2] Questo libro può essere acquistato in lingua inglese su http://www.LordoftheNations.com
[3] Charles Hodge, Systematic Theology, volume 1, (Grand Rapids: Eerdmans, 1986), p. 157.
[4] Archibald A. Hodge, Evangelical Theology, (Carlisle, PA: Banner of Truth, 1976), pp. 72-74.
[5] Charles, volume 1, pag. cxliii, come citato da G. K. Beale e D. A. Carson (a cura di), Commentary on the New Testament Use of the Old Testament, (Grand Rapids: Baker, 2007), p. 1087.
[6] John Piper, vedi http://www.desiringgod.org/articles/how-to-read-the-bible-for-yourself
[7] John Piper, vedi http://www.desiringgod.org/articles/how-to-read-the-bible-for-yourself